La discussa ordinanza della Cassazione su un caso di affidamento condiviso 

I giudici hanno detto che un bambino non può dormire a casa del padre fino ai tre anni di età, suscitando nuovi dibattiti sulla cosiddetta "bigenitorialità"

(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
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Negli ultimi giorni sta venendo ripresa e discussa un’ordinanza della Corte di Cassazione che lo scorso 11 luglio ha respinto il ricorso di un padre separato contro la decisione di un tribunale d’appello di impedire il pernottamento del figlio a casa sua fino al compimento del terzo anno di età. Secondo il tribunale era nel miglior interesse del minore dormire sempre a casa della madre fino ai tre anni, anche per via del fatto che il bambino, che allora aveva 16 mesi, era ancora allattato al seno dalla madre. Per il padre, invece, la decisione era discriminatoria e in contrasto con la crescita serena di suo figlio e il suo diritto a godere della presenza di entrambi i genitori in uguale misura. La Cassazione ha dato torto al padre, stabilendo che fino ai tre anni dovrà riportarlo ogni volta in cui lo vede a dormire dalla madre.

Presentando il proprio ricorso in Cassazione, l’uomo si era appellato al concetto di bigenitorialità, un principio giuridico che negli ultimi anni ha guadagnato sempre maggiore importanza e che è regolarmente al centro di sentenze sempre molto discusse, anche per gli esiti molto diversi raggiunti caso per caso. Per esempio nel 2020, in un caso simile a quello discusso in questi giorni, la Corte di Cassazione giunse a conclusioni molto diverse, stabilendo che un bambino di due anni doveva poter dormire anche a casa del padre.

Il principio della bigenitorialità prevede, in sostanza, che un bambino o una bambina abbiano diritto a mantenere un rapporto stabile e duraturo con entrambi i genitori in uguale misura, anche in caso di separazioni o divorzi, e naturalmente nel caso in cui non ci siano motivi per ritenere che vadano allontanati da uno dei due genitori.

È un principio che fu introdotto dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, nel 1989, e fu recepito in Italia con la riforma del diritto di famiglia del 2006. Ha l’obiettivo di rendere il diritto di famiglia più paritario, dando uguali caratteristiche giuridiche alla figura della madre e a quella del padre, ed è basato sull’idea che l’impegno a essere genitori debba restare sempre condiviso, oltre che sul presupposto che i figli non debbano subire le conseguenze della separazione dei genitori nel loro percorso di crescita.

– Leggi anche: Che cos’è “nell’interesse del minore”?

La vicenda al centro di questo caso si è svolta nelle Marche ed è iniziata nel 2022. Dopo la separazione dell’uomo e della donna coinvolti, di cui non sono note le identità, il tribunale di Macerata predispose l’affidamento condiviso del bambino, cioè la condivisione da parte di entrambi i genitori della cura del figlio. Il tribunale, comunque, stabilì che il bambino dovesse vivere insieme alla madre a Macerata, e disciplinò modi e tempi di visita del padre, oltre a stabilire l’obbligo per lui di contribuire alle spese del figlio con 150 euro al mese.

La madre presentò un ricorso contro alcune condizioni previste dalla sentenza. Il caso venne valutato dalla Corte d’Appello di Ancona, che aumentò le spese mensili a carico del padre a 250 euro e modificò le condizioni sul suo diritto di visita al figlio. I giudici, in sostanza, ritennero che il tribunale avesse disposto un tempo eccessivamente prolungato di permanenza del figlio col padre: oltre a stabilire orari più stringenti (di norma due pomeriggi a settimana), i giudici esplicitarono che in qualsiasi caso, anche durante eventuali vacanze estive, fino al terzo anno di età del figlio il padre avrebbe sempre dovuto portarlo a dormire a casa della madre.

Il padre fece ricorso in Cassazione proprio contro quest’ultima decisione, che secondo lui violava sia il principio di bigenitorialità che quello dell’interesse superiore del minore, in questo caso il diritto del figlio a godere della continuità e della quotidianità del proprio rapporto col padre.

Il padre contestava anche il fatto che casa sua era quella in cui il bambino aveva vissuto fino alla separazione (successivamente il bambino si era trasferito con la madre a casa della nonna materna, che i giudici d’appello avevano automaticamente riconosciuto come abitazione principale). Il padre contestava poi che tra casa sua, a Sarnano, un paese della provincia maceratese, e quella della madre ci fosse almeno un’ora di tragitto: un tempo che a suo dire, per via dell’obbligo di riportare sempre il bambino a dormire dalla madre, avrebbe impedito una reale condivisione del tempo quotidiano, come ad esempio quello di una cena a casa. Il padre sosteneva inoltre che il tempo di percorrenza avrebbe finito per aumentare le spese mensili a suo carico.

L’uomo, infine, contestava ai giudici di non aver motivato a sufficienza i motivi per cui sarebbe stato nell’interesse del figlio non dormire a casa sua fino al compimento dei tre anni, e contestava la violazione di vari articoli sia della Convenzione internazionale di New York che della Corte europea dei diritti dell’uomo sul rispetto alla vita familiare.

La Corte di Cassazione rappresenta il terzo e ultimo grado di giudizio in Italia. Un grado aggiuntivo è rappresentato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, a cui ora eventualmente l’uomo potrà rivolgersi. La Corte di Cassazione non riesamina i casi come la Corte d’Appello, ma valuta semplicemente che i tribunali di grado inferiore abbiano interpretato correttamente la legge e siano giunti alle proprie conclusioni in modo corretto.

In questo caso, la Corte di Cassazione ha stabilito che la sentenza della Corte d’appello fosse legittima, anche per via del fatto che nel momento della sentenza il figlio aveva appena 16 mesi ed era ancora allattato dalla madre. La Corte ha comunque dato indicazioni affinché compiuto il terzo anno di età i pernottamenti a casa del padre vengano predisposti in modo regolare.

I giudizi su casi di questo tipo variano caso per caso: nell’ordinanza del 2020, per esempio, i giudici stabilirono che un bambino che aveva meno di due anni aveva invece diritto a dormire anche a casa del padre. In quell’ordinanza non si cita la questione dell’allattamento: la madre si era opposta al pernottamento a casa del padre sostenendo che il figlio fosse ancora troppo piccolo per staccarsi da lei e che manifestasse disagio ogni volta che accadeva. Secondo i giudici non erano motivazioni sufficienti per impedire che il bambino dormisse anche dal padre.