La Cina farà le riforme?
Si è appena tenuta la più importante riunione economica del regime cinese, ma la leadership del Partito Comunista sembra ancora una volta più concentrata sulla repressione e sulle priorità politiche che sulle gravi difficoltà dell'economia
Giovedì si è chiuso a Pechino il terzo plenum del Partito Comunista cinese, cioè la riunione plenaria dei più importanti membri del partito, che si incontrano per la terza volta da quando la leadership attuale fu selezionata, nel 2022. Il terzo plenum è il più importante perché è tradizionalmente quello dedicato all’economia. E per la prima volta da decenni si è svolto mentre l’economia cinese si trova in seria difficoltà: la crescita economica nell’ultimo trimestre è stata del 4,7 per cento su base annuale, un dato ritenuto troppo basso per le necessità di sviluppo della Cina.
Per questo il terzo plenum, che è già di solito una riunione seguita con molto interesse, è stata oggetto di particolari attenzioni: gli analisti e gli esperti stanno cercando di capire quali misure la leadership cinese ha deciso di mettere in atto per contrastare la crisi economica, e quali effetti avranno sul resto del mondo. Dai primi comunicati pubblicati in chiusura della riunione, il governo cinese non sembra intenzionato ad avviare grandi riforme: almeno al momento, pur parlando ampiamente di riforme, la leadership cinese sembra concentrata più sulla repressione del dissenso e sulle priorità politiche che su soluzioni alla crisi economica.
Formalmente, il plenum è la riunione plenaria del Comitato centrale, un organo del Partito Comunista a cui appartengono 376 funzionari, il 90 per cento dei quali sono maschi. Tra loro vi sono i sette membri del Comitato permanente, l’organo più importante di tutta la Cina che prende le decisioni più strategiche e che è capeggiato dal presidente Xi Jinping (nel Comitato permanente ci sono esclusivamente maschi). La riunione si tiene a porte chiuse, al punto che il luogo in cui si svolge è segreto, anche se tutti dicono che i delegati si siano riuniti nell’hotel Jingxi, un casermone in architettura brutalista gestito dall’esercito cinese e noto per il suo alto grado di sicurezza e riservatezza.
Come detto, il plenum di quest’anno è stato indetto in un periodo particolarmente complicato per l’economia cinese. A circa un anno e mezzo dall’abbandono delle politiche di durissimo lockdown imposte per contrastare la pandemia da coronavirus (che in Cina sono durate molto più a lungo che in Occidente), l’economia cinese, anziché ripartire energicamente come tutti si aspettavano, ha di fatto subìto un forte rallentamento, come non avveniva da decenni.
Secondo i dati ufficiali, la Cina continua a crescere a ritmi molto alti per gli standard occidentali (attorno al 5 per cento), che tuttavia sono insufficienti per un paese che di fatto è ancora in via di sviluppo: il PIL per persona della Cina è di 12.700 dollari, contro i 76.300 degli Stati Uniti. Ci sono poi studi indipendenti fatti in Occidente che stimano che il tasso di crescita del PIL potrebbe essere molto più basso di quanto sostenuto dai dati ufficiali.
Ci sono alcune cause puntuali di questo rallentamento dell’economia: in primo luogo il crollo del settore immobiliare, che da solo vale il 20 per cento del PIL cinese e che è in grave crisi da anni a causa dello scoppio di una enorme bolla immobiliare. Oggi in Cina la fiducia dei consumatori e delle imprese private è molto bassa, e la disoccupazione giovanile è attorno al 20 per cento, così alta che l’anno scorso il governo aveva smesso di pubblicare le statistiche al riguardo (ha poi ripreso negli scorsi mesi, ma usando metodi statistici più favorevoli).
Molti analisti ritengono però che le difficoltà dell’economia cinese non siano soltanto dovute a cause puntuali e transitorie, ma a una crisi più sistematica del modello di sviluppo economico adottato dalla Cina negli ultimi decenni.
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Semplificando molto, negli ultimi 50 anni la Cina ha ottenuto straordinari successi grazie a un modello di sviluppo basato sugli investimenti, in cui lo stato ha mobilitato tutte le forze economiche del paese verso settori come la manifattura, l’industria pesante, le esportazioni, la costruzione di grandi infrastrutture. Questo modello di sviluppo ha consentito alla Cina di tirare fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone (la condizione di povertà più grave è stata completamente eradicata) e di diventare una delle principali potenze mondiali, sia in ambito economico sia politico.
Il problema è che questo modello sembra essersi esaurito: semplificando, per far fare alla sua economia il passo successivo, la Cina dovrebbe passare da un modello di sviluppo basato sugli investimenti a un modello di sviluppo basato sui consumi, in cui non è più lo stato a indirizzare le risorse dell’economia con investimenti e sussidi ma sono i consumatori e le imprese private a generare il grosso della ricchezza del paese, come succede in tutte le economie mature.
Per passare dal modello di sviluppo vecchio a quello nuovo, la Cina avrebbe bisogno di fare grandi e rischiose riforme di ampi settori della sua economia. Qui le opinioni degli economisti divergono molto, ma si parla per esempio di usare i soldi pubblici non per sussidiare le imprese statali ma per stimolare i consumi; di liberalizzare il settore dei servizi e quello della finanza; di garantire pensioni più adeguate e un sistema sanitario efficiente, in modo che i privati possano avere più certezze nella loro gestione economica; di trovare modi per restituire fiducia alle imprese private, che sono state colpite negli ultimi anni da politiche molto punitive.
