Quelli che non hanno una voce interiore

È una condizione ambigua e difficile da misurare, da alcuni definita “anendofasia”, e potrebbe influenzare un certo tipo di funzioni cognitive

Una scena dei Simpson in cui Homer visualizza nella sua mente un vecchio cartone animato
Una scena della serie animata I Simpson
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Per molte persone parlare tra sé e sé nel corso della giornata, articolando le frasi senza pronunciarle, è un fatto del tutto normale. C’è chi lo fa per esercitarsi prima di parlare in pubblico, per esempio, e chi lo fa per abitudine mentre fa altro, senza nemmeno farci caso. Per quanto apparentemente comune, l’utilizzo del monologo interiore non è però frequente allo stesso modo tra tutte le persone. E ce ne sono alcune che dicono di non avere affatto una voce interiore.

In un articolo uscito a maggio sulla rivista Psychological Science la scienziata cognitiva danese Johanne S. K. Nedergaard, dell’università di Copenhagen, e lo psicologo Gary Lupyan, della University of Wisconsin–Madison, hanno proposto di definire «anendofasia» l’esperienza di chi non ha esperienza della propria voce interiore. La definizione deriva dalle due parole greche éndon, “dentro”, e fásis, “voce”. È una condizione non patologica, difficile da rilevare e misurare con precisione, ma riferita da una percentuale della popolazione adulta stimata tra il 5 e il 10 per cento.

Per la loro ricerca Nedergaard e Lupyan si sono basati sulle risposte dei partecipanti a un questionario, e hanno scoperto tra le altre cose che l’anendofasia è associata a risultati peggiori in determinati compiti cognitivi che richiedono una buona memoria di lavoro verbale. Nella terminologia della psicologia cognitiva è la parte della memoria responsabile della conservazione temporanea di informazioni che possono essere verbalizzate, come lettere, parole, numeri e nomi. Nei test che misurano questo tipo di memoria, secondo i risultati della ricerca, le persone anendofasiche se la cavano meno bene delle altre.

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Tra le persone che dicono di non avere una voce interiore ce ne sono alcune che la descrivono come una condizione dispendiosa in termini di tempo e fatica, perché richiede loro l’impegno di tradurre i pensieri in parole nel momento in cui hanno effettivamente bisogno di dire qualcosa. «Altre descrivono il loro cervello come un computer che funziona normalmente, solo che non elabora i pensieri verbalmente, e ha un diverso collegamento con l’altoparlante e il microfono rispetto a quello di altre persone», ha detto Nedergaard in un comunicato stampa pubblicato dall’università di Copenhagen. Le persone che invece hanno una voce interiore, indipendentemente da quanto spesso la usano, la descrivono tipicamente come una voce fatta di «parole senza suono».

La ricerca di Nedergaard e Lupyan ha confermato in parte alcune teorie già proposte in passato da vari studiosi, in particolare dall’influente psicologo russo Lev Vygotskij, che attribuiscono al linguaggio interiore una funzione fondamentale per lo svolgimento di diversi compiti cognitivamente impegnativi, tra cui la pianificazione e l’inibizione dei comportamenti. Nedergaard e Lupyan hanno selezionato i partecipanti da un campione più ampio di persone che in precedenza avevano risposto a un questionario sulle proprie rappresentazioni interiori, utilizzato anche per altre ricerche.

Per cercare di misurare la familiarità dei partecipanti con la loro voce interiore il questionario chiedeva di indicare il livello di accordo con affermazioni del tipo «ripenso nella mia testa ai problemi sotto forma di conversazione con me stesso». Nedergaard e Lupyan hanno studiato 46 persone tra quelle meno d’accordo con queste affermazioni, e quindi prive o quasi prive di una voce interiore, e 47 che erano invece all’estremità opposta dello spettro, e cioè avevano un monologo interiore quasi costante. Per capire se e quanto questa differenza potesse riflettersi sul comportamento hanno quindi sottoposto tutti i partecipanti a diversi esperimenti, chiedendo loro di svolgere alcuni compiti.

