La guerra finanziaria di Israele contro l’Autorità nazionale palestinese
Negli ultimi trent'anni Israele ha spesso interrotto i versamenti promessi al governo palestinese e derivanti dalla riscossione delle tasse: l'ultima volta è successa pochi mesi fa
Nel 2015 il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) Mahmud Abbas, anche noto come Abu Mazen, chiese l’adesione della Palestina alla Corte penale internazionale, il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. All’epoca la richiesta fu descritta come una decisione molto importante e netta, che avrebbe potuto cambiare radicalmente i rapporti con Israele: aderire alla Corte avrebbe potuto essere considerato come una specie di riconoscimento informale della Palestina come stato indipendente, e avrebbe permesso al governo dell’ANP di denunciare Israele per quelli che considerava crimini di guerra commessi nei territori palestinesi occupati dalle forze israeliane.
La richiesta generò una reazione piuttosto dura da parte di Israele. «Il nostro compito è proteggere noi stessi, il nostro stato, le Forze di Difesa israeliane e i soldati. E abbiamo molti modi per farlo» disse all’epoca Gilad Erdan, ministro dell’Interno del governo di Benjamin Netanyahu e membro del partito conservatore Likud.
Uno di questi modi era il controllo sulle entrate dell’Autorità nazionale palestinese: cioè soldi che Israele riscuote sulla base degli accordi di Oslo (quelli con cui per la prima volta Israele e Palestina si riconobbero come legittimi interlocutori) e che dovrebbe trasferire mensilmente all’Autorità nazionale palestinese per amministrare Cisgiordania e Striscia di Gaza. È un sistema in vigore ancora oggi, anche se non riguarda più la Striscia, controllata non più dall’ANP ma da Hamas: lo spieghiamo meglio tra poco.
Come ritorsione alla richiesta palestinese di aderire alla Corte, il governo israeliano congelò l’invio dell’equivalente di circa 116 milioni di euro all’ANP, ma non fu né la prima né l’ultima volta.
Sin dai primi anni Novanta, in più di una occasione Israele ha deciso unilateralmente di trattenere quei soldi, tutti o in parte, come forma di ripercussione per quelle che considera azioni ostili nei suoi confronti. Questo ha generato, e genera tutt’ora, un’incertezza nelle entrate dell’ANP, che si ripercuote sulla sua capacità di pagare i dipendenti pubblici, amministrare il territorio, offrire i servizi necessari e in sostanza sulla popolazione palestinese.
Questo meccanismo di riscossione congiunta delle tasse fu creato dal Protocollo di Parigi del 1994, che regola i rapporti economici tra Israele e Palestina, e il Protocollo fa parte degli accordi di Oslo, dei primi anni Novanta. Gli accordi stabilirono una serie di regole che avrebbero dovuto riequilibrare i rapporti tra le due parti, favorire la cooperazione, e avviare un processo di pace che come è noto non si è mai realizzato.
Le tasse che Israele riscuote per conto dell’ANP si compongono principalmente delle accise sul petrolio, dei dazi doganali, delle imposte dirette (come quelle sul reddito dei palestinesi) e di quelle indirette (come l’IVA sugli acquisti). Per quanto riguarda le imposte sul reddito, dal momento che molti palestinesi lavorano in Israele ma vivono e usano i servizi in territorio palestinese, il protocollo stabilì che il 75 per cento delle loro imposte sul reddito dovesse andare all’ANP (il 100 per cento quando si tratta di palestinesi che lavorano negli insediamenti illegali) e che Israele potesse tenere per sé il 3 per cento come commissione per i servizi di riscossione. In totale questi trasferimenti dovrebbero rappresentare circa il 60-65 per cento delle entrate dell’ANP.
Dalla cifra totale il governo israeliano deduce alcune spese per i servizi erogati nel suo territorio, come per esempio l’elettricità, l’acqua o le fognature. Dovrebbe fornire documenti e spiegazioni esaustive per ogni spesa decurtata e concordare la cifra finale del trasferimento una volta al mese con l’ANP.
