Il caso del bambino di due anni che vive a Rebibbia insieme alla madre detenuta
Se ne parla anche perché in Senato sta per iniziare l'esame del ddl che punta a diminuire i benefici per le detenute con figli
Il quotidiano Repubblica, in un articolo di Alessandra Ziniti, ha raccontato la storia di un bambino di circa due anni e mezzo detenuto insieme alla madre nella sezione nido del carcere di Rebibbia. Il bambino, a cui Repubblica si è riferito con il nome di fantasia “Giacomo”, è detenuto con la madre da quasi un anno, nel corso del quale ha mostrato di avere un ritardo psico-motorio che compromette la sua capacità di comunicare e di muoversi.
Il ritardo è stato attribuito alla sua condizione detentiva, e del suo caso si sta discutendo anche perché proprio martedì inizia l’esame in Senato di un disegno di legge per ridurre i benefici per le donne detenute insieme ai propri figli piccoli. La legge in vigore prevede che se una donna viene arrestata e ha figli piccoli non può essere semplicemente messa in carcere. Se i figli hanno meno di un anno è obbligatorio il rinvio della pena, se ne hanno meno di tre il rinvio è facoltativo: il disegno di legge (ddl) prevede che il rinvio della pena diventi facoltativo anche per i bambini al di sotto dell’anno di età, rendendo quindi possibile la loro detenzione in carcere (è una proposta sostenuta soprattutto dalla Lega, pensata in questa maniera per restringere la libertà delle donne di etnia rom accusate di furto).
Il bambino è detenuto nella sezione nido del carcere di Rebibbia da dieci mesi. Le sezioni nido sono aree detentive allestite per i bambini, inserite all’interno di carceri tradizionali: in Italia ce ne sono una decina, la maggior parte delle quali è priva di aree esterne attrezzate (a Rebibbia uno spazio esterno c’è). Per quanto siano pensate per alleviare in qualche modo l’esperienza del carcere per i minori, le sezioni nido si trovano pur sempre dentro un carcere: gli spazi sono ristretti, i contatti con l’esterno molto rarefatti e in gran parte dipendenti da attività di volontariato. Vale la stessa cosa per un altro tipo di spazi in cui i bambini possono essere detenuti insieme alle madri, gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri, gli ICAM. Sono strutture diverse dalle carceri tradizionali, in cui la dimensione detentiva viene nascosta il più possibile agli occhi dei bambini: in Italia ce ne sono solo cinque, e comunque non tutti attrezzati allo stesso modo.
Gli operatori e le operatrici intervistate da Repubblica hanno raccontato che la stanza in cui il bambino vive con sua madre ha le sbarre alle finestre, che lo spazio esterno per correre e giocare è piccolo e limitato, e che è l’unico bambino attualmente detenuto a Rebibbia. Non ha coetanei con cui giocare o interagire, passa gran parte del tempo a guardare cartoni animati. Negli ultimi dieci mesi è diventato sovrappeso, parla pochissimo, con parole limitate soprattutto al vocabolario della detenzione, come «apri» e «chiudi», oltre a «sì», «no», «mamma» e «pappa». La volontaria che lo accompagna all’asilo ha raccontato che il bambino dice «mamma» ogni volta che tornando dall’asilo vede le mura del carcere.
Come negli altri casi di bambini e bambine detenute con le proprie madri, le attività di Giacomo all’esterno del carcere dipendono in larga parte dal volontariato o dalla disponibilità degli agenti di polizia penitenziaria: non esiste un programma apposito del ministero della Giustizia per le attività dei bambini, anche perché formalmente non sono detenuti. Possono uscire dal carcere quando vogliono, ma il fatto che possano essere accompagnati all’asilo, a scuola o a una festa di compleanno dipende in moltissimi casi dai volontari e dalle volontarie del carcere.
Anche nel caso del bambino di Rebibbia: la volontaria che lo accompagna al nido, dell’associazione “A Roma insieme-Leda Colombini”, ha raccontato a Repubblica che lui la aspetta ogni mattina per uscire, che ne ha molta voglia, ma che nonostante i suoi stimoli non riesce ad articolare molte parole, se non «apri» quando deve uscire e «chiudi» quando torna in carcere.
La revoca dell’obbligo di rinviare la pena per i bambini al di sotto dell’anno di età è sostenuta con convinzione dalla Lega, che sostiene che le detenute madri siano prevalentemente donne straniere che vivono di furti e fanno figli per evitare il carcere. Ma è una lettura molto parziale: la madre di “Giacomo”, per esempio, è una donna italiana detenuta per reati minori di altro tipo.
Il disegno di legge, comunque, è divisivo anche all’interno della stessa maggioranza parlamentare: Forza Italia si è detta in più occasioni contraria alla revoca dell’obbligo di rinvio della pena per le detenute con figli minori di un anno. Durante l’esame del disegno di legge alla Camera l’opposizione ha tentato, senza riuscirci, di far approvare l’emendamento che manterrebbe obbligatorio il rinvio della pena nel caso di donne figli con meno di un anno.
Ora che il ddl passerà al Senato, il Partito Democratico ha ripresentato lo stesso emendamento: domenica il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, ha detto alle agenzie di stampa che «nessuno di noi vuole che ci siano bimbi piccoli dietro le sbarre. Quindi se c’è una norma che dà la possibilità di far stare le detenute madri con figli entro i 3 anni in case famiglia o in istituti a custodia attenuata siamo pronti a discuterne». Al Senato la presidente della commissione Giustizia, dove verrà esaminato il ddl, è la leghista Giulia Bongiorno, nota avvocata che si è in varie occasioni detta contraria alla detenzione di bambini e bambine in carcere.