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  • Mercoledì 24 luglio 2024

Le storie dei due rugby delle Olimpiadi

Il primo fece la sua ultima apparizione olimpica un secolo fa e finì con una grossa rissa; il secondo si gioca in 7 contro 7, è alla sua terza edizione consecutiva e per alcuni è un po’ bizzarro

Un momento della partita tra Australia e Samoa alle Olimpiadi di Parigi (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi)
Un momento della partita tra Australia e Samoa alle Olimpiadi di Parigi (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi)
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Alle Olimpiadi moderne ci sono stati due rugby ed è passato quasi un secolo tra l’esclusione di uno e l’arrivo dell’altro. I due rugby, parecchio simili nelle regole ma ben diversi nel tipo di spettacolo che offrono, sono il rugby a 15 – quello più famoso, antico e diffuso, quello del Sei Nazioni – e il rugby a 7, una sua versione ridotta, che però si gioca sugli stessi campi di quello a 15. Come giocare a calcio a 5, però su un campo di calcio a 11.

Il primo rugby, quello a 15, debuttò alle Olimpiadi di Parigi 1900: ne era grande appassionato il barone francese Pierre de Coubertin, considerato l’ideatore delle Olimpiadi moderne, che lo vedeva come un emblema di quello che per lui era lo sport. Ma dopo quattro edizioni con poche squadre e tanti problemi, e soprattutto dopo una partita finita in rissa, il rugby a 15 sparì dal programma olimpico, da cui è assente da ormai un secolo.

Il secondo rugby, quello a 7, esiste dagli anni Ottanta dell’Ottocento ma non ha mai raggiunto fama e diffusione paragonabili a quelle del rugby a 15 (e nemmeno di quello a 13, un’altra versione ancora). Divenne sport olimpico a Rio 2016 e il suo torneo olimpico a Parigi è iniziato oggi, ancor prima della cerimonia di apertura di venerdì. È uno sport veloce e vivace, con partite che durano un quarto d’ora e dinamiche facili da capire. Come in molti altri sport di squadra manca l’Italia.

Un momento di Argentina-Kenya nel primo giorno di partite alle Olimpiadi di Parigi (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi)

Secondo quella che sembra essere una bella storia più che una storia vera – ma in quello che resta comunque il mito fondativo di un intero sport – il rugby nacque nel 1823 quando, durante una partita di un’arcaica e primordiale versione del calcio moderno giocata in una scuola superiore di Rugby, nella contea inglese del Warwickshire, il sedicenne William Webb Ellis si mise a correre con il pallone in mano. A ben vedere, il calcio di allora e il rugby degli albori avevano antenati comuni e molte affinità, e regole talmente diverse da consentire molte zone grigie: prima di ogni partita tra squadre di scuole o località diverse, ci si doveva quindi accordare su cosa fosse consentito e cosa no, motivo per cui Ellis forse non fu il primo e di certo non l’unico a sfidare le regole – o anche solo a confonderle – correndo con una palla in mano.

Una volta codificato e già ben distinto dal calcio, a fine Ottocento il rugby si fece notare dal barone de Coubertin, che dopo averlo visto giocato proprio a Rugby (la città) ne scrisse: «è davvero una metafora della vita, un modo per sperimentare il mondo, uno strumento educativo di prim’ordine». De Coubertin fu tra i lettori di Tom Brown’s School Days, romanzo di formazione ambientato a Rugby e sul rugby, arbitro della prima finale di coppa francese e più in generale un convinto e quasi fervente promotore del rugby. Non fu però mai praticante, visto che peraltro era piuttosto minuto.

Assente alle prime Olimpiadi moderne, il rugby fece il suo debutto olimpico nel 1900, a Parigi: a quell’edizione parteciparono tre squadre in rappresentanza di Francia, Germania e Regno Unito, ma di fatto erano selezioni locali, non vere Nazionali. Arrivò prima la squadra francese che vinse entrambe le sue partite, mentre la partita tra tedeschi e britannici nemmeno fu giocata.

Non presente nel programma delle Olimpiadi statunitensi di St. Louis 1904 – in cui ci fu un torneo dimostrativo di football americano – il rugby tornò olimpico nel 1908, con solo due squadre iscritte: Australasia (perché quell’anno la delegazione olimpica era composta sia da australiani che neozelandesi) e una squadra del Regno Unito (in realtà una selezione di giocatori della sola Cornovaglia). Vinse la rappresentativa dell’Australasia.

