La conquista italiana del K2, e tutto quello che venne dopo

La spedizione che per prima salì la seconda montagna più alta del mondo fu un successo ma anche una sciagura per chi ne fu coinvolto, a partire da Walter Bonatti

Una delle foto scattate in cima al K2 da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. (Ansa)
Una delle foto scattate in cima al K2 da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. (Ansa)
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La mattina del 31 luglio 1954, settant’anni fa, poco sotto alla cima del K2, la seconda montagna più alta del mondo, c’erano tre uomini italiani e uno pakistano. Due stavano faticosamente salendo le ultime centinaia di metri che li separavano dalla vetta, che avrebbero raggiunto nel tardo pomeriggio assicurando all’Italia il prestigio di una delle imprese più formidabili che l’umanità avesse mai compiuto nell’Himalaya e nel Karakorum. Gli altri due stavano invece scendendo verso un campo allestito più in basso, dopo una notte passata all’addiaccio a ottomila metri e -50 °C, a cui erano sopravvissuti contro ogni probabilità.

Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, tra i più noti alpinisti italiani dell’epoca, arrivarono dove nessuna persona era mai stata prima, al termine di una monumentale spedizione organizzata dal Club Alpino Italiano, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, dall’Istituto Geografico Militare e dallo Stato italiano, che era cominciata oltre un mese prima e che aveva attraversato enormi difficoltà e imprevisti. Walter Bonatti, allora 24enne e destinato a diventare uno dei più grandi e amati alpinisti di sempre, e Amir Mahdi, alpinista e portatore di etnia hunza che l’anno prima aveva già partecipato alla prima salita del Nanga Parbat (8.126 m), non ottennero nessuna gloria, nonostante avessero contribuito in maniera determinante alla riuscita della scalata, ma anzi dovettero battersi per decenni perché venisse riconosciuta la loro versione di quello che era successo quella notte.

La prima ascesa del K2 è ricordata ancora oggi come uno dei più grandi successi delle esplorazioni d’alta quota e dell’alpinismo italiani, celebrata per anni ed entrata rapidamente nelle cronache e nella cultura popolare. Ma fu anche una storia tormentata e controversa, attorno alla quale furono scritti centinaia di articoli, libri, saggi, oggetto di inchieste e ricostruzioni ufficiali e non ufficiali. Bonatti e Mahdi andarono molto vicini alla morte per assideramento per un combinarsi di incomprensioni, scelte sbagliate, imposizioni irragionevoli, ragionamenti politici e rivalità sportive, che furono riconosciute soltanto tra gli anni Novanta e i Duemila.

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Tra le quattordici montagne più alte di ottomila metri, il K2 è una delle quattro del Karakorum, catena montuosa che si sviluppa tra Pakistan, India e Cina, separata dall’Himalaya dalla valle del fiume Indo. È un’enorme piramide di roccia, a cui si accede dopo decine di chilometri di avvicinamento attraverso il ghiacciaio Baltoro, e ancora oggi è considerata uno dei più difficili e pericolosi tra gli ottomila, secondo molti il più difficile e pericoloso di tutti. La via normale, quella relativamente più facile, segue quello che viene chiamato Sperone degli Abruzzi, la cresta che si sviluppa per oltre 3.000 metri sul versante sudest della montagna, e prende il nome da Luigi Amedeo duca degli Abruzzi, celebre esploratore e alpinista italiano che provò a percorrerla nel 1909, senza riuscirci.

Dal 1954 a oggi soltanto qualche centinaio di persone è salito sul K2. Dopo la spedizione italiana del 1954 ci vollero 23 anni perché un’altra, in quel caso pakistano-giapponese, riuscisse a ripetere l’impresa. L’alpinista Reinhold Messner considera il K2 l’ottomila più difficile e pericoloso, e tra gli ottomila è stato l’ultimo a essere scalato in inverno, nel 2021 da una spedizione nepalese.

Arrivare alla base della parete portando tutta l’attrezzatura necessaria è lungo e sfiancante (e lo era a maggior ragione nel 1954), il meteo nel massiccio può cambiare molto rapidamente, e anche la via normale è ripida e presenta diversi passaggi alpinistici impegnativi, che diventano estremi a quelle altitudini. È una scalata che ha poco a che vedere con quella dell’Everest, più alto ma dai versanti più dolci e dalle poche difficoltà tecniche, e per questo scalato ogni anno da centinaia di persone nelle spedizioni commerciali.

