L’operazione per recuperare i corpi degli alpinisti morti sull’Everest
Quest’anno ne sono stati portati giù quattro: sono missioni molto impegnative e costose, ma il governo nepalese le considera necessarie
In molti casi il corpo di chi muore sull’Everest resta lì: recuperarne uno è molto difficile, e possono volerci diversi anni. Le campagne per ripulire la montagna più alta del mondo sono diventate più ambiziose negli ultimi anni e quest’anno, per la prima volta, il governo nepalese ha fissato un obiettivo di corpi da rimuovere dalla cosiddetta “zona della morte”, quella che si trova a più di 8mila metri di altitudine e ha le condizioni più proibitive. L’operazione di quest’anno, finita il 5 giugno, ha recuperato quattro corpi e ha rimosso complessivamente una dozzina di tonnellate di rifiuti.
Sono morte più di 330 persone sull’Everest da quando, negli anni ’20 del Novecento, sono cominciate le scalate. Il 2023 è stato uno degli anni in cui sono morte più persone, diciotto; quest’anno ne sono morte già otto. Il governo nepalese ha stanziato l’equivalente di 550mila euro per le attività di questa primavera, che hanno coinvolto in tutto 171 sherpa e personale militare. Lungo il percorso per la cima sono stati rimossi rifiuti di vario tipo, tra cui vecchie tende e attrezzature abbandonate.
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Le autorità hanno destinato l’equivalente di più di 30mila euro per ciascuno dei corpi da rimuovere. Recuperare i cadaveri degli alpinisti morti è infatti un’operazione particolarmente difficile e costosa. Molte delle loro famiglie semplicemente non possono permettersi le spese, ma è comunque raro trovare qualcuno disposto ad andare a questo scopo nella “zona della morte”. Innanzitutto perché è molto pericoloso: in quel tratto il vento soffia quasi tutto l’anno a più di cento chilometri orari e per via dei bassi livelli di ossigeno è molto faticoso muoversi. Servono 12 persone per trasportare a valle un corpo da lì, ha spiegato BBC News. A ciascuna di loro occorrono quattro bombole d’ossigeno, ognuna delle quali costa sui 370 euro: per una missione di questo tipo, quindi, si spendono quasi 18mila euro solo per l’ossigeno.
Gli sherpa hanno lavorato soprattutto di notte, per non incontrare altri alpinisti. A causa del cambiamento climatico, tra l’altro, lo strato di neve e ghiaccio in questa zona dell’Everest si è assottigliato: rifiuti e corpi sono quindi diventati più visibili. Vedere un cadavere non è così raro, l’istruttore Alan Arnette lo ha paragonato ad assistere a un incidente stradale: «Non ti giri e torni a casa, rallenti in modo rispettoso, oppure preghi, e poi vai avanti», ha detto alla CNN. È comunque un’esperienza forte e anche per questo le autorità nepalesi – per cui il turismo sull’Everest è una consistente fonte di reddito, ma anche di problemi – si stanno impegnando nelle campagne di recupero.
I quattro alpinisti sono stati trovati nella stessa posizione in cui sono morti. La discesa dalla “zona della morte” al campo base più in basso è durata diverse ore, in un caso un giorno intero. Da lì i corpi – e uno scheletro trovato a una quota inferiore – sono stati trasferiti in elicottero a Katmandu, la capitale. Due di loro sono stati identificati: l’alpinista ceco Milan Sedlacek, morto nel 2012, e quello americano Roland Yearwood, morto nel 2017. Gli altri due non ancora. Se a tre mesi dall’identificazione nessuno avrà contattato le autorità, i corpi saranno sepolti in Nepal.
Il corpo di Sedlacek era stato visto da Tshiring Jangbu Sherpa nel maggio 2012, pochi giorni dopo la morte del ceco. Lo stesso Jangbu Sherpa ha partecipato alle operazioni di recupero di quest’anno, e le ha raccontate a BBC News. Le spoglie di Sedlacek erano rimaste visibili, anche se coperte in parte dalla neve, per qualunque alpinista passasse da quel punto, a pochi metri dalla cima del monte Lhotse, la quarta montagna più alta della terra che è collegata all’Everest.
I corpi visibili sono una frazione di quelli rimasti sull’Everest. Alcuni non sono mai stati trovati, altri sono stati scoperti a distanza di decenni da specifiche missioni di ricerca: per esempio, fu trovato solo nel 1999 il corpo George Mallory, l’alpinista britannico morto nel 1924, protagonista di una delle spedizioni più leggendarie nella storia dell’alpinismo himalayano. Aditya Karki, uno dei militari coinvolti nelle ricerche di quest’anno, ha spiegato così la loro importanza: «Dobbiamo recuperare quanti più corpi possibili. Se continueremo a lasciarli indietro, le nostre montagne diventeranno un cimitero».
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