Il rugby fu di nuovo assente nel 1912 e poi tornò nel 1920, nelle prime Olimpiadi dopo la Prima guerra mondiale, in un anno che era iniziato con una partita tra Francia e Scozia anche nota come “la battaglia dei ciclopi”, perché si scrisse che cinque dei trenta giocatori in campo avessero un solo occhio. Il torneo olimpico del 1920 fu vinto dagli Stati Uniti, che in squadra avevano soprattutto studenti universitari californiani abituati a giocare a football americano, un allenatore-giocatore che nel 1908 aveva giocato con l’Australia e Morris Kirksey, che in quell’edizione vinse anche un oro e un argento nelle gare di velocità dell’atletica leggera.

La tormentata storia del primo rugby olimpico, quello a 15, finì un secolo fa alle Olimpiadi di Parigi del 1924, dopo che la finale di fatto tra Francia e Stati Uniti, le cui squadre avevano entrambe battuto agevolmente la Romania, fu vinta dagli Stati Uniti 17 a 3. Presentata dai giornalisti francesi come una squadra fisica e piuttosto rozza, contrapposta alla più elegante e cavalleresca squadra di casa, la selezione statunitense dominò una partita di cui, più che della componente sportiva, ci si ricorda per il gran trambusto finale, in cui ebbero la loro parte sia i giocatori in campo che i tifosi. Ci furono lanci di oggetti, una rissa e un’invasione di campo collettiva del pubblico, in un partita raccontata e ricordata in Francia come la «Corrida di Colombes», e riassunta dalla frase – la cui attribuzione è dibattuta – «fu il massimo che si potesse fare senza coltelli o revolver».

Oltre che per questo non proprio edificante epilogo, il rugby a 15 – già allora il più popolare e diffuso – sparì dalle Olimpiadi per una serie di altri fattori: le squadre dell’emisfero sud, già molto forti, non avevano grandi incentivi per attraversare il mondo per una manciata di partite e le squadre britanniche (che nel rugby non olimpico giocano separate) ancora consideravano il rugby uno sport soprattutto invernale. Inoltre, dopo le Olimpiadi del 1924 de Coubertin lasciò la guida del CIO, il Comitato olimpico internazionale, a un successore assai meno appassionato di lui. È per questo che, in una delle tante stramberie della storia olimpica, e in quella che potrebbe essere un’ottima domanda-trabocchetto per un quiz, gli Stati Uniti sono il paese ad aver vinto più ori olimpici nel rugby a 15, e la Nuova Zelanda nemmeno ci ha mai partecipato.

Marcus Smith dell’Inghilterra mentre fa meta in una partita contro la Francia dell’ultimo Sei Nazioni, a marzo del 2024 (AP Photo/Laurent Cipriani)

Rugby e Olimpiadi tornarono a incrociarsi indirettamente nel 1976 quando oltre venti paesi africani boicottarono le Olimpiadi di Montréal, in Canada, per protestare contro il fatto che il CIO avesse ammesso la delegazione neozelandese dopo che gli All Blacks (la squadra di rugby neozelandese) erano andati a giocare in Sudafrica nonostante l’apartheid, motivo per cui anni prima il Sudafrica era stato formalmente espulso dal CIO.

Nei successivi decenni ci furono blande ipotesi di ritorno del rugby alle Olimpiadi, ma mai azioni concrete. Le cose però cambiarono a partire dagli anni Novanta, con un riavvicinamento tra il CIO e l’organismo internazionale di governo del rugby a 15 e di quello a 7. In effetti il rugby si stava affermando come uno sport pienamente in linea con lo spirito olimpico, con l’idea di confronto sportivo ma leale, con principi e ideali che nulla avevano a che fare con la sciagurata finale olimpica del 1924.

Solo che – un po’ come il calcio – il rugby a 15 ormai già aveva un suo importante torneo internazionale quadriennale (la Coppa del Mondo, il cui trofeo si chiama Coppa Webb Ellis), e poi è uno sport che richiede diversi giorni di riposo tra una partita e l’altra, cosa che mal si concilia con la relativa brevità di un torneo olimpico. Dopo anni di tentativi – e contro l’avversione di chi lo considerava una versione farsesca del rugby a 15 – nel 2009, con 81 voti favorevoli e 9 contrari, il CIO presieduto dal belga ed ex rugbista Jacques Rogge decise che da Rio 2016 il rugby a 7 sarebbe stato sport olimpico, sia maschile che femminile.

Il rugby a sette, che gli anglosassoni chiamano rugby sevens, fu codificato in Scozia a fine Ottocento, e le sue origini sono meno note e mitizzate di quelle del rugby a 15. È plausibile che sia nato perché non c’erano abbastanza giocatori per fare un 15 contro 15, ed è certo che per diversi decenni restò piuttosto marginale, quantomeno fuori dai campi scozzesi.