Da decenni esploratori e alpinisti di tutto il mondo provavano a scalare gli ottomila dell’Asia, ma soltanto all’inizio degli anni Cinquanta arrivarono i primi successi. L’Annapurna fu il primo, e nel giro di pochi anni seguì gran parte degli altri, compreso l’Everest, conquistato dal neozelandese Edmund Hillary e dallo sherpa
Tenzing Norgay nel 1953. L’Italia voleva il suo posto nella storia delle prime ascensioni himalayane, e lo Stato investì molte risorse scommettendo sul K2. L’organizzazione della spedizione fu affidata ad Ardito Desio, professore e geologo che aveva fatto vari studi sul campo all’estero, che già nel 1953 andò sul posto per vedere da vicino il massiccio e raccogliere informazioni per progettare la salita.

In quegli anni fare l’alpinista era qualcosa a metà tra il modo in cui lo concepiamo oggi e l’avventuriero. Non c’erano sponsor tecnici, chi si dedicava all’attività anche ai massimi livelli faceva un altro lavoro, a volte la guida alpina o comunque qualcosa di legato alla montagna, ma in altri casi anche l’operaio in fabbrica, come Bonatti che in settimana lavorava alla Falck, lo stabilimento siderurgico di Milano, scalando la domenica spesso dopo aver fatto il turno di notte.

Sulle Alpi non c’erano più montagne da salire per la prima volta, ma le cime delle Dolomiti o del massiccio del Monte Bianco erano piene di pareti di roccia o di roccia e ghiaccio su cui aprire nuove vie di arrampicata o “di misto”, alcune oltre i quattromila metri. E quando tra gli alpinisti italiani cominciò a girare voce che fossero in corso le selezioni per la spedizione al K2 si diffuse una grande trepidazione e un po’ di sconcerto: nessuno aveva la minima esperienza di alpinismo fuori dalle Alpi, men che meno a quelle quote.

Fin da quella fase preparatoria, però, la spedizione fu segnata da pratiche opache. Dopo alcuni contestati esami medici insoddisfacenti, Desio escluse dalla squadra Riccardo Cassin, che era tra i più noti e forti arrampicatori italiani, senza ragioni logiche. Si è sempre detto che fu per evitare di portare con sé un personaggio carismatico che avrebbe potuto contestarne la leadership. Desio infatti fin da subito gestì la spedizione con metodi autoritari, per non perdere il controllo di un gruppo così carico di energie ed entusiasmo, soprattutto considerando che non era previsto seguisse gli alpinisti oltre il campo base a cinquemila metri. Anche Cesare Maestri, tra i più famosi alpinisti italiani della seconda metà del Novecento, fu lasciato in Italia.

Un po’ a sorpresa fu invece incluso Bonatti, che all’epoca non aveva ancora compiuto 24 anni ma si era già fatto conoscere nell’ambiente con alcune formidabili ripetizioni sulle Grandes Jorasses e sulla Aiguille Noire de Peuterey, nel massiccio del Monte Bianco, sul Pizzo Badile nelle Alpi Centrali, e soprattutto con la prima salita sulla parete est del Grand Capucin, un obelisco di granito accanto al Monte Bianco, per una delle più difficili vie di roccia mai scalate all’epoca. Bonatti era nettamente il più giovane della spedizione, e fu scelto assieme ad altri 12 alpinisti italiani con esperienza sulle Alpi, tra cui spiccavano, oltre a Lacedelli e Compagnoni, Ubaldo Rey, Erich Abram e Pino Gallotti. Assieme a loro c’erano cinque ricercatori, compreso Desio, e dieci alpinisti hunza, con il compito principale di aiutare a trasportare le pesanti attrezzature.

