Ciccio Capa Tosta, la mucca e il dilemma Benedetti

«Nelle storie il nostro desiderio conta tantissimo o meglio contano le nostre aspettative. Il dilemma è come costruire narrazioni che non alimentino un blando effetto placebo? Come costruire storie capaci di leggere la realtà a costo di deludere le aspettative, ma senza perdere la necessaria fiducia, il patto narratore-lettore, senza il quale non puoi nemmeno cominciare a raccontare?»

Una mucca (non quella di Ciccio Capa Tosta) attraversa la strada durante una gara di ciclismo a Westport, Nuova Zelanda, 16 novembre 2005 (Phil Walter/Getty Images)
Una mucca (non quella di Ciccio Capa Tosta) attraversa la strada durante una gara di ciclismo a Westport, Nuova Zelanda, 16 novembre 2005 (Phil Walter/Getty Images)
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Nella mia famiglia si raccontava spesso questa storia: a Piedimonte Matese, piccolo paese agricolo alle falde del massiccio del Matese, c’era un contadino che aveva una vacca molto magra e malmessa, così andò al mercato per venderla. Prova e riprova ma non ci riesce, e ci credo: la vacca era così magra che nessuno si avvicinava finché non compare Ciccio Capa Tosta, uno straordinario venditore che, siccome è capa tosta, si mette in testa di venderla lui, così, per sfida. E comincia a urlare, a invitare la gente ad accorrere per osservare le straordinarie, uniche caratteristiche di questa vacca che è magra perché non spreca energia e che produce latte saporito, una vacca unica al mondo che solo pochi contadini esperti possono davvero riconoscere e comprare. Tanto si sbracciò, Ciccio Capa Tosta, tanto disse che qualcuno si fece avanti, solo che il contadino ascoltando il venditore aveva cominciato a guardare la vacca con occhi diversi. Anche per lui la sua vacca era diventata la migliore del mondo e perciò decise di non venderla: se la tenne per sé e si convinse perfino che il suo latte era profumatissimo e buonissimo.

Era una storia usata per sfottere i poveri contadini sempliciotti di una volta, ma riguarda tutti, tutti noi che parliamo del potere delle parole e meno ci preoccupiamo del pericolo delle parole. Il grande potere delle parole in fondo sta nelle emozioni che certe storie suscitano, quelle che ci fanno sognare e muoverci in funzione di quel sogno (verso una vacca bellissima) e il pericolo sta nelle emozioni che certe storie suscitano (che non ci fanno vedere che la vacca è magra).

Del resto la suggestione con le tecniche giuste non è difficile da raggiungere: prendiamo una affermazione come: «Sia fatta la luce!». Un bell’incipit suggestivo. Di questo genere di suggestioni ci siamo serviti un po’ tutti, scrittori e non, la differenza è che spesso gli scrittori, discutendo sulla scrittura e lettura, sacralizzano il mestiere (a volte le discussioni sulla scrittura mi sembrano liturgie che celebrano l’orante e il fedele). Non ci sarebbe niente di male nella suggestione, solo che ogni qualvolta siamo presi dalla suggestione della luce fu, c’è il pericolo che non ci impegniamo a spiegare, consumando pagine e pagine e con vari strumenti (chimici, fisici, matematici), in che modo e quando nell’universo in formazione sono apparsi i fotoni (non subito, comunque).

Il pericolo sta nella disabitudine alla complessità, dimensione importante per analizzare con serietà lo stato dell’arte del mondo, della politica o dei sentimenti. Una dimensione che per essere percepita e apprezzata richiede un certo impegno, da parte di chi scrive e di chi ascolta.

In Nel caldo cuore del mondo (edizione Liberal) il critico Alfonso Berardinelli, anche a proposito delle suggestioni che ci bloccano, in un vecchio e interessante carteggio avuto con lo scrittore Sandro Veronesi, scrisse tre pagine intitolate Siamo un popolo di esteti incapaci di introspezione: siamo «abbagliati dalla bella forma. E ogni volta che apriamo la bocca per parlare facciamo una gran fatica a distinguere il vero dal falso: questa differenza, fondamentale per altre culture, per noi è oscura, trascurabile, fastidiosa».