Come molti altri sport nati da quelle parti, anche il rugby a 7 fece il giro dell’Impero britannico, cambiando nel tempo regole, stili e approcci. Negli anni Settanta ci fu il primo torneo internazionale, nei Novanta la prima edizione della Coppa del Mondo, con un conseguente aumento della sua fama e dei suoi promotori. Ci furono alcuni casi di affermati rugbisti a 15 che lo scelsero come attività parallela. Uno di loro fu il neozelandese Jonah Lomu, uno dei più forti e amati rugbisti di sempre, che nel 2001 ne disse: «il sevens è proprio come il rugby dovrebbe essere; c’è fair play ma ci sono anche velocità, tecnica, ritmo; c’è tutto quello che serve».

Nel 2016 il rugby a 7 divenne quindi il secondo rugby olimpico, in un torneo a cui tra gli altri partecipò l’All Black e due volte campione mondiale a 15 Sonny Bill Williams. Quell’anno il Guardian presentò il rugby a 7 come “perfetto” per le Olimpiadi in quanto dotato «della fisicità del judo, della tecnicità della ginnastica ritmica, dell’atletismo dei 400 metri ostacoli, della potenza del ciclismo su pista e della sfinente insistenza del canottaggio: uno sport veloce, originale e divertente».

Ancora parecchio in secondo piano rispetto al rugby a 15, e in certi paesi pure rispetto a quello a 13, il rugby a 7 è spesso considerato una disciplina propedeutica o parallela rispetto ad altri rugby, e in genere le squadre più forti sono quelle dell’emisfero australe.

Le regole principali sono in buona parte quelle del rugby a 15: con le mani la palla si passa solo all’indietro e con i piedi la si può calciare in avanti (a patto che poi la prenda qualcuno che stava dietro a chi l’ha calciata); le mete valgono 5 punti, le trasformazioni ne valgono 2 e ci sono placcaggi, mischie e touche (le rimesse laterali) come nel rugby a 15. Cambia il modo in cui si calcia tra i pali – nel rugby a 7 sempre in drop, cioè dopo aver fatto rimbalzare la palla a terra – e la palla è ovviamente ovale.

La principale differenza è dovuta al fatto che il campo è lo stesso, con la conseguenza che lo spazio libero è tanto e la divisione dei ruoli è meno rigida: ancor più che nel rugby a 15 tutti devono saper fare un po’ tutto. Senz’altro devono correre parecchio, ma devono anche essere agili e robusti. Per questo, e per il fatto che le partite sono divise in due tempi da 7 minuti (che diventano 10 per le finali), è fondamentale non perdere il possesso della palla, mentre nel rugby a 15 è possibile che, pur di guadagnare territorio si scelga di calciarla avanti. Il possesso è così importante che mentre nel rugby a 15 è chi subisce una meta a riprendere il gioco, nel rugby a 7 la palla resta a chi ha fatto meta.

Tutto questo fa del rugby sevens uno sport atipico per la sua velocità e in genere molto imprevedibile: in ogni momento, da ogni azione, può nascere una meta. Vista la minore densità di giocatori in campo, è anche uno sport più facile da seguire, più immediato nel suo svolgimento. Di converso, è anche vero che il rugby a 15 è più tattico, complesso e profondo, mentre il rugby a 7 può talvolta apparire troppo semplificativo.

I giocatori neozelandesi fanno la tipica danza Haka dopo aver vinto gli ultimi mondiali di rugby a 7, a maggio del 2024 (AP Photo/Suhaimi Abdullah

Alle Olimpiadi di Parigi i tornei di rugby a 7 dureranno giusto pochi giorni ciascuno, con le squadre che giocheranno più partite in uno stesso giorno: quello maschile dal 24 al 27 luglio (è uno degli sport che iniziano prima della cerimonia di apertura) e quello femminile dal 28 al 30. Tutte le partite di entrambi i tornei si giocheranno allo Stade de France di Parigi, il più grande stadio francese, che nel 2023 ospitò la finale della Coppa del Mondo di rugby a 15.

Nelle ultime due edizioni, il torneo femminile è stato vinto da Australia e Nuova Zelanda mentre quello maschile finora è sempre stato vinto dalle Fiji, uno stato insulare dell’Oceania, composto da oltre 300 isole e con meno di 900mila abitanti (tra cui 100mila rugbisti). Sono, al momento, le uniche due medaglie d’oro olimpiche della sua storia. Il più famoso rugbista a 15 che a Parigi giocherà a 7 è Antoine Dupont, mediano di mischia che nel 2021 fu nominato miglior giocatore di rugby al mondo e il cui cognome negli ultimi mesi è spesso diventato Dupon7.

Per dedicarsi al rugby a 7 in vista delle Olimpiadi, quest’anno Dupont ha saltato il Sei Nazioni – l’annuale torneo giocato dalle quattro squadre britanniche, dalla Francia e dall’Italia – ed è anche grazie a lui, un giocatore creativo, rapido e scaltro, che la Francia maschile è tra le squadre favorite per la vittoria del torneo olimpico.