I componenti della spedizione italiana al K2. (Wikimedia)

Per salire una montagna di ottomila metri negli anni Cinquanta, come ancora oggi, servivano infatti tende, sacchi a pelo, materassini, corde fisse, chiodi, piccozze, ramponi, provviste, coperte, strumenti per il campeggio e molte altre attrezzature, compresa una gran quantità di bombole di ossigeno. A quelle quote, infatti, l’ossigeno disponibile è meno, e gli sforzi fisici sono molto più dispendiosi. C’era già stato chi, come Hermann Buhl sul Nanga Parbat o la spedizione francese sull’Annapurna, aveva scalato un ottomila senza bombole, pratica alpinistica che si sarebbe diffusa soprattutto negli anni Settanta. Ma nel caso del K2 era particolarmente impensabile riuscirci, all’epoca, e in ogni caso la spedizione italiana aveva interesse ad arrivare per prima in cima, poco importava come.

L’avvicinamento e l’acclimatamento durarono alcune settimane, durante le quali un edema polmonare uccise Mario Puchoz. Il campo base fu piazzato a circa cinquemila metri, e da lì fu allestita una serie di corde fisse che facilitavano l’accesso ai campi più avanzati, man mano sempre più in quota, che vennero via via montati e riforniti di bombole, provviste e attrezzatura in parte con una piccola teleferica. Dal campo base, Desio dava gli ordini via radio e con dei messaggi portati a mano ai campi più alti, che dal primo arrivavano fino all’ottavo, allestito a circa 7.600 metri.

A quel punto della salita erano arrivati Lacedelli, Compagnoni, Bonatti, Rey, Abram, Gallotti e gli hunza Mahdi e Isakhan. Man mano che gli alpinisti erano saliti, infatti, diversi avevano dovuto rinunciare per il mal di montagna e la fatica, e soltanto i più in forma avevano proseguito. Anche loro erano messi male, provati dal freddo, dal peso delle attrezzature, dal poco cibo e dal malessere estremo che causa rimanere così a lungo a più di settemila metri di quota. Anche Bonatti, che era stato evidentemente il più in forma nelle settimane precedenti, ebbe un problema di digestione che lo indebolì e lo costrinse momentaneamente a fermarsi per riprendersi.

Essenzialmente, a questo punto la questione era avvicinarsi progressivamente alla cima allestendo dei campi sempre più minimali, fatti solo di una o due tende, facendo la spola tra uno e l’altro per portare su l’attrezzatura e soprattutto le pesanti bombole di ossigeno. La sera del 28 luglio si ritrovarono nel settimo campo Bonatti, che nel frattempo si era ristabilito, e Abram e Gallotti, che avevano aiutato a montare l’ottavo campo circa trecento metri più in alto, ed erano tornati indietro. All’ottavo campo, da soli, erano rimasti Lacedelli e Compagnoni, designati come la coppia che avrebbe provato a raggiungere la cima del K2.

Il giorno successivo fu dedicato al rifornimento dell’ottavo campo con l’attrezzatura portata in precedenza al settimo, di cui si occuparono Bonatti e Gallotti, dopo che Abram e Rey dovettero scendere sfiniti lasciando sul posto le bombole d’ossigeno. La sera del 29 luglio, all’ottavo campo a 7.627 metri, si ritrovarono insieme a Lacedelli e Compagnoni, molto stanchi e provati, che nelle ore precedenti avevano fallito nel tentativo di montare un nono campo oltre gli ottomila metri, riuscendo solo a lasciare un po’ di materiale.

A quel punto le possibilità di raggiungere la cima sembravano scarse a tutti e quattro gli alpinisti, che consultandosi sul da farsi decisero che in qualche modo si dovevano recuperare le bombole di ossigeno più in basso e portarle al nono campo, che nel frattempo andava allestito. Solo in quel modo Lacedelli e Compagnoni avrebbero potuto provare a superare gli ultimi seicento metri di cresta per arrivare in cima.

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Concordarono che Bonatti e Gallotti sarebbero scesi al settimo campo, avrebbero preso le bombole e le avrebbero portate su fino al nono, che Lacedelli e Compagnoni avrebbero piazzato un po’ più in basso di quanto inizialmente previsto, per facilitare i primi due nel compito assai arduo che si erano presi in carico: «oltre 200 metri di dislivello in discesa, quindi almeno 600 di salita col peso di 19 chili sulle spalle e verso gli 8.000 metri», come scrisse Bonatti in Le mie montagne. I quattro si sarebbero ritrovati la sera al nono campo, dove avrebbero passato la notte insieme: la mattina del 31 luglio, approfittando della finestra di bel tempo prevista, una coppia avrebbe tentato la cima.

