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  • Domenica 21 luglio 2024

E quindi, Kamala Harris

Dopo l'annuncio del suo ritiro, Joe Biden ha detto che sosterrà la sua vice presidente come candidata del Partito Democratico alle presidenziali di novembre

Kamala Harris durante un comizio a Greensboro, in Carolina del Nord, l'11 luglio
Kamala Harris durante un comizio a Greensboro, in Carolina del Nord, l'11 luglio (AP Photo/Chuck Burton)
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Pochi minuti dopo avere annunciato il suo ritiro dalle prossime elezioni presidenziali, Joe Biden ha detto che intende sostenere la candidatura della sua vicepresidente, Kamala Harris, la quale in un comunicato ha detto di essere pronta a «guadagnarsi e vincere la nomination». Harris ha 59 anni e se riuscirà a ottenere la nomination dal partito diventerà la sfidante di Donald Trump: avrà però pochi mesi per fare una campagna elettorale tutta in rimonta, in cui dovrà smentire i dubbi sulla sua efficacia di governo, le perplessità sulle sue convinzioni politiche e i pregiudizi sul suo essere la prima candidata presidente donna e nera.

Ma soprattutto Harris, che ha trascorso gli ultimi quattro anni all’ombra di Joe Biden, poco valorizzata – forse volutamente – dal presidente, avrà pochissimo tempo per raccontare agli americani la sua storia, creare un messaggio politico coerente e avvincente e capace di fornire una ragione forte per la sua candidatura, che vada oltre il fatto di essere la seconda nella linea di successione.

Proprio su questo punto – raccontare una storia personale e politica coerente in cui gli elettori e le elettrici sono capaci di identificarsi – Harris ha faticato per gran parte della sua carriera politica recente. L’incapacità di individuare un messaggio politico coerente fu una delle principali ragioni per cui Harris si ritirò prematuramente dalle primarie Democratiche del 2019/2020 (quelle poi vinte da Joe Biden) e per cui la sua vicepresidenza è stata considerata da molti come un’occasione mancata.

Queste difficoltà dipendono anche dal fatto che nella sua carriera Harris è sempre stata divisa tra le sue convinzioni politiche (di ex procuratrice, con una visione tutto sommato centrista e perfino securitaria) e la sua identità di donna nera capace di battere i pregiudizi e ottenere incarichi politici di rilievo. Harris ha mutato più volte la sua identità: da procuratrice dura contro il crimine a attivista per i diritti civili, da candidata su cui si fondavano alcune speranze di trasformazione politica a vicepresidente tutto sommato dimessa. Questi molti cambiamenti hanno insospettito parte dell’elettorato Democratico e hanno molto spesso annacquato la sua efficacia come candidata e come politica.

Kamala Harris è nata a Oakland, in California, nel 1964, da un padre giamaicano e una madre indiana. Il padre, economista, e la madre, ricercatrice medica, erano entrambi abbastanza attivi in politica, e da giovane Harris fu sempre circondata da intellettuali e attivisti per i diritti civili, anche piuttosto noti.

Si laureò in legge nel 1989, e cominciò una eccezionale carriera come procuratrice: negli Stati Uniti alcuni incarichi giudiziari come quello di procuratore, cioè la persona incaricata di avviare i procedimenti giudiziari, sono elettivi, e quindi di fatto la carriera giudiziaria di Harris è stata anche una carriera politica. Da giovane Harris fu la protetta, e per un breve periodo anche la fidanzata, di Willie Brown, uno dei politici Democratici più potenti di tutta la California, che nel 1996 divenne poi sindaco di San Francisco.

In quel periodo Brown era molto influente nella politica californiana e aveva contribuito ad avviare le carriere di numerosi giovani di successo. Oltre a Harris, tra i protetti di Brown c’era anche Gavin Newsom, l’attuale governatore della California che è ritenuto un altro dei possibili candidati alla nomination. Ma mentre per Newsom l’associazione con Brown non è mai stata particolarmente un problema, a Harris è stata rinfacciata per gran parte della sua carriera politica, al punto che in un’intervista la definì «un albatros», un riferimento letterario usato come simbolo del peccato originario.

