Cosa vuol dire essere intersessuali
Ora che se ne sta parlando per il caso della pugile Imane Khelif, e che è venuta fuori una certa confusione
Della pugile algerina Imane Khelif, da ieri al centro di enormi attenzioni mediatiche spesso violente e morbose per via della sua contestata partecipazione alle Olimpiadi, è stato detto inizialmente che potesse essere trans, un’ipotesi che però non risulta in nessun modo. Poi l’ipotesi che è stata data per buona un po’ da tutti è che sia intersessuale, anche se lei non ha mai detto niente a proposito, e le informazioni pubbliche sui test medici che negli anni le sono stati fatti per stabilire se potesse competere o meno come donna non sono sufficienti per dirlo.
L’intersessualità è una condizione poco nota, e molti si sono chiesti in queste ore se sia effettivamente possibile che una donna che non ha fatto nessuna transizione abbia cromosomi sessuali maschili, o livelli fisiologicamente molto alti di testosterone, o ancora organi sessuali sia maschili che femminili. Come spiegato approfonditamente nel secondo numero della rivista del Post Cose spiegate bene, dedicato all’identità di genere, non solo è possibile, ma nello spettro delle variazioni intersessuali rientrano moltissime condizioni diverse, che per quanto rare se considerate tutte assieme riguardano milioni di persone.
Le persone intersessuali, o intersex, sono persone nate con caratteristiche atipiche in quegli aspetti del corpo umano legati al sesso. Queste atipicità possono riguardare i genitali esterni (quindi la vulva, il pene, i testicoli) e quelli interni (come le ovaie e l’utero), ma anche i cromosomi sessuali (solitamente XX nelle femmine, XY nei maschi) o altre parti del DNA, e gli ormoni.
Un esempio tra tanti è quello della sindrome di Morris, una delle variazioni più note e diffuse dello spettro dell’intersessualità, che è detta anche sindrome da insensibilità agli androgeni: le persone che ce l’hanno hanno cromosomi maschili, ma sono insensibili agli ormoni che nei primi mesi di vita del feto provocano lo sviluppo dei genitali maschili e per questo nascono e vivono con organi sessuali femminili e un corpo da donna. Nella maggior parte dei casi queste atipicità non hanno conseguenze sulla salute delle persone: l’intersessualità non è insomma una malattia.
Può capitare che una persona intersessuale scopra di esserlo durante l’adolescenza o in età adulta, magari dopo essersi sottoposta a degli esami per l’infertilità, o che non lo scopra mai. Peraltro l’idea che sta passando sui media in questi giorni, che una donna intersessuale possa essere riconosciuta come tale solo a giudicare dal suo aspetto, è fuorviante: ci sono casi di uomini e donne intersessuali che non sembrano, rispettivamente, particolarmente femminili o maschili, così come persone che pur avendo un aspetto androgino non sono intersessuali.
Le condizioni di intersessualità più note sono una quarantina, ma si arriva a più di sessanta se si includono le più rare, e potrebbero essercene altre non ancora scoperte. Non ci sono conteggi precisi sul numero di persone intersessuali nel mondo, ma secondo la stima più citata, realizzata nel 2000 dalla biologa ed esperta di intersessualità Anne Fausto-Sterling, sarebbero l’1,7 per cento della popolazione, quindi più di cento milioni. Altri studi sostengono che siano meno: in generale è difficile calcolarlo per via della scarsità di dati e del fatto che non c’è un accordo generale sulla definizione di intersessualità.
Negli ultimi decenni nella scienza si è aperto un dibattito intorno all’ipotesi che il sesso non sia binario, quindi con una distinzione netta tra maschile e femminile, come lo si è sempre considerato, ma che sia invece uno spettro, in cui poter far rientrare anche le persone con caratteristiche biologiche atipiche, o sia maschili che femminili. Questo approccio è però difficilmente compatibile con una serie di abitudini, norme e strutture molto radicate nella società. Lo sport è uno degli esempi più evidenti perché, salvo poche eccezioni, è da sempre rigidamente diviso tra competizioni maschili e femminili.