Quella coppia doveva essere Lacedelli e Compagnoni, ma soprattutto il secondo non era per niente in forma. «Dubitando che egli potesse sostenere lo sforzo dell’assalto alla vetta, più di una volta fui tentato di invitarlo a cedermi il suo posto; ma alla fine non l’ho fatto. Trovavo che una simile, delicata decisione, promossa da me invece che da lui avrebbe stonato» scrisse Bonatti, che però raccontò che lo stesso Compagnoni gli disse: «Se domani anche lassù al 9° campo sarai in forma, può darsi che tu prenda il posto di uno di noi due».

La mattina del 30 luglio le due coppie si divisero, Bonatti e Gallotti recuperarono le bombole al settimo campo, dove incontrarono Mahdi e Isakhan che nel frattempo avevano portato su viveri e attrezzatura. Con Abram, che era rimasto lì, risalirono all’ottavo campo portando tutto con sé, ma una volta arrivati lì fu evidente che la maggior parte di loro non era in condizioni di proseguire. Bonatti e gli altri convinsero quindi Mahdi, l’unico altro del gruppo in forma, a salire fino al nono campo per portare le bombole, promettendogli un ulteriore compenso e ventilando la possibilità che avrebbe potuto salire anche lui in vetta. Una possibilità poco plausibile, ma non del tutto irrealistica, visto che stava bene e che non si poteva dire lo stesso di Lacedelli e Compagnoni.

Il K2. (ANSA)

Nel frattempo si era fatto pomeriggio inoltrato, e quindi Bonatti, Mahdi e Abram cominciarono la salita che avrebbe dovuto portarli oltre gli ottomila metri fino al campo dove avrebbero dovuto aspettarli Lacedelli e Compagnoni. Risalendo lentamente il ripido pendio nevoso, superando un crepaccio e un ultimo muro di ghiaccio di trenta metri, i tre arrivarono più o meno dove si aspettavano di vedere la tenda dei compagni, senza però individuarla.

Cominciarono così a urlare, ricevendo qualche risposta che però faticarono a interpretare, e senza capire da dove provenissero le voci. La traccia lasciata dai compagni era poco visibile e facilmente confondibile con quelle di sassi caduti, e i tre si convinsero che la tenda doveva essere dietro un masso qualche decina di metri più in alto, nell’unico punto in cui sembrava possibile aver allestito il campo in relativa sicurezza. Continuarono quindi a salire, riuscendo a intermittenza a sentire le voci di Lacedelli e Compagnoni, ma quando il sole cominciò a tramontare Abram, stanco e dolorante, decise di scendere. Bonatti e Mahdi proseguirono la salita tra rocce e crepacci, nella speranza che la tenda comparisse a breve.

Continuando a portare in spalla le bombole, Bonatti e Mahdi attraversarono una zona di crepacci portandosi sotto il cosiddetto “collo di bottiglia”, un ripido pendio di neve e roccia, senza però avvistare la tenda. Ormai da un po’ avevano oltrepassato gli ottomila metri, una quota alla quale secondo gli accordi avrebbero già dovuto trovare i compagni. Il buio intanto si stava facendo più fitto, riducendo minuto dopo minuto le possibilità di scendere, per via dei molti crepacci. Ma per qualche motivo che Bonatti e Mahdi non capivano, Lacedelli e Compagnoni non rispondevano più ai loro ripetuti richiami.

Da ormai un po’ di tempo Mahdi, che anche normalmente aveva grosse difficoltà a farsi capire dagli altri, parlando solo urdu, stava dando segni di instabilità ed estrema stanchezza dovuti al mal di montagna e al peso portato sulle spalle. Bonatti decise quindi di lasciarlo un attimo da solo assieme alle bombole per salire più facilmente e verificare dove fossero i compagni. Ma arrivato oltre il masso che secondo le sue supposizioni poteva nascondere la tenda, non la trovò: vide invece delle tracce proseguire obliquamente verso l’alto. La scoperta destabilizzò Bonatti, che non si spiegava come mai Lacedelli e Compagnoni fossero saliti così oltre il punto concordato, e capì subito la gravità della situazione.

