Come ha fatto Tadej Pogačar a vincere anche il Tour de France, dopo il Giro d’Italia
Sembrava quasi impossibile nel ciclismo di questo secolo, e invece
di Gabriele Gargantini
«I’m gone, I’m dead». Il 19 luglio del 2023, nella tappa del Tour de France con arrivo a Courchevel, sulle Alpi francesi, il ciclista sloveno Tadej Pogačar disse così – «sono finito, sono morto» – alla radiolina con cui i ciclisti parlano ai compagni e ai direttori sportivi (in comunicazioni che, come in Formula 1, sono poi sentite anche dal pubblico). Pogačar era scoppiato e quella era una resa nei confronti del danese Jonas Vingegaard, che quel giorno lo staccò di cinque minuti e poi vinse il suo secondo Tour de France, la corsa ciclistica più importante al mondo. Dopo averlo vinto nel 2020 e nel 2021, Pogačar finì secondo per il secondo anno di fila.
Un anno dopo Pogačar ha vinto il Tour con oltre sei minuti di vantaggio su Vingegaard, che è arrivato secondo; con oltre 20 minuti di vantaggio sul quinto e con quasi mezz’ora sul decimo. Pogačar ha vinto il Tour indossando la maglia gialla (che spetta a chi è primo in classifica generale) già dopo la seconda tappa, di nuovo alla quarta e poi fino all’ultima, e con sei vittorie di tappa. Al Giro d’Italia le cose erano andate allo stesso modo: partito da favorito assoluto, Pogačar aveva vinto sei tappe e indossato la maglia rosa già dopo la seconda. Nella storia del ciclismo in pochissimi sono riusciti a vincere Giro e Tour nello stesso anno, e soprattutto si riteneva fosse ormai pressoché impossibile farlo ai ritmi del ciclismo di questo secolo: l’ultimo a riuscirci nel ciclismo maschile, nel 1998, un paio di mesi prima che Pogačar nascesse, era stato Marco Pantani.
Prima ancora, sempre quest’anno, Pogačar aveva vinto la Strade Bianche dopo oltre 80 chilometri di fuga solitaria (annunciando al mattino dove avrebbe attaccato), sfiorato la vittoria alla Milano-Sanremo (fino a qualche anno fa ritenuta una corsa quasi solo per velocisti), e vinto (in solitaria, dopo oltre 30 chilometri di fuga) la Liegi-Bastogne-Liegi, la più antica classica monumento del ciclismo mondiale (le classiche monumento sono le corse di un giorno con più storia e importanza).
È però soprattutto al Tour, la corsa più difficile e con la maggiore concorrenza, che Pogačar ha dato il meglio di sé: ha mostrato di avere uno stato di forma e una sicurezza senza precedenti, ha fatto registrare record di percorrenza su quasi tutte le salite più dure ed è migliorato notevolmente in quelli che fino a un anno fa erano ancora i suoi pochi punti deboli.
Al Tour di quest’anno Pogačar è stato il miglior ciclista al mondo e uno dei migliori della storia. Lo ha corso nella sua miglior forma di sempre, nella squadra più forte e stimolato da quella che è già una delle grandi rivalità della storia del ciclismo: se si sommano i tempi di Pogačar e Vingegaard negli ultimi quattro Tour de France, su un tempo complessivo di quasi 330 ore, i due sono separati solo da poco meno di due minuti, e sono quattro anni che arrivano nelle prime due posizioni.
Su Plateau de Beille, la salita finale della tappa del 14 luglio, Pogačar ha percorso 15 chilometri, con pendenza media all’8 per cento, a un velocità media di quasi 24 chilometri orari, mettendoci quasi quattro minuti in meno rispetto a Pantani, ancora detentore del record di scalata. Quel giorno Pogačar ha staccato di oltre un minuto Vingegaard, che ha poi detto di aver fatto una delle migliori prestazioni della sua carriera. Su Plateau de Beille Pogačar ha fatto quella che da più parti è stata presentata come la miglior prestazione ciclistica di sempre su una salita.
Su L’Équipe Alexandre Roos ha parlato di «un dominio assoluto e totalitario» di un ciclista che ha superato «il confine tra l’ordinario e la storia». Anche grazie al fatto di essere arrivato a questo Tour dopo averne persi due, Pogačar è inoltre riuscito a dominare divertendo e apparendo divertito lui stesso. Quando ha potuto ha sempre vinto, anche tra le critiche di qualcuno che lo avrebbe voluto più clemente verso gli avversari, ma allo stesso tempo è stato capace di intrattenere, rischiare e azzardare, di guardare i numeri ma anche di attaccare seguendo l’istinto.