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In un esperimento hanno mostrato loro una serie di immagini di coppie di oggetti, e il compito era dire per ogni coppia se i nomi dei due oggetti formavano una rima o no. Le persone hanno risposto più o meno negli stessi tempi, in generale, ma quelle del gruppo senza o con poca voce interiore hanno ottenuto punteggi più bassi. In un altro esperimento i partecipanti dovevano ripetere una serie di cinque parole che avevano letto in precedenza, fonologicamente o ortograficamente simili tra loro (per esempio rough, cough, through, dough, bough). Anche in questo caso il gruppo degli anendofasici ha ottenuto risultati notevolmente peggiori rispetto all’altro, confermando l’ipotesi iniziale degli sperimentatori.

Dopo i due esperimenti ai partecipanti è stato chiesto se avessero parlato ad alta voce durante l’esecuzione dei compiti richiesti: lo aveva fatto una percentuale simile di persone in entrambi i gruppi, e confrontando soltanto questi due sottogruppi la differenza nei punteggi ai due test cognitivi scompariva. Nedergaard e Lupyan hanno interpretato questo risultato come una prova del fatto che parlare ad alta voce durante l’esecuzione di un compito – una strategia utilizzata da molte persone, con o senza l’anendofasia – può eventualmente compensare i limiti cognitivi associati alla mancanza di voce interiore.

Altri due esperimenti condotti da Nedergaard e Lupyan hanno analizzato la capacità dei partecipanti di passare rapidamente da un compito a un altro (dalle addizioni alle sottrazioni di numeri), e di distinguere tra sagome di animali di una stessa specie e di animali di una specie diversa (la sagoma di un gatto da quella di un altro gatto e da quella di un cane). In questo caso l’anendofasia non è risultata un fattore influente, dato che non sono emerse differenze nei punteggi tra i due gruppi.

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Oltre che rilevante per le scienze cognitive, la scoperta di Nedergaard e Lupyan potrebbe avere implicazioni significative anche in ambito medico e in psicologia clinica. È possibile che chi utilizza molto la propria voce interiore faccia più affidamento sul linguaggio nel modo in cui pensa, ha detto Lupyan a Scientific American. E questo, secondo lui, suggerisce l’ipotesi che eventuali disturbi del linguaggio causati da ictus o altre lesioni potrebbero avere effetti più gravi in questo tipo di pazienti che in quelli anendofasici, e richiedere terapie differenti.

Nelle intenzioni di Nedergaard e Lupyan, dare all’assenza di voce interiore la definizione specifica di anendofasia dovrebbe semplificare e favorire ulteriori ricerche, come successo in anni recenti per altre condizioni non patologiche come la sinestesia (l’insorgenza di una sensazione indotta da uno stimolo diretto a un altro senso) e l’afantasia (l’incapacità di visualizzare immagini mentali).

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La ricerca è stata accolta positivamente da diversi scienziati per la capacità di descrivere in nuovi modi la varietà e la diversità delle esperienze mentali umane. Ma allo stesso tempo proprio la soggettività di quelle esperienze pone una serie di limiti alle possibilità di valutare e misurare l’anendofasia in modo attendibile, perché non c’è modo di sapere con certezza se ciò che le persone dicono della propria mente sia ciò che realmente accade nella loro mente. «È molto difficile riflettere sulle proprie esperienze interiori, e la maggior parte delle persone all’inizio non è molto brava a farlo», ha detto a Scientific American Charles Fernyhough, psicologo della Durham University, in Inghilterra.

Esiste inoltre il rischio che la scelta di attribuire un nome specifico all’assenza di voce interiore contribuisca a interpretarla come una condizione piuttosto che come un’esperienza come tante altre. Lo stesso questionario utilizzato da Nedergaard e Lupyan non serve peraltro a definire l’anendofasia come una condizione o assente o presente, ma semmai a definire l’esperienza soggettiva lungo determinate scale. «Preferirei promuovere il messaggio che la diversità nell’esperienza interiore debba essere il nostro punto di partenza» e che «non esistono due menti uguali», ha detto Fernyhough.