Per quasi tutta la sua vita, la carriera di Kamala Harris è sempre stata contraddistinta da due elementi principali: il suo ruolo da procuratrice e il suo essere la prima donna nera – o una delle prime – ad assumere una certa carica. Dopo un periodo da procuratrice nella contea di Alameda, Harris fu eletta nel 2002 procuratrice della città di San Francisco: fu la prima donna e la prima persona nera a ottenere l’incarico. Nel 2011 fu eletta procuratrice generale di tutta la California, e ancora una volta: prima donna e prima persona nera. Nel 2016 fu eletta nel Senato degli Stati Uniti: fu la seconda donna nera dopo Carol Moseley Braun, ma la prima donna con origini dell’Asia meridionale (da parte della madre indiana). Per l’ennesima volta, da vicepresidente, è stata la prima donna e la prima persona nera a ricoprire l’incarico.

Questa storia così lineare di “prime volte”, tuttavia, è entrata spesso in contrasto con il modo in cui Harris ha strutturato la sua carriera di procuratrice e di senatrice e, secondo molte persone che la conoscono, con il modo in cui percepisce se stessa e il suo ruolo pubblico.

L’identità di Harris è legata molto strettamente al suo ruolo giudiziario, in cui si era mostrata anche piuttosto dura nei confronti del crimine. Nei suoi anni da procuratrice prima di San Francisco e poi della California, Harris si era costruita una reputazione solida di persona energica e instancabile, capace di essere dura e implacabile nelle arringhe e nei dibattiti, e di ottenere pene severe contro i crimini che generano maggiore allarme sociale.

Nel 2009, in vista della sua campagna elettorale da procuratrice generale della California, pubblicò un libro intitolato “Smart on Crime”, cioè “Intelligenti contro il crimine”, che in teoria avrebbe dovuto presentarla come una persona capace di tenere assieme le necessità di riforma della giustizia con quelle della sicurezza, ma che in realtà la descriveva come una magistrata piuttosto intransigente. Tra le altre cose, Harris nel libro si vantava di aver triplicato il numero di condannati inviati nelle prigioni dello stato e di aver aumentato notevolmente il tasso di condanne contro gli spacciatori di droga.

Come ha notato di recente il giornalista del New York Times Ezra Klein, un profilo di questo genere – quello di una donna nera e Democratica dura contro il crimine – sarebbe perfetto per la politica del 2024, in cui la questione della sicurezza e della criminalità è una delle più sentite dall’elettorato, e su cui i Democratici sono più deboli.

Ma quando Harris avviò la sua campagna elettorale per il Senato, nel 2015, e più ancora quando lo fece per la presidenza, nel 2019, la situazione politica era molto diversa.

Per un politico Democratico di quegli anni, essere considerato duro contro il crimine era un forte svantaggio, in un momento in cui il movimento contro le violenze razziali della polizia Black Lives Matter acquisiva sempre più forza e in cui la parte più a sinistra del Partito Democratico sosteneva che fosse necessario tagliare i fondi alla polizia.

Non potendo presentarsi all’elettorato come procuratrice, Harris fu costretta ad adottare un altro messaggio e un’altra storia da trasmettere al pubblico. I suoi consiglieri le dissero che, per adattarsi al momento politico, la cosa migliore era presentarsi con l’identità della donna nera protagonista di molte “prime volte” e cambiare la propria storia personale da procuratrice ad attivista per i diritti civili.

Questo cambiamento di identità e di messaggio non è stato facile per Harris, e si è notato. Elaina Plott Calabro, giornalista dell’Atlantic che è stata una delle persone che hanno seguito maggiormente Harris in questi anni, ha raccontato che quando nel team di Harris si iniziò a parlare di un cambio netto di messaggio politico lei tentò di ribellarsi, ma fu costretta a cedere:

Quando le persone più vicine a lei hanno iniziato a dirle: questo è un momento differente nel Partito Democratico, il tuo background [da procuratrice] non dovrebbe essere il tuo punto di forza; la sua risposta è stata, di fatto: ma io sono una procuratrice, questo è quello che ho fatto, questo è quello che sono. Che altra storia dovrei raccontare?

Di fatto, gli ultimi otto anni di carriera politica di Kamala Harris, prima da senatrice e poi da vicepresidente, sono stati divisi tra queste due identità e queste due storie: quella di procuratrice e quella di “prima donna nera”. I media si sono concentrati soprattutto sulla seconda, che al tempo era decisamente la più appetibile. Nel 2020, quando il New York Times pubblicò il suo primo grande ritratto di Kamala Harris da vicepresidente, tutto l’articolo era incentrato sulle origini etniche di Harris e cominciava con questa frase: «Dai primi giorni della sua infanzia, Kamala Harris ha imparato che la strada per la giustizia razziale è lunga».

