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  • Giovedì 18 luglio 2024

L’attentato al centro culturale ebraico di Buenos Aires, 30 anni fa

Un furgone carico di tritolo esplose nel parcheggio seminterrato del palazzo che ospitava il centro, e lo fece crollare: morirono 85 persone, fu il più grave attentato della storia argentina

Un uomo cammina davanti ai nomi e alle foto di alcune persone morte nell'attentato del 1994 a Buenos Aires, 18 luglio 
2013 (AP Photo/Victor R. Caivano)
Un uomo cammina davanti ai nomi e alle foto di alcune persone morte nell'attentato del 1994 a Buenos Aires, 18 luglio 2013 (AP Photo/Victor R. Caivano)
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Il 18 luglio di trent’anni fa, alle 9:53, un furgone carico di tritolo esplose nel parcheggio seminterrato di un palazzo di Buenos Aires, in Argentina, dove si trovavano gli uffici dell’Associazione Mutualità Israelita Argentina (AMIA), un centro culturale fondato nel 1894 dalla comunità ebraica locale. Il palazzo crollò: vi furono 85 morti e oltre 300 feriti e fu il più grave attentato della storia argentina, paese che già allora ospitava la maggiore comunità ebraica del Sud America e una delle più grandi del mondo al di fuori di Israele.

L’attentato avvenne nel quartiere Balvanera, meglio conosciuto come Once, al margine occidentale di Buenos Aires. L’esplosione fece crollare l’edificio sede dell’AMIA, ma danneggiò gravemente anche quelli vicini. Poco dopo migliaia di persone accorsero sul posto per collaborare ai lavori di soccorso delle persone e di salvataggio dei libri, dei documenti e delle opere d’arte che costituivano una parte importante della memoria della comunità ebraica argentina, conservata nei locali del centro culturale.

Le macerie del palazzo sede dell’AMIA a Buenos Aires, Argentina, 18 luglio 1994 (AP Photo/Alejandro Pagni, File)

L’attentato all’AMIA fu preceduto da un attacco simile: nel 1992, sempre a Buenos Aires, fu colpita l’ambasciata israeliana causando 29 morti e più 240 feriti. I due episodi avvennero nel contesto della guerra del Golfo, quando nell’agosto del 1990 il regime iracheno di Saddam Hussein invase il Kuwait, uno stato confinante con l’Iraq. In quel periodo, sotto l’allora presidente dell’Argentina Carlos Menem, la politica estera del paese si spostò decisamente verso un rafforzamento del legame con gli Stati Uniti: il governo inviò anche navi argentine nel golfo Persico dopo l’invasione del Kuwait. Era il settembre del 1990 e il presidente agì per decreto senza consultare il Congresso che, dopo una forte opposizione, approvò la decisione il 24 gennaio dell’anno dopo, solo a fatti compiuti.

Gli attentati all’ambasciata e all’AMIA furono dunque interpretati come una ritorsione per il sostegno argentino agli Stati Uniti nella Guerra del Golfo, ma non fu l’unica ipotesi che circolò sul movente. Secondo una delle indagini giudiziarie seguite all’attentato all’AMIA l’Argentina era stata scelta come obiettivo dopo la decisione del governo di annullare tre contratti per la fornitura di materiale e tecnologia nucleare all’Iran.

Lo scorso aprile la Camera federale di cassazione penale, uno dei più importanti tribunali argentini, ha emesso una sentenza che attribuisce proprio all’Iran la responsabilità dell’attentato del 1994. Secondo la sentenza l’attacco fu eseguito da uomini dell’organizzazione radicale sciita libanese Hezbollah, all’interno di un «disegno politico e strategico» dell’Iran, alleato e finanziatore del gruppo.

In quella stessa sentenza la cassazione penale definì l’accaduto «un crimine contro l’umanità» e, soprattutto, criticò «i tentativi di insabbiamento» che si erano succeduti dall’inizio delle indagini e fino agli anni più recenti coinvolgendo giudici, servizi segreti, poliziotti e politici tra cui lo stesso Menem e l’ex presidente dell’Argentina Cristina Kirchner.

