Tre storie di imbrogli alle Olimpiadi
Lo schermitore sovietico che manomise il circuito elettrico della sua spada, la velocista portoricana che fece correre la gemella, e lo svedese che si pentì di essersi bevuto due birre
Nella storia delle Olimpiadi ci sono molte storie di imbrogli o irregolarità, alcune anche piuttosto improbabili e creative. Ai Giochi di Montréal del 1976, per citarne una, il pentatleta sovietico Boris Onischenko si presentò con una solida carriera alle spalle. Campione del mondo individuale nel 1971, quattro volte campione del mondo e campione olimpico a squadre, alle competizioni 1976 venne raccontato come il favorito.
Tra le cinque discipline del pentathlon moderno, Boris Onischenko eccelleva nella scherma, ma decise comunque di imbrogliare: installò sotto l’impugnatura della spada un interruttore che, una volta azionato, era in grado far accendere tramite un circuito chiuso il tabellone e di indicare una stoccata a suo favore anche se la punta dell’arma non aveva toccato il corpo dell’avversario.
Durante un incontro il britannico Jim Fox si accorse però che a Onischenko venivano ripetutamente assegnati dei punti senza che quest’ultimo nemmeno lo sfiorasse. Sospettando una semplice anomalia chiese ai giudici di verificare il sistema di collegamento della spada di Onischenko. Gli arbitri sequestrarono l’arma e scoprirono l’inganno. Onischenko si difese immediatamente sostenendo che la spada non fosse di sua proprietà, ma dopo una lunga riunione la giuria sentenziò che la spiegazione data dall’atleta «non era convincente».
Onischenko, che era anche un ufficiale dell’esercito sovietico, fu squalificato dalle Olimpiadi e, tornato in Russia, venne radiato dalla sua federazione ed espulso dall’esercito.
Qualche anno dopo, nel 1984, l’atleta 26enne di Porto Rico Madeline de Jesús partecipò per la prima volta alle Olimpiadi che quell’anno si tennero a Los Angeles. Specialista nelle gare di salto in lungo ma anche ottima velocista, Madeline de Jesús iniziò i Giochi con la gara di qualificazione del salto in lungo. Era l’8 agosto, c’erano ventiquattro partecipanti per i dodici posti della finale e al termine dei suoi tre tentativi l’atleta portoricana concluse al ventunesimo posto: il suo miglior salto fu di 5,63 metri, lontano dal suo record personale (6,49 metri nel 1983).
Non era comunque questa la sua preoccupazione principale. Saltando, Madeline de Jesús si infortunò il tendine del ginocchio compromettendo la sua partecipazione ai Giochi. La delegazione portoricana rischiava soprattutto di perdere una delle sue quattro atlete nella staffetta 4×400 metri di atletica leggera prevista per il 10 agosto.
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All’epoca alla gara 4×400 metri, tra batterie e eventuali finali, potevano partecipare fino a sei persone intercambiabili tra loro. Se un’atleta gareggiava nelle batterie ma poi non partecipava alla finale riceveva comunque una medaglia in caso di vittoria. Così, ai Giochi di Los Angeles del 1984 furono sei le atlete statunitensi che salirono sul podio al primo posto, comprese Diane Dixon e Denean Howard, che corsero nelle gare di qualificazione. La squadra di Porto Rico non aveva però sufficienti atlete e senza Madeline de Jesús si sarebbe dovuta ritirare.
La soluzione fu dunque quella di chiamare la sua gemella Margaret, specializzata nei 400 metri: non era riuscita a qualificarsi per quelle Olimpiadi, ma si trovava a Los Angeles per sostenere la sorella. Così Margaret de Jesús vestì i panni di Madeline e il 10 agosto fu lei a correre e a contribuire alla qualificazione alle finali della squadra di Porto Rico.
L’imbroglio funzionò, ma solo per poco. Un giornalista portoricano che conosceva le due sorelle riuscì a distinguere Margaret da Madeline de Jesús a causa di un neo che una delle due aveva sulla guancia e l’altra no.
Quando il capo della delegazione olimpica portoricana venne a conoscenza dell’inganno, ritirò immediatamente la squadra dalla finale della 4×400. Dopo un’indagine condotta dal Comitato olimpico nazionale di Porto Rico, Madeline e Margaret de Jesús vennero squalificate a vita, sanzione che venne poi revocata qualche anno dopo, consentendo a Madeline di partecipare ai Giochi Olimpici di Seul del 1988. Dall’indagine risultò anche che l’allenatore della squadra della staffetta, Francisco Colon Alers, era a conoscenza della frode: venne dunque squalificato a vita dalle competizioni internazionali, mentre le altre tre atlete della squadra, a loro volta complici, ricevettero una sospensione di un anno.
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Una terza storia ha meno a che fare con un deliberato inganno, almeno così sembra. A metà del Novecento, con l’avvento del professionismo e la diffusione degli sport su scala internazionale, il doping diventò un problema da risolvere. In quel periodo ci furono infatti diversi collassi e morti al termine delle gare che convinsero il Comitato olimpico internazionale (CIO) della necessità di istituire un elenco di sostanze proibite e, soprattutto, di predisporre un sistema di controlli e monitoraggio degli atleti che entrò in funzione nel 1968, in tempo per le Olimpiadi invernali di Grenoble e per le Olimpiadi estive di Città del Messico.
Proprio in Messico il primo atleta della storia a farne le spese fu il 27enne svedese Hans-Gunnar Liljenwall. Gareggiava nel pentathlon e vinse il bronzo, ma fu successivamente squalificato perché gli venne rilevata una quantità ritenuta eccessiva di alcol in corpo. Lui disse di aver bevuto due birre per calmarsi e per scaricare la tensione prima della gara di pistola, come all’epoca erano soliti fare molti atleti, ma dovette restituire la medaglia.
L’alcol era stato inserito nell’elenco delle sostanze proibite perché, come altre storicamente più associate al doping, la sua assunzione poteva alterare la percezione della fatica, delle temperature e di eventuali stati di disidratazione: tutte condizioni che fin lì erano state spesso fatali nei casi più gravi poi rimasti nella storia.