Tuttavia, come spiegato in un rapporto del 2022 della Banca Mondiale, questo non avviene sempre e comunque non con la dovuta trasparenza. Ci sono infatti spese che Israele decurta in modo arbitrario: per esempio, sulla base di una legge del 2018 sottrae ai trasferimenti una cifra pari a quella che stima che l’ANP mandi ai familiari dei palestinesi detenuti in Israele per crimini legati al terrorismo.
Un altro esempio riguarda la sanità: nei territori palestinesi il sistema sanitario è carente a causa dell’instabilità politica, delle continue guerre e delle frequenti sospensioni dei trasferimenti di denaro che dovrebbero finanziare questo genere di servizi. Mancano medicinali e personale, le infrastrutture non sono adeguate e alcune patologie non possono essere trattate in loco. Spesso i pazienti palestinesi vengono trasferiti all’estero: in Egitto, Giordania o – se i confini sono chiusi o in situazioni di emergenza – in Israele, che decurta poi le spese per i trattamenti sanitari dai trasferimenti.
Uno studio pubblicato dall’Università della Scozia Occidentale e dall’Università dell’Essex sul sistema congiunto di riscossione delle entrate ha mostrato l’enorme differenza (di circa il 40 per cento) tra il costo esposto dagli ospedali israeliani e la spesa decurtata dal governo sui trasferimenti all’ANP.
Oltre alle decurtazioni, ci sono poi i casi in cui il governo israeliano ha interrotto del tutto i trasferimenti. Come dicevamo, è accaduto in diverse occasioni dalla ratifica del protocollo di Parigi a oggi. Un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nel 2019 ha stimato che solo tra il 2000 e il 2017 la Palestina abbia perso circa 5 miliardi di euro a causa dell’interruzione di questi trasferimenti, l’equivalente del 39 per cento del PIL palestinese nel 2017.
Successe la prima volta nel 1997, quando il primo ministro era Benjamin Netanyahu, dopo alcuni scontri tra la popolazione palestinese e i coloni israeliani. L’interruzione dei pagamenti durò alcuni mesi.
La seconda fu la sospensione più lunga di sempre: tra il 2000 e il 2002 l’allora governo di Ariel Sharon interruppe i pagamenti all’ANP per i primi due anni della Seconda Intifada, una rivolta organizzata contro l’occupazione israeliana che durò fino al 2005 e che fece migliaia di morti tra israeliani e palestinesi. In quel periodo i dipendenti pubblici palestinesi (che all’epoca erano il 26 per cento della forza lavoro a Gaza e in Cisgiordania) rimasero completamente senza stipendio.
Sempre Sharon bloccò di nuovo i trasferimenti nel 2006, quando Hamas vinse le elezioni: la sospensione durò fino al 2007, e cioè fino a quando l’ANP non prese il controllo della Cisgiordania, lasciando ad Hamas la Striscia di Gaza. Durante i governi Netanyahu (tra il 2009 e il 2021) avvenne in altre occasioni: per esempio nel 2011, in seguito alla richiesta della Palestina di entrare nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, e nel 2015, come ripercussione per la ratifica del trattato di Roma e quindi l’adesione alla Corte penale internazionale.
Attualmente a gestire i trasferimenti è il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, del partito nazionalista di estrema destra Sionismo Religioso, con posizioni molto estreme rispetto ai rapporti che Israele dovrebbe tenere con la Palestina e i palestinesi (che secondo lui non esistono). Di fatto questo governo guidato da Benjamin Netanyahu ha usato più volte l’interruzione dei trasferimenti come strumento per fare pressione sull’ANP e mantenere sotto controllo la Cisgiordania, dove negli ultimi mesi ci sono state molte tensioni e sono aumentate le violenze dei coloni israeliani contro i palestinesi.
L’ultima interruzione era stata decisa lo scorso maggio, in seguito alla decisione di Spagna, Irlanda e Norvegia di riconoscere formalmente lo stato di Palestina. I pagamenti sono stati poi sbloccati a inizio luglio.
In diverse di queste occasioni, per evitare il collasso dell’Autorità nazionale palestinese e quindi delle conseguenze gravissime per la popolazione, sono intervenuti gruppi e organizzazioni internazionali, tra cui l’Unione Europea, che hanno inviato fondi all’ANP per sopperire alle entrate mancanti.