Cosa sono le “attenuanti generiche” e perché sono così discusse
Lo stress da pandemia, alla base della richiesta di ridurre la pena per un femminicidio del 2020, ha rianimato il dibattito sulla libertà che i giudici hanno nel concederle
La Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni con cui i giudici hanno chiesto alla Corte d’Appello di Messina di rivalutare la condanna all’ergastolo di Antonio De Pace, che il 31 marzo del 2020 in provincia di Messina uccise la fidanzata Lorena Quaranta, giovane studentessa universitaria. I giudici non hanno messo in dubbio la colpevolezza di De Pace, ma hanno chiesto alla Corte d’Appello di valutare la concessione delle cosiddette “attenuanti generiche”, cioè una riduzione della pena.
Le motivazioni della richiesta stanno facendo molto discutere perché i giudici sostengono che la Corte d’Appello non abbia valutato a dovere lo stato di ansia di De Pace provocato dalla pandemia, una posizione sintetizzata dai giornali con titoli come «Annullato l’ergastolo per stress da Covid». Le motivazioni sono state criticate dalla famiglia di Quaranta, da molte associazioni impegnate contro la violenza sulle donne e da quasi tutti i partiti politici. Non è la prima volta che la richiesta di attenuanti generiche viene discussa e contestata: molte di queste polemiche dipendono dal fatto che – a differenza di molte altre regole previste dal codice penale – i giudici possono concedere o meno le attenuanti generiche con una certa discrezionalità.
Le attenuanti generiche fanno parte della più ampia categoria delle “circostanze attenuanti”, che possono essere comuni e appunto generiche. Se concesse, portano a una riduzione fino a un terzo della pena prevista per il reato commesso. In caso di una condanna all’ergastolo, le attenuanti portano a trasformare la pena nella detenzione in carcere da 20 a 24 anni. Secondo diverse sentenze della Corte di Cassazione, le attenuanti generiche furono introdotte per ridurre pene che sarebbero troppo severe, anche nei casi in cui venga applicato il minimo previsto dalla legge.
La concessione delle circostanze attenuanti comuni (articolo 62 del codice penale) viene riconosciuta in presenza di alcuni presupposti precisi: quando il colpevole, pur violando la legge, ha agito per motivi di particolare valore morale o sociale; quando ha commesso il reato in stato di ira determinato da “un fatto ingiusto altrui”, per esempio nel caso di una provocazione; quando ha agito “per suggestione di una folla in tumulto”, espressione curiosa che comprende manifestazioni o cortei di protesta; quando il colpevole ha causato un danno patrimoniale di poco conto; quando il colpevole ha agito insieme ad altre persone; quando successivamente al reato c’è stato un risarcimento oppure il colpevole ha contribuito a limitare le conseguenze del reato.
Le attenuanti generiche sono invece regolate dall’articolo 62-bis del codice penale e prevedono che i giudici possano concederle in caso di fatti non gravi, quando l’imputato collabora con la giustizia, quando l’imputato dimostra un comportamento processuale corretto, quando l’imputato si è ravveduto, in caso di confessione del reato, quando l’imputato ha agito a causa di problemi economici (uno dei casi più comuni è il furto in un supermercato commesso da chi non ha da mangiare). Anche in presenza di più requisiti, la riduzione di pena può essere al massimo di un terzo.
I giudici possono concedere le attenuanti generiche abbastanza liberamente, come previsto dalle norme del codice penale sull’applicazione della pena. L’unico obbligo che hanno è motivare l’uso del potere discrezionale spiegando la decisione presa nella pubblicazione delle motivazioni.
Nella motivazione dell’annullamento dell’ergastolo nei confronti di De Pace e del rinvio alla Corte d’Appello, i giudici della Cassazione hanno usato una formulazione un po’ contorta per motivare la loro decisione. Hanno scritto che i giudici del processo di appello non avevano «compiutamente verificato se, data la specificità del contesto, possa, ed in quale misura, ascriversi all’imputato di non avere “efficacemente tentato di contrastare” lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale».
In parole più semplici, la Cassazione ha invitato i giudici a valutare le angosce provocate dalla pandemia come possibile requisito per concedere delle attenuanti generiche.
La posizione della Cassazione non è così singolare, perché la stessa richiesta era stata fatta dalla pubblica accusa durante il processo di secondo grado. Il pubblico ministero aveva chiesto le attenuanti soprattutto per la mancanza di episodi violenti pregressi e per le modalità dell’omicidio legate a uno stato di particolare agitazione. Il 31 marzo del 2020 De Pace, dopo aver ucciso la fidanzata al termine di una violenta lite, tentò il suicidio poco prima di chiamare i carabinieri per confessare l’omicidio. Durante i processi è stato dimostrato che l’uomo in quel periodo era particolarmente provato dalla pandemia.
Alcune associazioni che tutelano i diritti delle donne hanno criticato la richiesta. Secondo l’avvocata Cettina Miasi del centro antiviolenza Una di Noi, è preoccupante ritenere che lo stato emotivo sia dirimente nella valutazione della gravità di un omicidio. «Tale valutazione in fatti di sangue potrebbe valere sempre e in ogni caso e incidere quindi sulla pena», ha detto. «Il messaggio che si dà alla collettività appare perciò fuorviante». Elisabetta Lancellotta, deputata di Fratelli d’Italia che fa parte della Commissione d’inchiesta sulla violenza di genere, ha detto che «si rischia un precedente pericoloso», mentre la senatrice del PD Cecilia D’Elia si è chiesta retoricamente: «Quante possono essere le attenuanti della violenza maschile contro le donne?».
In passato c’erano già state discussioni dopo casi simili, al punto che il riconoscimento dello stato emotivo è diventato un tema di discussione classico nell’ambito delle attenuanti generiche. Sono discussioni che dipendono in particolare dal potere discrezionale dei giudici, uno dei più delicati e importanti per chi amministra la giustizia: secondo l’articolo 132 del codice penale i giudici possono applicare la pena discrezionalmente tenendo conto solo dei limiti stabiliti dalla legge.
L’orientamento giurisprudenziale più citato e condiviso su questo tema è contenuto in diverse sentenze della Cassazione, tra cui una del 2013 secondo cui «gli stati emotivi o passionali, pur non escludendo né diminuendo l’imputabilità [cioè, pur non escludendo che la persona possa essere processata e eventualmente condannata, ndr], possono comunque essere considerati dal giudice ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto essi influiscono sulla misura della responsabilità penale». La richiesta della Cassazione per De Pace, pur discutibile nelle motivazioni legate per la prima volta alla pandemia, sembra rientrare in questo orientamento della giurisprudenza.
Uno dei casi recenti più contestati riguarda l’omicidio di Olga Matei, donna di 46 anni uccisa nel 2016 a Riccione da Michele Castaldo, che frequentava da poco. Le modalità sono simili all’omicidio di Lorena Quaranta: Castaldo uccise Matei al termine di una violenta lite e poi chiamò i carabinieri per confessare. Durante il processo venne fatta una perizia che rilevò uno stato di “tempesta emotiva e passionale”, una formula che anche in quel caso suscitò molte polemiche. L’allora ministra per la Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, parlò di ritorno al passato: «Non ho nessuna nostalgia del delitto d’onore e dell’idea della donna come essere inferiore», disse. Fu riconosciuto anche che l’uomo confessò l’omicidio e che risarcì la figlia della vittima, altri due requisiti per le attenuanti che furono concesse con una riduzione della pena da 30 a 16 anni di carcere. In seguito al ricorso della procura generale, la Cassazione annullò la concessione delle attenuanti e confermò i 30 anni di carcere.