Gli economisti citano anche la necessità di ampie riforme sociali a lungo rimandate, come per esempio l’abolizione dell’hukou, un sistema vecchio di decenni che lega l’erogazione dei servizi pubblici e perfino certi diritti al luogo di nascita (i bambini nati fuori da Pechino, per esempio, di regola non potrebbero frequentare le scuole pubbliche della città).
Anche per questo finora il governo cinese è stato restio a mettere in atto le riforme che secondo molti economisti sarebbero necessarie: liberalizzare l’economia significa perdere almeno in parte il rigido controllo che il Partito Comunista esercita sul paese e il presidente Xi Jinping, che governa la Cina con metodi sempre più dittatoriali, ha dato più di un segnale di non voler correre questo rischio, almeno per ora. Al momento, per Xi Jinping le priorità politiche sono più importanti di quelle economiche.
Di fatto, quindi, il Partito Comunista è entrato nel terzo plenum con un dilemma davanti a sé:
• non fare le riforme, mantenere il proprio stretto controllo sociale e rischiare che l’economia si deteriori ulteriormente;
• oppure fare le riforme e avviare un lungo periodo di transizione economica che potrebbe provocare instabilità sociale e forse perfino politica.
I risultati del plenum, al momento, sono difficili da decifrare. I media di stato hanno pubblicato giovedì un comunicato ufficiale che riassume le posizioni principali, ma che – come sempre in questi casi – è estremamente vago. Il comunicato cita in maniera molto convinta la necessità di proseguire con le riforme e l’apertura dell’economia cinese, che è un buon segno. Al tempo stesso cita in maniera ancora più convinta la necessità di «prevenire e controllare i rischi alla sicurezza pubblica», «salvaguardare la stabilità sociale» ed evitare i «rischi ideologici». Questo sembra indicare che, ancora una volta, la leadership cinese darà la priorità alle esigenze politiche del regime.
Il comunicato cita inoltre tutti i principali slogan che hanno caratterizzato in questi ultimi mesi la propaganda cinese sull’economia, e questo fa pensare che non ci saranno bruschi cambiamenti nella direzione economica del paese.
Il più importante di questi slogan è “nuove forze produttive di qualità”, che negli ultimi mesi è diventato onnipresente nei discorsi ufficiali e sui media di stato, e che in un certo senso riassume quella che sembra essere la strategia di Xi Jinping per uscire dalla crisi.
L’idea è che il regime cinese abbia deciso di continuare a puntare sugli investimenti e l’industria, come avvenuto finora, ma con una grossa differenza: anziché sviluppare i settori tradizionali dell’industria cinese (l’acciaio, le grandi infrastrutture, la manifattura di bassa qualità), il governo vuole rafforzare la crescita di settori nuovi, più tecnologici e più strategici, come per esempio quello delle automobili elettriche, dell’intelligenza artificiale, dei pannelli solari e delle altre tecnologie per la transizione energetica: queste sarebbero le “nuove forze produttive di qualità”, che dovrebbero consentire all’economia cinese di tornare a crescere senza liberalizzarsi.
Di fatto, Xi Jinping vuole che la Cina continui a essere la “fabbrica del mondo”, cioè il luogo dove avviene il grosso della produzione manifatturiera e industriale mondiale, ma che non si limiti più a fabbricare prodotti di bassa qualità: vuole che anche le tecnologie più avanzate e fondamentali siano prodotte in Cina.
Di conseguenza, spinto in parte dallo stato, il sistema economico cinese è tornato a investire enormi quantità di denaro nel settore manifatturiero, sia quello di basso livello sia quello avanzato. Il problema è che, come dicevamo, nell’economia cinese i consumi sono depressi. Di tutti i beni prodotti nel mondo, la Cina ne fabbrica il 31 per cento ma i cittadini cinesi ne acquistano (cioè ne consumano) soltanto il 13 per cento. E dove vanno tutti gli altri beni prodotti? Esportati all’estero.
Ora, se la strategia del governo cinese è di uscire dalle difficoltà economiche puntando sulla manifattura tecnologica, e se per forza di cose questa manifattura deve essere esportata, è chiaro che il resto dei paesi del mondo si preoccupa. Davanti alla possibilità di un’invasione di beni cinesi a basso costo, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno imposto grossi dazi contro le automobili elettriche cinesi e contro altri prodotti che fanno parte delle “nuove forze produttive di qualità”. Lo stesso hanno fatto o stanno pensando di fare la Turchia, il Brasile, l’India, il Messico, la Thailandia e molti altri paesi.
L’idea generale è che, quando un’economia gigantesca come quella cinese decide di investire su un settore, il rischio è che metta fuori mercato le aziende degli altri paesi, che per questo si stanno cercando di proteggere. È ciò che successe negli anni Dieci con i pannelli solari, quando le aziende europee furono messe fuori mercato da prodotti cinesi più economici costruiti da aziende fortemente sussidiate dallo stato.
Anche per questo, quella che sembra la nuova strategia di Xi Jinping per uscire dalle difficoltà economiche potrebbe essere complicata da sostenere sul lungo periodo, e dovrebbe essere quanto meno accompagnata da riforme più strutturali. Non è ancora chiaro se, dopo il terzo plenum, la leadership cinese sarà disposta a metterle in atto.