La Corte Costituzionale ha confermato i rimborsi milionari dovuti alle Regioni dalle aziende produttrici di dispositivi medici

Strumenti usati in sala operatoria
Strumenti usati in sala operatoria (Christopher Furlong/Getty Images)

In due sentenze pubblicate lunedì, la Corte Costituzionale ha definito legittimo il cosiddetto payback, un meccanismo istituito diversi anni fa dallo Stato per recuperare l’eccesso delle spese sanitarie regionali. Il payback prevede che le aziende che producono e forniscono garze, bende, ferri chirurgici, ma anche valvole cardiache, protesi ortopediche, accessori per la radioterapia, dispositivi per dialisi e per il pronto soccorso, debbano restituire più di un miliardo di euro allo Stato, per via di una sorta di tassa che il governo Berlusconi aveva introdotto nel 2011 per rientrare in parte dall’eccesso di spesa sanitaria.

Le sentenze della Corte Costituzionale erano molto attese dalle aziende dopo i ricorsi presentati nell’ultimo anno contro questo meccanismo, che secondo i giudici «presenta di per sé diverse criticità», ma «non risulta irragionevole» né «sproporzionato». Finora i rimborsi erano rimasti sospesi proprio per via dei ricorsi delle aziende alla giustizia amministrativa, che si era appellata alla Corte Costituzionale per chiarire la questione una volta per tutte. Secondo la Corte i rimborsi non sono sproporzionati, anche perché l’importo chiesto in origine è stato ridotto della metà in virtù di un decreto-legge del 2023. Tuttavia pagare anche solo la metà, dicono le associazioni che rappresentano le aziende, rischia di far finire l’intero settore in una crisi irreversibile: tra le altre cose il miliardo chiesto alle aziende è relativo solo al periodo tra il 2015 e il 2018, un quarto rispetto ai rimborsi dovuti nel triennio successivo, tra il 2019 e il 2021.

Il presidente dell’associazione di imprese del settore biomedicale Nicola Barni ha detto che «gran parte delle imprese non solo saranno nell’impossibilità di sostenere il saldo di quanto richiesto dalle Regioni, ma saranno altresì costrette ad avviare procedure diffuse di mobilità e licenziamento, ad astenersi dalla partecipazione a gare pubbliche e, in molti casi, a interrompere completamente la propria attività in Italia».