Più avanti, dopo aver elencato degli strumenti narrativi utili per indagare al meglio la complessità e per promuovere una migliore introspezione – reportage, saggio personale, memoir (strumenti che secondo me andrebbero usati per contaminare il romanzo) – Berardinelli aggiunse un’esperienza personale:

«Ero al Kunsthistorisches Museum e girando la testa potevo vedere I tre filosofi di Giorgione e Il banchetto nuziale di Bruegel. Vero che tra l’uno e l’altro quadro c’è quasi un secolo di distanza, ma pensai che l’Italia, in quel quadro di Giorgione, aveva deciso di non muoversi più. Perché muoversi se si è raggiunta la felicità, se (come in Giorgione e Raffaello) il paradiso è in terra, sul mondo piove una luce divina e solo un pazzo potrebbe desiderare altro? Il capitalismo e la borghesia moderna nascono invece dalla certezza che tra l’umano e il divino c’è una distanza incolmabile, la sola felicità è nell’evitare il male, nel tenere a bada il peccato e il diavolo lavorando e producendo. In Bruegel questo si vede sempre. Giornate buie, pomeriggi noiosi, corpi goffi, gonfi o deformi di contadini. E una natura che fa paura, abitata da forze demoniache in agguato. La realtà terrestre è povera, allegra o desolata, non è abitata e protetta, come in Italia, da angeli e divinità pagane. La pittura di Bruegel in confronto a quella di Giorgione è elementare quasi bambinesca: ma è più realistica, è più “democratica”. Sa fare umilmente catalogo delle cose materiali per economizzarle, amministrarle. Che cosa potevano fare i tre filosofi di Giorgione se non contemplare l’ordine di un cosmo che solo loro vedono? Non possono né lavorare, né produrre, né comandare, né progredire. Sono perfetti. Anche gli italiani di oggi in fondo si sentono perfetti. Non sopportano il tarlo della coscienza. Non vogliono mai avere torto e pensare di aver sbagliato. Siamo un popolo di semidei istupiditi, leggermente volgari, ben vestiti, senza storia».

Siamo dunque noi italiani, riprendendo lo spunto di Berardinelli, per varie ragioni storiche, più interessati al bello che al vero? Più suggestionabili, più creduloni, inclini a cedere al primo venditore (non importa di quale corrente di pensiero), gli acquirenti ideali di Ciccio Capa Tosta?

Berardinelli pensa di sì, e in fondo molta parte del suo bellissimo cinquantennale lavoro (svolto in ogni modo e con tutti gli strumenti) è stato quello di sottolineare, con molto acume critico e sense of humor testaccino, tutte le volte che cadiamo vittime dei vari Ciccio Capa Tosta, con i loro linguaggi suggestivi, esoterici.

Giorgione, Tre filosofi, 1506-1508 (via Wikimedia)

Pieter Bruegel il Vecchio, Il banchetto nuziale, 1568 circa (via Wikimedia)

Non saprei dire se è un problema tipicamente italiano. A giudicare dalle avanguardie teatrali o cinematografiche (novecentesche) ma anche da certe interessanti, originalissime (quanto sconosciute ai più) forme narrative settecentesche, vedi Laurence Sterne o Denis Diderot, mi sembra che sia un problema molto sentito. Sterne, Diderot, hanno tentato ad esempio di destrutturare i passaggi classici e manierati della trama, dunque snodare quegli intrecci ovvi, quei ganci emotivi (così ricercati dai fautori dello storytelling) che facendo leva sul nostro desiderio di sapere (come va a finire) in realtà limitano (pongono fine a) forme diverse e necessarie di conoscenza.

Bertolt Brecht, poi, detestava la passività dello spettatore, vedeva in questo atteggiamento una specie di inizio di rimbambimento emotivo, e per questo arrivava a introdurre nei momenti topici delle sue opere spot pubblicitari appositamente e ironicamente costruiti proprio per smorzare il climax, così come anni dopo la cineasta belga Chantal Akerman ha sperimentato forme cinematografiche per staccare lo spettatore dall’andamento ovvio di certe collaudate trame.

Molte forme letterarie odierne, dalla maestra indiscussa e ancora poco letta Alice Munro a Sheila Heti, da Nathalie Léger a Ava Ólafsdóttir (giusto per citare alcune delle scrittrici che mi piacciono e che comunque non scrivono saghe o saghe familiari o gialli, che invece non mi piacciono), lavorano e scrivono per raccontare che la coscienza è una ragnatela, e si muove aggiungendo e ricamando fili su fili, un accumulo non scontato che delinea forme narrative particolari: frammentando la pagina, rompendo la cronologia queste forme pongono un argine alla potente (ma spesso fallace) direzione (lineare) che la natura del nostro desiderio impone.

Forse conviene affrontare la questione da un altro punto di vista, cercando di capire come funzionano le storie, insomma la loro fisiologia. C’entra appunto il desiderio. Le storie si muovono in funzione del nostro desiderio.

Kurt Vonnegut sosteneva che desideriamo (siamo più propensi ad accettare) il modello Cenerentola: c’è una povera sfortunata ragazza, messa male, che ha un obiettivo e quasi riesce a raggiungerlo, per poi sfortunatamente mancarlo ripiombando in basso, finché, nuovamente e meravigliosamente riesce a risalire in alto e da lì andare verso la felicità. Kurt Vonnegut sosteneva che questo desiderio fonda un modello narrativo con una sua specifica forma, una curva che parte dal basso, sale, riscende per poi salire nuovamente verso l’infinito. Kurt Vonnegut era geniale e scherzava (e detestava modelli classici e orientati secondo uno schema cronologico), ma nella sostanza ha descritto un modello che va per la maggiore, cioè quello a tre atti.

