Ora alla Silicon Valley interessa l’ibogaina
Cioè la sostanza tratta da una pianta africana dalle proprietà allucinogene: uno dei fondatori di Google ha appena investito una grossa somma per finanziarne la ricerca
Nell’aprile del 2023 Sergey Brin, uno dei fondatori di Google nonché uno degli uomini più ricchi del mondo, decise di vendere le azioni della casa automobilistica Tesla in un momento in cui il loro valore era particolarmente alto: ci guadagnò 366 milioni di dollari. Li usò subito per aprire Catalyst4 Inc, un’organizzazione di venture capital non-profit che investe in startup che si dedicano a cause che stanno a cuore a Brin. Nell’ultimo anno Catalyst4 ha investito milioni di dollari in aziende che si occupano di ridurre l’anidride carbonica nell’atmosfera e nella ricerca sui disturbi neurologici.
Questa settimana, secondo il Financial Times, Brin ha scelto chi riceverà il prossimo investimento, pari a 15 milioni di dollari. È la startup Soneira, un’azienda di biotecnologia che sta avviando studi clinici per capire se l’ibogaina – una sostanza allucinogena tratta dall’iboga, un arbusto che cresce nelle foreste pluviali di vari paesi dell’Africa occidentale – può essere usata in sicurezza per trattare alcuni tipi di lesioni cerebrali traumatiche.
Quello di Brin è soltanto il più recente investimento massiccio nel settore delle sostanze psichedeliche da parte di un imprenditore della Silicon Valley. È una fascinazione legata in parte alla cultura da cui sono emerse molte di queste persone: l’uso di determinate sostanze è da sempre una parte molto raccontata dell’origine della Silicon Valley e della “controcultura” giovanile degli anni Sessanta a cui è legata. Ma si spiega anche con il fatto che, negli ultimi decenni, negli Stati Uniti sono molto aumentati casi di disturbi e malattie legate alla sfera della salute mentale difficilissimi da trattare. È il caso del disturbo post-traumatico da stress di cui soffrono molti reduci che hanno servito nell’esercito, della depressione e della dipendenza da oppioidi come il Fentanyl. Sono crisi che hanno spesso un forte impatto sul tessuto culturale delle città americane e che suscitano preoccupazione.
Ha senso, quindi, che alcune persone molto ricche vogliano investire i propri soldi anche nella ricerca di soluzioni a problemi che al momento ne hanno poche: gli studi sulle sostanze psichedeliche negli ultimi anni sembrano dare qualche speranza in questo senso. In Australia, per esempio, dall’anno scorso gli psichiatri sono autorizzati a prescrivere la psilocibina, che è la sostanza presente nei funghi psichedelici, nel contesto di alcune terapie.
Negli Stati Uniti ci sono stati tentativi di legalizzare alcune sostanze psicoattive in qualche stato, ma queste sostanze rimangono illegali a livello federale, il che scoraggia gli investimenti da parte delle grandi aziende farmaceutiche. Quasi tutti gli studi clinici sull’uso farmacologico delle sostanze psicoattive vengono quindi sponsorizzati da organizzazioni non-profit come Catalyst4.
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L’ibogaina è meno conosciuta, anche perché si presta meno all’uso in contesti ricreativi, dato che gli stati mentali che induce sono molto intensi e faticosi, se non addirittura spaventosi sul momento. Le persone che l’hanno assunta normalmente la descrivono come un sogno lucido a occhi aperti che costringe a rivivere esperienze di vita dolorose, in modo però più distaccato di come succederebbe normalmente.
Storicamente utilizzata dalle tribù dell’Africa occidentale per scopi medicinali ma anche nel contesto di rituali spirituali, si ottiene dalla corteccia delle radici dell’iboga, che viene frantumata e consumata come polvere o somministrata come estratto. Fu importata in Europa dagli esploratori francesi e belgi del diciannovesimo secolo e venduta inizialmente come stimolante. Alcuni medici cominciarono a utilizzarla per trattare le dipendenze da altre sostanze all’inizio del Novecento: il primo caso di successo si registrò in Messico nel 1913, quando una donna che soffriva di alcolismo grave ne guarì dopo un trattamento con compresse di ibogaina.
