L’ultima sentenza della Corte Costituzionale sul suicidio assistito non cambia granché
I giudici hanno mantenuto un requisito per poter ricorrere alla pratica ritenuto vago e discriminatorio, il «trattamento di sostegno vitale»
La Corte Costituzionale ha dichiarato infondata una questione di legittimità costituzionale sollevata da un giudice comune sul suicidio assistito, cioè la possibilità di auto-somministrarsi un farmaco letale a determinate condizioni. La questione riguardava il requisito del «trattamento di sostegno vitale» per poter ricorrere al suicidio, come l’essere tenuti in vita da un respiratore meccanico: attualmente è obbligatorio, ma contestato da tempo da attivisti e associazioni perché ritenuto troppo vago e discriminatorio. La Corte ha mantenuto in vigore il requisito.
La sentenza della Corte è stata comunicata giovedì, ed era molto attesa da parte di chi si occupa di libertà di scelta sul cosiddetto “fine vita”, cioè l’insieme delle questioni che riguardano la morte e il periodo che la precede, compresa la possibilità per le persone di decidere come debba avvenire. Ma nei fatti non cambierà molto rispetto a ciò che era possibile fare finora: i giudici avrebbero potuto rimuovere il requisito, come richiesto da chi aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, oppure definirlo con più precisione, col rischio di creare ulteriori discriminazioni.
La sentenza della Corte lo mantiene, ma con una precisazione: i giudici hanno riconosciuto che la definizione di «trattamento di sostegno vitale» è vaga e interpretabile in molti modi a seconda della situazione: dal respiratore meccanico a terapie farmacologiche in assenza delle quali il paziente morirebbe; per fare alcuni esempi la Corte ha citato anche alcune operazioni compiute da sanitari o caregiver, come l’evacuazione manuale dell’intestino o l’inserimento di cateteri urinari. Per questo hanno precisato che la definizione deve essere interpretata caso per caso dalle aziende sanitarie locali, o da giudici se ci sono controversie legali, rispettando il diritto all’autodeterminazione dei pazienti.
Pur avendo precisato e in parte esteso le condizioni in cui si può parlare di «trattamenti di sostegno vitale», la sentenza della Corte Costituzionale finirà di fatto per riproporre il problema che finora si è sempre posto in Italia sulla morte assistita: in mancanza di una legge che detti criteri chiari e uniformi su questa pratica, le richieste sono state valutate caso per caso attraverso lunghe, costose e faticose vicende giudiziarie. In Italia, infatti, la morte assistita è legale proprio grazie a una sentenza della Corte Costituzionale, ma non è mai stata approvata una legge per definirne le modalità nonostante i molti richiami da parte della stessa Corte.
Anche in questo caso la Corte ha invitato il parlamento a fare una legge: ha parlato di «perdurante assenza di una legge che regoli la materia» e del «forte auspicio che il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione» al diritto a ricorrere a morte assistita, quando previsto.
Il requisito del trattamento di sostegno vitale era stato stabilito dalla stessa Corte Costituzionale, proprio nella storica sentenza del 2019 che aveva reso legale il ricorso a morte assistita, ad alcune condizioni: oltre al trattamento di sostegno vitale, anche essere in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, avere una patologia irreversibile e che quest’ultima sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili (i quattro requisiti devono esistere tutti insieme).
Ma la Corte non aveva definito con precisione in cosa dovesse consistere il requisito del trattamento del sostegno vitale: finora era stato interpretato soprattutto come la dipendenza da dispositivi meccanici, respiratori e ventilatori, anche se un’importante sentenza aveva esteso questa definizione ad altri trattamenti sanitari, per esempio farmacologici, che se interrotti possono portare alla morte del paziente.
Negli ultimi anni la poca chiarezza sulla definizione del requisito aveva dato origine a controversie e sofferenze da parte dei malati, oltre che a vari atti di disobbedienza civile da parte di chi chiedeva di rimuoverlo. Il caso finito alla Corte Costituzionale riguardava proprio un caso di disobbedienza civile, compiuto dalla giornalista e bioeticista Chiara Lalli, da Felicetta Maltese, attivista dell’associazione Luca Coscioni, e da Marco Cappato, tesoriere della stessa associazione.
Alla fine del 2022 Lalli, Maltese e Cappato avevano fisicamente accompagnato in una clinica svizzera Massimiliano, un uomo di 44 anni affetto da sclerosi multipla e paralizzato in gran parte del corpo, che voleva accedere al suicidio assistito. In Italia non poteva farlo proprio perché non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Lalli, Maltese e Cappato si erano successivamente autodenunciati per “aiuto al suicidio”, reato previsto dall’articolo 580 del codice penale italiano che prevede pene dai 5 ai 12 anni di carcere.
Come in altri casi la procura aveva chiesto l’archiviazione, sostenendo che il legame tra l’aiuto materiale fornito da Lalli, Maltese e Cappato a Massimiliano per andare fisicamente in Svizzera (affittare l’automobile, e poi guidarla) e la sua morte fosse troppo astratto per parlare di un concreto aiuto al suicidio. La giudice per le indagini preliminari Agnese Di Girolamo, però, non aveva accolto la richiesta di archiviazione della procura, ritenendo che fosse necessario un pronunciamento specifico della Corte Costituzionale prima di decidere se accoglierla o respingerla. Secondo Di Girolamo il requisito del trattamento di sostegno vitale è in contrasto con diversi articoli della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Ora che la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da Di Girolamo, il caso di Lalli, Maltese e Cappato tornerà al tribunale di Firenze.
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