Pogačar è stato così forte che, ancora più che sulla sua storica accoppiata Giro-Tour, l’attenzione di molti si è focalizzata su quanto ancora più forte sia diventato rispetto all’anno passato, e su come sia riuscito a farlo. La risposta sta, almeno in parte, in una serie di scelte evidentemente azzeccatissime fatte da lui e dalla sua squadra – il Team UAE Emirates – in fase di pianificazione, preparazione, allenamento e ricerca di nuovi modi per ottimizzare le sue prestazioni. Il tutto partendo dalla base di un fisico ovviamente eccezionale e da un atleta capace di essere (o quantomeno apparire) rilassato e spensierato in corsa ma, a quanto si dice, rigorosissimo nel seguire diete, tabelle e programmi di allenamento.
Già a fine 2023 Pogačar aveva deciso che quest’anno avrebbe corso il Giro e poi il Tour, adeguando a questo nuovo calendario la sua preparazione. Lo fece, tra i tanti motivi, anche per cambiare la routine delle sue stagioni sportive, per mettersi alla prova con una sfida nuova e più difficile dopo due secondi posti al Tour. Dopo la vittoria del Giro, in cui la concorrenza era ben minore rispetto a quella delle ultime settimane, per Pogačar è iniziata la parte più complicata, l’avvicinamento al Tour. Partito a inizio maggio, il Giro è finito il 26 maggio a Roma: dopo una settimana di riposo a casa, Pogačar è andato in ritiro in altura a Isola 2000, località alpina (a 2.000 metri di altezza) dove è anche arrivata una tappa del Tour. All’inizio usciva per pedalate relativamente tranquille, poi l’intensità è aumentata e gli allenamenti si sono fatti più specifici e mirati, per aiutare Pogačar a mantenere l’ottima forma mostrata al Giro senza che però si sfiancasse.
Anche confrontando le prestazioni di Pogačar tra il Tour e il Giro (dove è legittimo pensare che non sia quasi mai dovuto andare davvero a tutta), la sensazione è che il grosso del lavoro Pogačar l’abbia fatto nei mesi invernali, cambiando radicalmente gran parte di ciò che aveva fatto in passato.
In una conferenza stampa durante questo Tour, Pogačar ha detto: «Se paragono quest’anno al mio primo anno da professionista [il 2019], è come se allora quasi tutto fosse a livello amatoriale. Allora pensavo che tutto fosse professionale, ma le cose sono cambiate in fretta e il ciclismo è evoluto tantissimo». Ancor più specifico è stato il sito Velo, che ha scritto: «Dalle pedivelle allo staff, dal menu della colazione ai bulloni del telaio, Pogačar ha cambiato quasi tutto nella preparazione, nella tecnologia e nella nutrizione, stravolgendo la sua filosofia di allenamento».
È impossibile sapere con precisione cosa Pogačar abbia cambiato, e in certi casi si tratta di temi tecnici difficili da semplificare senza banalizzarli, ma alcune scelte sono piuttosto chiare. Anzitutto Pogačar ha dato grande fiducia a un nuovo “mentore”, l’esperto di performance e biomeccanica Javier Sola, rinunciando probabilmente all’approccio del suo precedente preparatore Iñigo San Millán, associato soprattutto al concetto di allenamento in Z2, cioè in zona aerobica, in una scala dove la Z7 è la zona di massimo sforzo. Pare che con Sola Pogačar abbia aumentato l’intensità e, ha scritto Velo, «gli allenamenti in Z2 che erano stati per anni il suo pane quotidiano sono diventati un semplice contorno».
Agli allenamenti in altura, dove si va per migliorare la capacità dell’organismo di usare ossigeno durante l’attività fisica, il Team UAE Emirates pare aver aggiunto – così come altre squadre – la cosiddetta super-altura: una serie di attività che cercano o ricreano condizioni ancora più estreme.
Soprattutto, Pogačar ha seguito il recente trend del cosiddetto heat training, l’allenamento al calore (da non confondere con l’allenamento H.E.A.T., che è un intenso allenamento da palestra di moda qualche anno fa e dove heat è acronimo di High Energy Athletic Training). L’heat training sfrutta piccoli sensori esterni che misurano costantemente la temperatura corporea interna e ogni sua variazione (fino a qualche anno fa si poteva fare solo con sensori interni, il che rendeva il tutto più complesso, oltre che senz’altro meno piacevole). Certi atleti, e Pogačar è tra loro, usano questi sensori anche in gara, basandosi su valori che vedono in tempo reale per capire che tipo di sforzo possono permettersi. L’heat training prevede di allenarsi al caldo, anche solo coprendosi molto più del dovuto. Fino a qualche anno fa era visto come un’alternativa a basso costo rispetto ai ritiri e agli allenamenti in altura, da qualche tempo è invece ritenuto sempre più determinante e imprescindibile.
In effetti, in passato il caldo era sembrato la kryptonite di Pogačar: non una buona cosa se l’evento più importante del tuo sport si svolge nei pomeriggi di luglio. Quest’anno invece, anzitutto bevendo molto e versandosi addosso con costanza borracce d’acqua fresca, Pogačar sembra aver gestito il problema molto meglio che in passato, quando molte energie del suo corpo venivano sprecate nel cercare di mantenere regolata la temperatura interna.