Su questo tema è nato negli ultimi anni un enorme, delicato e complesso dibattito nelle federazioni sportive. Il tentativo di stabilire come valutare l’ammissione di atlete con caratteristiche fisiche mascoline alle competizioni femminili, tutelando al contempo i loro diritti e i diritti delle atlete su cui potrebbero avere netti vantaggi competitivi, è ancora senza una risposta definitiva.
Il criterio che si è affermato di più negli ultimi anni per stabilire se un’atleta può competere nelle categorie femminili o no è quello che si basa sui livelli di testosterone, ma è stato gradualmente messo in discussione perché non esiste al momento una posizione unanime della comunità scientifica rispetto alla correlazione tra i suoi livelli e i risultati sportivi. La stessa Imane Khelif, per esempio, è stata giudicata idonea a competere come donna dal Comitato olimpico e non idonea dall’IBA, la federazione internazionale di boxe; e nella sua carriera ha battuto alcune atlete, ma è stata anche sconfitta da altre.
La persona intersessuale forse più famosa al mondo è la mezzofondista e velocista sudafricana Caster Semenya, che per anni ha portato avanti una battaglia contro la World Athletics per poter continuare a competere nelle gare femminili senza dover fare terapie ormonali, e ha parlato spesso della sua storia e di quello che ha passato per via del proprio aspetto e della propria condizione.
In un recente articolo scritto per il New York Times e riadattato dal suo libro The Race to Be Myself, Semenya racconta di essere stata sottoposta alla sua prima visita ginecologica a 18 anni, prima dei suoi primi campionati mondiali, per via del suo aspetto considerato mascolino. Allora non trovarono niente di anomalo ma scoprì dopo, con altri esami, di avere cromosomi XY, alti livelli di testosterone e dei testicoli interni, al posto delle ovaie.
Semenya racconta che inizialmente le dissero che se avesse voluto continuare a gareggiare come donna avrebbe dovuto operarsi per rimuovere i testicoli interni, ma che lei si rifiutò perché «ero in salute, amavo il mio corpo, e mi aveva resa una campionessa. Perché avrei dovuto mutilarmi per essere conforme alle regole di qualcun altro?».
Cominciò però ad assumere ormoni femminili per abbassare il proprio livello di testosterone ed essere ammessa alle competizioni internazionali: la terapia ormonale la faceva stare malissimo, ma la interruppe solo quando un’altra atleta, l’indiana Dutee Chand, anche lei con livelli di testosterone sopra la media, fece causa alla World Athletics e la vinse.
È la stessa cosa che racconta anche la presentatrice televisiva e attivista per i diritti delle persone intersessuali Emily Quinn, anche lei con la sindrome di Morris, in un Ted Talk nel 2018: nonostante stesse bene, le era stato consigliato di farsi asportare chirurgicamente i testicoli con la motivazione che avrebbe potuto sviluppare un tumore. Facendo qualche ricerca scoprì però che il rischio che accadesse non era più alto di quello di una qualsiasi donna di sviluppare un tumore al seno, e decise di non farlo.
Quella delle operazioni chirurgiche superflue, a volte fatte in giovanissima età, è la questione su cui attiviste e attivisti per i diritti delle persone intersessuali insistono di più e che è ancora molto attuale e poco affrontata. Nel 2000 Anne Fausto-Sterling aveva stimato che tra il 1955 e il 1998 una o due persone su mille tra quelle con atipicità visibili alla nascita fossero state operate ai genitali per essere «normalizzate». Questi interventi sono spesso motivati dalla tendenza a voler eliminare aspetti atipici e considerati non conformi, più che da reali motivi di salute.