David Mamet, il maestro indiscusso dei tre atti (I tre usi del coltello, minimum fax), sostiene che ogni volta che ascoltiamo una storia desideriamo vedere o leggere la partita perfetta, che non è Napoli-Juventus tre a zero, ma Napoli-Juventus quattro a tre, cioè, il modello Cenerentola: partiamo dal basso, recuperiamo, quasi vinciamo (primo atto), andiamo sotto, poi esaminiamo i nostri sbagli (secondo atto) e ripartiamo verso la vittoria (terzo atto). Mamet sosteneva anche che la qualità del secondo atto fa l’opera d’arte, quello spiraglio in cui il personaggio distrutto, patisce la cattiva sorte ma esaminando la sua vita scopre una nuova strada da percorrere.

In effetti il nostro desiderio conta tantissimo nelle storie, o meglio contano le nostre aspettative, che sono il potere e anche il pericolo.

L’impatto delle storie sul nostro desiderio (e quindi il loro movimento, la loro forma) è stato esaminato da Fabrizio Benedetti, uno dei maggiori esperti europei di effetto placebo (che si ha quando, dopo la somministrazione di un farmaco inefficace come acqua e zucchero, si prova comunque una sensazione di benessere).

Benedetti mostra un video dove viene chiesto a un malato di Parkinson di toccare delle spie quando si accendono. Naturalmente il malato non ci riesce. Arriva un’infermiera che gli si avvicina, lo accarezza, gli parla con voce suadente, gli dice che ora gli somministreranno un farmaco nuovo, invece gli danno solo acqua e zucchero, un placebo. Quando ripete il test, sorprendentemente il malato riesce a toccare tutte le spie.

Se ne ricava che il nostro cervello è predisposto a (e desideroso di) accogliere le buone aspettative. I nostri neurorecettori, stimolati dall’aspettativa che la storia propone, producono le endorfine, e per questo ci sentiamo meglio.

Il problema è che se chiedi a Benedetti, scusa ma perché non curiamo tutto col placebo, lui ti dice: non si può fare. Il placebo fornisce un effetto benefico sui sintomi, li allevia, ma non cura la causa. Ma soprattutto il placebo ha un effetto che varia da soggetto a soggetto: se io sono predisposto a credere, l’effetto su di me sarà più grande rispetto a te che invece sei scettico. È anche vero che l’effetto placebo dura una ventina di minuti e non è misurabile, mentre il farmaco ha un effetto, misurabile su tutti, che si aggira intorno alle due ore (tranne la morfina che è potente e dura a lungo).

Però, attenzione, gli studi di Benedetti dimostrano che l’aspettativa è necessaria anche per far funzionare meglio il farmaco. Cioè, se io deludo le aspettative e speranze del paziente alzando la sua consapevolezza, rendendolo troppo vigile nei confronti della storia che gli racconto, rischio di non attivare la risposta al farmaco.

Ora, eccoci al – chiamiamolo così – “dilemma Benedetti”. Promuovere un’aspettativa è necessario ma anche pericoloso: se un mago (ma anche un sofista, un ricattatore emotivo) ti fornisse un amuleto (o una suggestione) in grado di darti un piccolo beneficio anche se dura poco, con che diritto potremmo dirgli di non usarlo? Ma se attraverso quell’amuleto io poi non vedessi più la mia malattia? Avrei un danno serio. Se attivo l’amuleto rischio troppo, se lo attivo troppo poco rischio lo stesso.

Rebus sic stantibus, ogni volta che raccontiamo una storia attiviamo lo stesso dilemma: come fare a costruire narrazioni che non alimentino un blando effetto placebo? Come, al contrario, costruire delle storie capaci di leggere la realtà a costo di deludere le aspettative, ma senza perdere la necessaria fiducia, il patto narratore-lettore, senza il quale non puoi nemmeno cominciare a raccontare?

La risposta dovrebbe essere: buttiamo via tutto lo storytelling imperante, dedichiamoci senza paura a storie complesse che meglio descrivono la ragnatela che ci struttura: i fili li tesse il nostro umore, il caos, la volontà che è poca cosa, l’eredità ricevuta, la rabbia, la delusione, la tensione, l’inconsapevolezza.

Ma forse, appunto è una soluzione complessa per un problema più semplice: il nostro banale desiderio di cercare, conquistare e soprattutto auto ingannarci (che è un modo per non sentire il dolore di aver cercato e fallito, conquistato e perduto) non è facile da modificare: altrimenti Ciccio Capa Tosta avrebbe cambiato mestiere.

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Antonio Pascale
Antonio Pascale

Scrittore, saggista, autore televisivo, l'ultimo suo libro è La foglia di Fico, Einaudi (2021), selezione Campiello.

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