Celebrazione del 25esimo anniversario dell’attentato all’AMIA, Buenos Aires, 18 luglio 2019 (AP Photo/Natacha Pisarenko)

In un primo momento le indagini seguirono due filoni principali: il primo portò all’arresto di un uomo, Carlos Alberto Telleldín, accusato di avere avuto un ruolo nel trasporto della bomba e il secondo portò all’incarcerazione di alcuni poliziotti argentini che avrebbero fatto da collegamento per l’organizzazione dell’attentato. I due casi furono trattati parallelamente fino al 1999, quando si decise di riunirli. Nel 2004 una sentenza dichiarò però l’annullamento del caso che coinvolgeva i poliziotti.

Le indagini proseguirono per diversi anni durante i quali venne istituita una Commissione Investigativa Speciale, vennero approvati gli accessi ai documenti del SIDE, la principale agenzia d’intelligence dell’Argentina e vennero offerte ricompense e protezione a chiunque avesse fornito informazioni per risolvere il caso. Si svolse anche il cosiddetto primo processo contro 22 persone accusate di complicità nell’attentato che si risolse però, nel 2004, con altrettante assoluzioni e che portò ad accusare alcuni funzionari argentini compresi due ex pubblici ministeri, un ex ministro, il giudice che fino a quel momento aveva seguito il caso, Juan José Galeano, e l’ormai ex presidente Menem con l’accusa di aver depistato e insabbiato le indagini. L’accusa principale contro Galeano, che sarà poi tra i condannati, era quella di aver pagato Carlos Alberto Telleldín per testimoniare contro alcuni poliziotti di Buenos Aires.

Nel 2004 l’allora presidente Néstor Kirchner creò una procura speciale per il caso AMIA, nominando il procuratore Alberto Nisman, l’unico dei tre pubblici ministeri non coinvolti nell’insabbiamento e che lavorava all’indagine fin dal 1994, a guidarla. Nel frattempo la giustizia argentina accusò formalmente il governo iraniano di aver pianificato l’attentato e Hezbollah di averlo realizzato, accusando otto cittadini iraniani e un cittadino libanese, latitanti, ed emettendo contro di loro, su approvazione dell’Interpol, un mandato di arresto internazionale.

Nel 2006 il procuratore Nisman, dopo aver riesaminato l’intero caso e aver incrociato quasi 300 milioni di telefonate, affermò di avere nuove prove che lo portarono ad accusare nel 2015 la presidente Cristina Kirchner, il ministro degli Esteri e altri funzionari del governo di avere cospirato per insabbiare l’indagine sul coinvolgimento dell’Iran. Secondo Nisman, Kirchner avrebbe chiesto al suo ministro degli Esteri Hector Timerman e ad altri funzionari di attivarsi per trovare una qualche forma di immunità per le persone di origini iraniane sospettate per l’attacco, sperando in questo modo di migliorare i rapporti diplomatici e commerciali con quel paese e ottenere forniture di petrolio a prezzi più vantaggiosi.

Il 19 gennaio del 2015 Alberto Nisman fu trovato morto nel bagno del suo appartamento, ucciso da un colpo di pistola alla testa. Nei giorni precedenti aveva accusato Kirchner e il giorno dopo avrebbe dovuto presentarsi di fronte a una commissione parlamentare per esporre gli sviluppi della sua inchiesta.

Manifestazione di sostegno ad Alberto Nisman dopo la sua morte, Buenos Aires, Argentina, 19 gennaio 2015 (AP Photo/Rodrigo Abd)

Pochi mesi dopo la morte di Nisman ebbe inizio il secondo processo sull’attentato all’AMIA in cui il principale imputato era l’ex presidente Menem accusato di aver depistato le indagini. Nel 2019 venne però assolto.

A distanza di trent’anni non sono ancora del tutto chiare le responsabilità materiali per l’attacco contro il centro ebraico. La decisione del 2024 della cassazione penale che indica l’Iran come mandante definendolo uno “stato terrorista” parla anche dell’attentato come di un crimine contro l’umanità. Questa sentenza permette alle persone coinvolte e ai loro familiari di chiedere riparazioni all’Iran tramite i tribunali internazionali e impedisce al reato di essere prescritto, consentendo anche di perseguire i responsabili dell’attentato in qualsiasi paese.