Una condizione su cui spesso si interviene per esempio è l’iperplasia surrenale congenita: le bambine che nascono con questa condizione possono avere una clitoride più grande della media e in alcuni casi vengono sottoposte a una riduzione chirurgica delle sue dimensioni – che, tra le altre cose, può impedire loro di raggiungere l’orgasmo da adulte – per motivi puramente estetici. Una condizione più rara è quella dovuta al deficit dell’enzima 5-alfa-reduttasi, che causa uno sviluppo ridotto dei genitali maschili. È raccontata in un film italiano del 2015, Arianna di Carlo Lavagna, in cui la protagonista 19enne, non riuscendo ad avere rapporti sessuali soddisfacenti, indaga sul proprio passato e scopre di essere stata «evirata» a tre anni e cresciuta da femmina, perché il suo pene era più piccolo rispetto agli standard.
Succede ancora oggi in moltissimi paesi, appena dopo la nascita o nei primi anni di vita, quando le persone interessate non possono dare il proprio consenso. La scelta viene lasciata alle famiglie, che solo raramente riescono a prendere una decisione davvero informata. Più spesso sono condizionate dal timore che i figli crescano in una condizione di diversità. Gli interventi di femminilizzazione o mascolinizzazione però possono avere effetti collaterali anche gravi, come infertilità, problemi di incontinenza e perdita di sensibilità sessuale, e c’è la possibilità che l’identità di genere della persona operata si discosti poi dal sesso assegnato legalmente e attraverso la chirurgia.
In Italia, così come nella maggior parte dei paesi, non esistono linee guida o protocolli nazionali che regolino il trattamento medico per chi alla nascita mostra una condizione di intersessualità. Non esistono al momento neanche ricerche quantitative esaustive che dicano cosa succede oggi a chi nasce con caratteristiche intersessuali visibili in Italia, ma da uno studio qualitativo condotto da Nicole Braida sappiamo che nel 2011 gli interventi chirurgici in età precoce venivano ancora praticati in diversi ospedali, su decisione arbitraria del personale medico coinvolto. Le ricerche di Michela Balocchi hanno inoltre evidenziato come fino al 2014 i protocolli redatti da alcuni grandi ospedali italiani prescrivevano di intervenire chirurgicamente sulle persone intersessuali appena nate anche solo per ragioni estetiche, sostenendo senza evidenze scientifiche che questo avesse effetti positivi anche a livello psicologico e ignorando invece l’impatto sulla salute mentale di un intervento precoce.
Nel 2023 l’Istituto Superiore di Sanità ha avviato Infointersex, un sito pensato per dare informazioni alle persone intersessuali sia in ambito sanitario che giuridico. Parte dal presupposto che «l’ordinamento giuridico italiano non riconosce la specificità della condizione intersex» e che spesso queste persone vengono sottoposte a interventi chirurgici «non risolutivi che, anche dopo la eventuale terapia medico-chirurgica, rendono la persona oggetto di una medicalizzazione perenne e forzata e spesso peggiorano il suo stato di salute».
Le persone intersessuali sono rappresentate dalla lettera I nella sigla LGBTQIA, anche se la loro è una condizione biologica e non qualcosa che definisce la loro identità (né che c’entra con il loro orientamento sessuale). Salvo per chi fa attivismo, per cui a volte il fatto di essere intersessuale assume anche questa connotazione. Semenya, che pure ha descritto pubblicamente la propria condizione in modo molto dettagliato, scrive nel suo libro: «sebbene capisca che i medici mi definiscono intersex per il modo in cui i miei organi sono fatti, io non mi definisco così. Quell’identità non mi si addice, non si addice alla mia anima».
Il motivo per cui le persone intersessuali rientrano nella sigla LGBTQIA è che la medicalizzazione che viene loro imposta è causata dagli stessi stereotipi sulle identità sessuali con cui hanno a che fare anche le persone omosessuali o trans. Le famiglie di giovani persone intersessuali spesso agiscono per evitare loro di essere vittime dei pregiudizi altrui, o credono che con la chirurgia non diventeranno omosessuali o trans, senza sapere che le due cose non sono correlate all’intersessualità (anche se naturalmente, come tutti, anche le persone intersessuali possono essere trans o omosessuali), causando anche forti sofferenze.