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  • Mercoledì 31 luglio 2024

La polemica italiana sulla pugile algerina Imane Khelif

Dopo essere stata esclusa dai Mondiali è stata invece ammessa alle Olimpiadi, e combatterà domani contro Angela Carini

Imane Khelif contro Kellie Anne Harrington alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021 (AP Photo/Themba Hadebe)
Imane Khelif contro Kellie Anne Harrington alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021 (AP Photo/Themba Hadebe)
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Martedì il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha ammesso alle competizioni di boxe due pugili, l’algerina Imane Khelif e la taiwanese Lin Yu-ting, che erano state escluse dai Mondiali femminili di boxe poco più di un anno fa perché i risultati dei loro esami medici non rispettavano i criteri per l’accesso alle categorie femminili dell’International Boxing Association (IBA), l’associazione di riferimento del pugilato professionistico.

Khelif combatterà giovedì contro l’italiana Angela Carini negli ottavi di finale dei pesi welter femminili, e questo ha provocato una serie di polemiche in Italia, che hanno coinvolto tra gli altri il leader della Lega Matteo Salvini, che ha criticato la decisione di ammettere Khelif, definendola “pugile trans”. Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, ha detto che «desta grande preoccupazione sapere che in gare di pugilato femminili alle Olimpiadi siano stati ammessi uomini che si identificano come donne».

In realtà non risulta che Khelif sia una donna trans, lei non ha mai parlato pubblicamente della sua identità sessuale e di genere, né sono pubblici esami medici che lo abbiano mai indicato. Si sa invece per certo che rispetta i criteri per l’accesso alle categorie femminili del CIO, ma non quelli dell’IBA, che inizialmente aveva detto di non voler divulgare i dettagli dell’esclusione, per proteggere la privacy di Khelif e di Yu-ting. I media algerini avevano parlato di un livello troppo alto di testosterone, una versione che è stata confermata in questi giorni dai documenti sugli atleti messi a disposizione dei giornalisti dal CIO, citati tra gli altri dal Guardian, da BBC News e da Libération. Un comunicato della IBA pubblicato dopo le polemiche sull’ammissione di Khelif alle Olimpiadi ha negato che si trattasse di un test sul testosterone, senza però precisare di quale altro tipo fosse, per ragioni di riservatezza.

Ciononostante Khelif è stata identificata come trans da molte persone, specialmente in ambienti conservatori, per via di una cosa che aveva detto ai media russi il presidente della IBA Umar Kremlev, secondo cui «sulla base dei risultati dei test del DNA, abbiamo identificato un certo numero di atleti che hanno cercato di ingannare i loro colleghi e fingevano di essere donne. Sulla base dei risultati dei test, è stato dimostrato che avevano i cromosomi XY. Tali atleti sono stati esclusi dalla competizione».

L’IBA però non è più una federazione affiliata al CIO, da quando fu sospesa nel 2019 per scandali amministrativi e di corruzione. Da allora Kremlev, imprenditore russo molto vicino a Vladimir Putin, ha spostato in Russia la sede dell’organizzazione, il cui sponsor principale è la società petrolifera statale russa Gazprom. CIO e IBA sono organizzazioni oggi rivali, e i loro criteri di ammissibilità per le categorie femminili sono diversi.

Se anche l’affermazione di Kremlev dovesse essere verificata, comunque, non implicherebbe necessariamente che Khelif sia trans, visto che esistono condizioni nello spettro dell’intersessualità per cui potrebbe avere quei cromosomi sessuali pur presentando dalla nascita caratteristiche fisiche prevalentemente femminili. A questo si aggiunge che in Algeria anche solo avere rapporti omosessuali è reato, per cui è decisamente improbabile che Khelif sia riuscita a fare una transizione di genere, cambiare i propri documenti e poi essere selezionata come atleta olimpica per rappresentare la nazione.

Il portavoce del CIO Mark Adams ha ribadito che «tutte coloro che gareggiano nella categoria femminile rispettano le regole di ammissibilità alla competizione». Khelif peraltro aveva già partecipato alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021, uscendo ai quarti di finale per 5 a 0.

La valutazione delle caratteristiche biologiche delle atlete con caratteristiche fisiche riconducibili alla maschilità, e l’eventuale esclusione dalle competizioni di quelle che potrebbero per questo avere un vantaggio competitivo sulle altre, è una questione complessa che ha una lunga storia nello sport e su cui le federazioni e i vari comitati sportivi non hanno ancora trovato una linea comune. A questo proposito il portavoce del CIO Mark Adams ha detto al Guardian che «tutti vorremmo una risposta unica: sì, no, sì, no, ma è incredibilmente complesso».

La complessità è data principalmente dal fatto che nelle competizioni sportive esistono solo due categorie, quella maschile e quella femminile, ma sia a livello biologico che a livello di identità di genere il binarismo non è così rigido: esistono persone la cui identità di genere è diversa da quella legata al proprio sesso (persone trans) e altre che hanno caratteristiche biologiche sia maschili che femminili (persone intersessuali, o intersex).

Il criterio che si è affermato di più negli ultimi anni per stabilire se un’atleta può competere come donna o no è quello che si basa sui livelli di testosterone, l’ormone presente in quantità maggiore negli uomini e che segna la differenza principale tra i due sessi a livello ormonale. Sia una donna trans che una donna con una certa condizione nello spettro dell’intersessualità potrebbero avere livelli di testosterone superiori alla media femminile e quindi anche una maggiore forza fisica. La priorità del testosterone nella valutazione dell’ammissibilità delle atlete negli ultimi anni è però stata gradualmente messa in discussione, anche perché non esiste al momento una posizione unanime della comunità scientifica rispetto alla correlazione tra i suoi livelli e i risultati sportivi.

Se inizialmente alcune federazioni sportive avevano allargato le maglie dell’ammissibilità delle atlete, in modo da includere gradualmente anche donne trans nelle competizioni femminili, in certi casi ci sono stati dei ripensamenti, e i criteri sono stati nuovamente resi più restrittivi. Uno dei casi più discussi degli ultimi anni, e che aveva maggiormente stimolato le discussioni sulla questione, è quello della nuotatrice trans statunitense Lia Thomas, che aveva messo in fila una serie di vittorie schiaccianti nelle competizioni universitarie dopo essere passata dalle categorie maschili a quelle femminili.

Anche in riferimento alla vicenda di Thomas, il dibattito si è concentrato sul momento in cui le atlete trans che vogliono competere nelle categorie femminili hanno iniziato la transizione, cioè se prima o dopo la pubertà. Un corpo biologicamente maschile che è passato per lo sviluppo sessuale ha infatti una forza maggiore e più vicina a quella degli standard sportivi maschili rispetto a uno che è stato sottoposto a terapia ormonale (i cosiddetti bloccanti della pubertà) prima dello sviluppo.

Se è vero che il ricorso a queste terapie prima della pubertà ha cominciato a diffondersi di recente e che quindi non riguarda la maggior parte delle atlete trans che competono oggi (che ad alti livelli sono comunque ancora poche), Thomas è stata esclusa dalle qualificazioni per la squadra olimpica statunitense per Parigi 2024 proprio perché non rispettava i nuovi criteri della World Aquatics, che escludevano dalle categorie femminili le nuotatrici trans che avevano presentato segni della pubertà maschile oltre il secondo livello della scala di Tanner, o comunque oltre i 12 anni.