Mahdi era sempre più fuori di sé, e Bonatti sapeva che i due non potevano più scendere al campo sottostante. Ma anche ammesso di individuare i compagni più in alto, salire ulteriormente sembrava a sua volta impossibile. Perciò si mise a scavare con la piccozza un buco nel ghiaccio, in cui potersi sedere, mentre continuava per disperazione a chiamare i compagni. All’improvviso, dopo ore in cui non aveva ricevuto risposta, una luce si accese da più in alto, e arrivò la voce di Lacedelli, che urlando chiese se avevano con sé l’ossigeno, e li esortò a lasciarlo lì e a tornare indietro. Bonatti rispose che non potevano farlo, mentre Mahdi, che era riuscito a calmarsi, ebbe una nuova crisi e provò disperatamente a salire verso la luce.

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Le comunicazioni si interruppero, la luce si spense, e Mahdi tornò da Bonatti. Non ottenendo più risposte, i due si accovacciarono sul gradino nel ghiaccio, stringendosi tra di loro e preparandosi a una notte da -50 °C. Ma il meteo, che almeno sembrava favorevole, peggiorò rapidamente, e i due furono colti da una bufera di vento e neve: con le mani in faccia per non soffocare, riuscirono in qualche modo a resistere le ore che li separavano dall’alba, mentre il cielo pian piano si rasserenava.

Quando sorse il sole, Bonatti non si sentiva più mani e piedi, e non riuscì nemmeno a fermare Mahdi che cominciò a scendere prima ancora che fosse chiaro, brancolando pericolosamente per il ripido pendio sottostante. Dopo un po’ anche Bonatti cominciò la discesa, attraversando faticosamente la zona di crepacci e di salti rocciosi, e sentendo a un certo punto un qualche richiamo provenire dall’alto, che però non riuscì a interpretare. Arrivato all’ottavo campo, Isakhan lo rassicurò sulle condizioni di Mahdi, che pure aveva riportato diversi gravi congelamenti.

Nel frattempo, circa mille metri più in alto, Lacedelli e Compagnoni stavano per arrivare in cima al K2. La mattina erano scesi fino al punto in cui avevano bivaccato Bonatti e Mahdi, avevano recuperato le bombole di ossigeno e le avevano usate per tutta la salita. Intorno alle 18, avvistati dai compagni all’ottavo campo, arrivarono in vetta, dove piantarono una bandiera italiana e una pakistana. Togliendosi i guanti per scattarsi alcune foto, riportarono a loro volta dei congelamenti, per cui dovettero farsi amputare in seguito alcune dita. Alle 23, dopo ore di discesa, arrivarono infine all’ottavo campo dai compagni.

Una foto scattata sulla cima del K2 da Lacedelli e Compagnoni. (Ansa)

La notizia della conquista italiana del K2 arrivò in Italia giorni dopo, il 3 agosto, e uscì sui giornali serali e su quelli del 4 agosto: «Gli italiani sulla vetta del K2», diceva il titolo in prima pagina sul Corriere della Sera. Ma la versione che fu divulgata fu quella del verbale ufficiale approvato da Desio, e che aderiva alla versione di Lacedelli e Compagnoni: i due sostennero di aver provato a lungo a comunicare con Bonatti e Mahdi, ma dissero di non esserci riusciti in quanto i due erano molto più in basso, in un punto in cui non sarebbe stato possibile sentirsi, e dal quale però sarebbe stato possibile per i due scendere all’ottavo campo. Dissero anche che il giorno dopo erano scesi molto presto sul posto del bivacco di Bonatti e Mahdi, ma che loro se ne erano già andati.