Un altro relativo punto debole di Pogačar erano le tappe a cronometro, dove era sì molto forte, ma non tanto quanto Vingegaard. Qui i miglioramenti sono stati fatti grazie a test in galleria del vento, grazie a modifiche che adattano meglio la bici alle sue caratteristiche e grazie a una migliore posizione sulla bicicletta. Pogačar ha detto inoltre di aver fatto allenamenti specifici per andare ancora meglio sulle lunghe salite, l’altro contesto in cui era apparso leggermente indietro rispetto al rivale.
C’è poi la grande questione dell’alimentazione, in gara e non. Pogačar ha raccontato di aver normalizzato le sue colazioni, che un tempo erano fatte con pasta e riso in bianco, e – così come gran parte degli altri ciclisti – cambiato ritmo, frequenza e quantità di integratori e alimenti assunti in gara. Insieme al caldo, anche le “crisi di fame” (intese come la scarsità di nuove energie da usare in gara) erano state segnalate come possibili problemi che gli avevano impedito di vincere i precedenti Tour.
Molto in generale, che si tratti di una barretta gel presa durante una gara o di un nuovo modo per allenare o misurare certi valori (compreso uno di cui si è parlato molto che riguarda il monossido di carbonio), Pogačar è il ciclista più forte al mondo che, con la consulenza e i fondi della squadra più ricca del ciclismo mondiale, supportata da fondi degli Emirati, ha intensificato gli sforzi per capire come e dove migliorarsi e per investire in nuove ricerche, risorse e tecnologie, anche attraverso i cosiddetti “marginal gains”, i tanti piccoli miglioramenti marginali che, se messi tutti insieme, possono fare la differenza.
In estrema sintesi si tratta di ottimizzare un mezzo, la bicicletta, allo scopo che se ne vuole fare, e di trovare modi nuovi e più efficaci di aumentare la quantità di ossigeno che il sangue porta ai muscoli e migliorare il modo in cui lo fa, oltre a ottimizzare e accelerare il recupero dagli sforzi di una corsa a tappe di tre settimane.
Visto il suo passato, il ciclismo si porta sempre dietro dubbi su quanto siano attendibili certe prestazioni eccezionali, domande e ipotesi su quanto lecite o etiche siano le pratiche con cui si cercano “marginal gains”, sul fatto che qualcuno possa adottare pratiche vietate o sperimentarne di non ancora vietate, seppur potenzialmente nocive.
Ne sono consapevoli i ciclisti – «dovete sempre dubitare di noi e verificare le nostre prestazioni perché il ciclismo non torni ad essere quello del passato», disse Vingegaard un anno fa; lo sono anche gli addetti ai lavori: «Il ciclismo è uno sport bizzarro», ha scritto Marco Bonarrigo sul Corriere della Sera, «indulgente fino all’eccesso con i dopati accertati di un passato nerissimo (come quelli del periodo 1990-2010 assurti al ruolo di opinion leader, team manager, commentatori televisivi, eroi perseguitati ingiustamente), implacabile con quelli del presente, in un contesto farmacologicamente lontano anni luce».
Di certo è nella traiettoria di ogni sport che i record vengano battuti e la stranezza del ciclismo non è che qualcuno li stia battendo, ma che non siano stati battuti per un quarto di secolo. E oltre al fatto che certe sue prestazioni siano fuori dal comune (così come quelle di Vingegaard, che circa tre mesi fa era stato 12 giorni in ospedale, clavicola fratturata e vertebre rotte), non ci sono indizi né tantomeno prove contro Pogačar.
Sulla questione, Roos ha scritto che è giusto farsi domande e che Pogačar e Vingegaard «possono rispondere a tutte le domande sul sospetto, su cosa fanno e cosa non fanno, ma non sarà mai abbastanza», perché «sono congelati in una forma di impotenza e perché le loro risposte non convinceranno mai tutti». Sempre Roos ha scritto che «nel ciclismo il dominio non è più tollerato, l’eccezionalità ancor meno», che non esistono «gioie senza asterisco, che sono riservate ai campioni di altri sport.»
Dopo la fine del Tour, Pogačar ha risposto anche a una domanda sul doping: «Ci saranno sempre dubbi», ha detto, «perché in passato, prima dei miei tempi, il ciclismo si era rovinato». Ha poi aggiunto: «Penso che per conseguenza di quanto successo in passato, questo sia uno degli sport più puliti al mondo, e ve lo dico, non ne vale la pena [di doparsi]. Prendere qualcosa che possa mettere a rischio la propria salute è una cosa super-stupida, perché puoi fare il ciclista fino a 35 anni, ma poi resta molta altra vita da godersi. E sarei stupido a buttare via tutto e rischiare la vita per le corse. È solo un gioco: è divertente, vuoi vincere, ma non è tutto».