Questo non significa, ovviamente, che Harris non abbia a cuore i diritti civili, che anzi sono una parte fondamentale della sua proposta politica. Ma tutti i momenti della sua carriera recente in cui è stata brillante ed efficace sono stati quelli in cui ha potuto adottare l’identità da procuratrice, che è quella in cui si è sempre sentita maggiormente a suo agio.

Da senatrice, per esempio, Harris divenne famosa per il modo implacabile in cui, durante le sedute della Commissione Intelligence di cui faceva parte, interrogava i membri dell’amministrazione di Donald Trump o le altre persone che si sottoponevano allo scrutinio del Congresso in audizione pubblica: proprio come fa una procuratrice.

Nel 2019, da candidata alle primarie del Partito Democratico, durante un dibattito si fece notare per la sua dialettica molto determinata, e per l’attacco più brutale mai fatto contro Joe Biden in tutte quelle primarie (di fatto lo accusò di aver collaborato in passato per favorire politiche segregazioniste).

Questa indecisione sui messaggi e sulle identità ha contribuito però a danneggiare la carriera di Harris. Gli elettori, percependo la contraddizione tra il suo passato da procuratrice e il suo messaggio più recente di giustizia razziale, sono spesso stati sospettosi nei suoi confronti e l’hanno giudicata come ideologicamente poco coerente.

La nomina a vicepresidente non ha risolto questi problemi, e anzi li ha amplificati. In questi quattro anni, Harris è stata considerata quasi unanimemente una vicepresidente che ha deluso molte aspettative, non sempre per colpa sua. Il ruolo di vicepresidente è già uno dei più difficili e ingrati di tutta la politica americana, e come avrebbe riconosciuto in seguito un ex consigliere di Biden la presidenza non ha fatto quasi niente per aiutarla a elevare il suo profilo o renderla popolare tra l’elettorato. Oggi, a posteriori, alcuni sostengono che l’abbia fatto per evitare di creare una concorrente interna a Joe Biden.

Lo staff del presidente ha affidato a Harris questioni impossibili, come quella di risolvere le cause profonde dell’immigrazione clandestina, e altre improbabili, come quella sull’intelligenza artificiale. Questo ha costretto Harris ad affrontare temi impopolari oppure molto lontani dalla sensibilità degli elettori. Lei stessa molto spesso è stata impacciata e inadeguata: nella sua prima importante intervista da vicepresidente, nel 2021 con Lester Holt della rete NBC, entrò in difficoltà sulla questione dell’immigrazione. Quell’intervista fu una delle ragioni per cui Harris cominciò a essere vista come una scelta non adeguata per la presidenza.

Questa reputazione di vicepresidente inadeguata le è rimasta attaccata addosso per gran parte del suo mandato, anche a causa dei pregiudizi legati al suo essere una donna nera. Molti analisti hanno tuttavia sostenuto che, nonostante le difficoltà di Harris, questa reputazione sia stata almeno in parte non meritata.

Negli ultimi tempi le cose sono andate un po’ meglio, soprattutto perché l’amministrazione Biden ha cominciato ad affidarle compiti più adeguati e significativi: per esempio è diventata la principale portavoce dell’amministrazione nella battaglia in difesa del diritto all’aborto, e in questo compito è stata estremamente efficace.

Dopo il disastroso dibattito di Joe Biden di fine giugno, quando è diventato sempre più chiaro che il presidente non sarebbe stato in grado di portare a termine la campagna elettorale, le attenzioni si sono concentrate nuovamente su Harris, e parte dell’elettorato è tornata a vedere i punti di forza che l’avevano resa una delle principali candidate delle primarie Democratiche del 2019. Le sue capacità di procuratrice e la sua retorica assertiva la renderebbero temibile in un eventuale dibattito contro Donald Trump, così come la sua capacità di empatizzare con l’elettorato.

Almeno sui social media, si è anche creato un certo entusiasmo, e Harris è diventata oggetto di numerosi meme in cui i suoi sostenitori hanno rilanciato momenti recenti in cui Harris si è mostrata affabile, vivace, autoironica e capace di creare un contatto con il pubblico.