Negli Stati Uniti cominciò a diffondersi negli anni Sessanta, e poi fu messa fuori legge nel 1967. Oggi è considerata una sostanza “senza uso medico accettato e con alto potenziale di abuso”, come l’LSD o l’eroina. Ma in alcuni paesi come Canada, Messico, Slovenia, Francia, Brasile e Paesi Bassi esistono cliniche – sia legali che illegali – che la offrono tra i trattamenti possibili per le dipendenze da sostanze. Sono comunque soluzioni molto costose: una clinica a Cancun (Messico), per esempio, chiede tra i 9 e i 15mila dollari a paziente per dieci giorni di trattamento, escluse le spese del viaggio.
Gran parte dei dati esistenti sull’efficacia dell’ibogaina proviene da piccole ricerche e non è stata testata in studi clinici utilizzando gruppi di controllo trattati con sostanze che non fanno nulla (placebo), come accade negli studi medici più rigorosi. In Brasile, dove viene utilizzata da decenni per curare la dipendenza da crack, si riporta però un tasso di successo del 60 per cento tra i pazienti.
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Non è ancora molto chiaro come mai sembri essere così efficace nel trattare le dipendenze. Alcuni gruppi di ricerca ritengono che l’ibogaina favorisca le connessioni tra i neuroni e aumenti la neuroplasticità, fornendo al contempo nuove prospettive sulla natura del proprio comportamento autodistruttivo e degli eventuali traumi che vi stanno dietro. «L’ibogaina sembra resettare il cervello dal punto di vista farmacologico e, allo stesso tempo, produce una profonda visione psicologica dei fattori alla base della dipendenza», ha detto al New York Times Joseph Peter Barsuglia, psicologo e ricercatore che lavora con alcune cliniche che somministrano ibogaina in Messico.
Brin è interessato da tempo alle possibili applicazioni mediche dell’ibogaina: una sua altra fondazione ha finanziato uno studio dell’Università di Stanford in cui questa sostanza è stata somministrata a 30 veterani dell’esercito statunitensi che avevano riportato traumi cranici o soffrivano di disordine post-traumatico da stress. Secondo lo studio, assumere ibogaina una sola volta aveva migliorato le loro funzioni cognitive e aveva ridotto molto i sintomi di ansia e depressione che avevano. Uno dei partecipanti ha raccontato al Washington Post che, dopo aver assunto la sostanza, «è sprofondato in uno stato onirico, rivivendo ricordi dimenticati: una vista sul lago da bambino; un serpente che sbuca da un mucchio di foglie; un ragazzino morto in Iraq, con la testa trafitta dalle schegge di una granata nemica. L’ibogaina […] ha dato una marcia in più al suo cervello».
«Oggi non esiste alcun altro farmaco in grado di alleviare notevolmente i sintomi funzionali e neuropsichiatrici delle lesioni cerebrali traumatiche quanto fa, secondo le nostre osservazioni, l’ibogaina», ha detto il professor Nolan Williams, che ha condotto la ricerca. Negli Stati Uniti i veterani rappresentano il 6 per cento della popolazione, ma sono il 20 per cento delle persone che si suicidano ogni anno.
La startup su cui Brin ha investito, Soneira, proverà a fare un passo in più. Intanto vuole capire come fare a combinarla con medicinali per il cuore per limitare quanto possibile il rischio di aritmia cardiaca, che sopraggiunge in alcuni casi all’assunzione della sostanza con esiti che possono essere letali. E poi vuole svilupparne una versione sintetica, in modo da non dover dipendere dall’estrazione dell’iboga, che al momento viene in larga parte raccolta massicciamente e illegalmente da gruppi criminali in Gabon e Camerun, contribuendo alla deforestazione di questi paesi.
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