Questa versione era significativamente diversa da quella di Bonatti, il cui contributo alla spedizione fu da subito sminuito, anche nel documentario ufficiale che fu girato sull’impresa, in cui il bivacco a ottomila metri non era inizialmente nemmeno menzionato. Per anni, Bonatti scelse di non esporsi sulla vicenda, anche per via di un accordo di non divulgazione che aveva firmato prima di partecipare alla spedizione. Ma nel 1961 pubblicò Le mie montagne, uno dei suoi libri più famosi, in cui raccontò la sua versione della vicenda, e tre anni dopo, in occasione dei dieci anni della salita al K2, il giornalista Nino Giglio pubblicò due articoli sulla Gazzetta del Popolo che accusavano Bonatti di avere tramato per raggiungere la cima del K2 sabotando il tentativo di Lacedelli e Compagnoni al punto da metterne a rischio la vita, usando il loro ossigeno.

Bonatti fece causa per diffamazione a Giglio, e il processo gli diede ragione, ma la vicenda non finì lì. La campagna di screditamento nei suoi confronti era stata efficace, e a lungo si portò addosso la fama di ambiziosa testa calda e di spregiudicato arrivista. Soltanto nel corso dei decenni la sua versione di quello che successe quella notte fu accreditata e confermata, grazie tra gli altri al contributo dello storico dell’alpinismo dilettante Robert Marshall. Bonatti entrò in grande polemica con il CAI, che a lungo preferì evitare di indagare sulla vicenda continuando a sostenere più o meno convintamente la versione di Desio, Lacedelli e Compagnoni.

In questa versione, peraltro, si sosteneva che le bombole di ossigeno fossero finite 200 metri prima della cima, proprio perché usate da Bonatti e Mahdi in precedenza. In realtà Bonatti e Mahdi non avevano le maschere per usarle, e alcune foto scattate in cima suggerivano che Lacedelli e Compagnoni le avevano invece indossate fino alla fine. Non è comunque certo che le bombole avessero effettivamente erogato ossigeno, perché le maschere potevano essere tenute anche per filtrare l’aria circostante.

Nel 1994, a quarant’anni dalla spedizione, il CAI pubblicò i primi articoli che in sostanza davano ragione a Bonatti. Anche Lacedelli, a differenza di Desio e Compagnoni, rivide parzialmente la sua versione iniziale. Ma fu soltanto nel 2004 che il CAI incaricò i cosiddetti “tre saggi”, gli storici Fosco Maraini, Alberto Monticone e Luigi Zanzi, di fare una nuova e definitiva indagine su quanto successo. I tre confermarono la versione di Bonatti sia sulla dinamica del bivacco a ottomila metri sia sulla questione dell’ossigeno, anche se con qualche discrepanza secondaria che non lo soddisfò mai completamente. Tre anni prima, a oltre 104 anni, era morto Ardito Desio, la cui assenza rese più facile chiudere definitivamente la vicenda. Anche la Società Geografica Italiana, nel 2008, riconobbe la versione di Bonatti.

Sia Lacedelli sia Compagnoni patirono le conseguenze dei congelamenti riportati in cima al K2, anche se il primo riuscì a continuare l’attività alpinistica. Morirono entrambi nel 2009, rispettivamente a 84 e 94 anni. Anche Amir Mahdi dovette interrompere l’attività alpinistica dopo il K2. Morì nel 1999.

Quei decenni passati a sostenere una verità che non gli veniva riconosciuta invece amareggiarono Bonatti, che ebbe un rapporto sempre più complicato con il CAI, con l’ambiente dell’alpinismo istituzionale che lo ostracizzò e con la stampa, che dedicò al caso del K2 moltissime attenzioni, al limite del morboso. Negli anni successivi fu coinvolto in altri gravi incidenti in montagna, che anche se non aveva colpe peggiorarono la sua reputazione tra il grande pubblico.

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Fu proprio per il K2, per le varie spedizioni finite in tragedia e le relative polemiche e strumentalizzazioni della stampa che lo logorarono che nel 1965, a soli 35 anni, Bonatti decise di ritirarsi dall’alpinismo ai massimi livelli con un’ultima formidabile impresa. A 100 anni dalla prima salita del Cervino decise di riassumere in un’unica salita le più grandi e storiche difficoltà dell’alpinismo classico, scalando da solo e d’inverno la gelida, ripida e pericolosa parete Nord, lungo una via diretta e fino ad allora mai percorsa. Nei successivi decenni mise all’opera un’altra sua grandissima qualità, quella di narratore, di divulgatore e di fotoreporter. Morì a 81 anni il 13 settembre 2011.