L’incredibile rimonta di Roberto Di Donna ad Atlanta 1996
Il primo oro italiano di quelle Olimpiadi – e il più noto di sempre nel tiro a segno italiano – era stato atteso per giorni e poi considerato quasi impossibile, ma un blackout e un errore impensabile cambiarono tutto
di Gabriele Gargantini
«È accaduto: una cosa straordinaria». Il 20 luglio del 1996, il primo giorno di gare delle Olimpiadi di Atlanta, Stefano Bizzotto, alla prima telecronaca della sua prima Olimpiade, commentò così l’incredibile medaglia d’oro vinta da Roberto Di Donna nella pistola ad aria compressa da 10 metri. Il commentatore tecnico di quella finale, Roberto Ferraris, che era stato l’ultimo italiano a vincere una medaglia olimpica nel tiro a segno (un bronzo nel 1976), in cabina di commento nemmeno c’era più: era andato a festeggiare insieme a Di Donna.
Brigadiere ventisettenne delle Fiamme Gialle, Di Donna era arrivato a quelle Olimpiadi come uno dei favoriti per l’oro, ma un brutto risultato nel primo dei dieci colpi della finale sembrava averne irrimediabilmente compromesso le possibilità di vittoria. Tra cali di tensione e blackout – sia figurati che letterali – e grazie alla sua costanza Di Donna vinse però l’oro a scapito del cinese Wang Yifu, saldamente in testa fino al penultimo colpo. Di Donna vinse per un decimo di punto su un totale di quasi 700 punti. «La mia bravura in quel frangente è di non aver mai mollato», ricordò Di Donna intervistato dal programma di Rai 3 Sfide vent’anni dopo quell’oro: «Lui ha perso l’Olimpiade all’ultimo colpo, ma soprattutto l’ho vinta io all’ultimo colpo».
Con l’avvicinarsi di ogni nuova Olimpiade a Di Donna, che ora è commissario tecnico della squadra italiana di pistola, capita di dover ricordare e raccontare di nuovo quei giorni. Lo fa con molto piacere, dice, perché è uno dei modi «per restituire tutto quello che lo sport mi ha dato». Inizia raccontando che, da atleta in gara già il primo giorno, l’avvicinamento a quell’Olimpiade fu per lui anomalo e perlopiù solitario.
«Preparai quell’Olimpiade in modo maniacale», ricorda, «leggendo tutto quel che potevo sul clima che avrei trovato, chiedendo di poter evitare di stare nel trambusto del villaggio olimpico e portandomi dall’Italia le zanzariere da mettere alle finestre, per poter avere un sonno migliore».
Arrivato con una decina di giorni di anticipo per assimilare il jet lag e il nuovo clima afoso, la sera del 19 luglio Di Donna non partecipò alla cerimonia di apertura (è prassi che gli atleti impegnati nelle prime gare la evitino) e si mise a dormire poco dopo aver visto l’ex pugile Muhammad Ali, già visibilmente malato di Parkinson, accendere da ultimo tedoforo (il tedoforo è quello che porta la torcia) il braciere olimpico.
Il giorno seguente, sabato 20 luglio, sapendo della sua richiesta di restare concentrato, nessuno mostrò a Di Donna che la Gazzetta dello Sport gli aveva dedicato il titolo principale della prima pagina, una cosa mai successa prima per il tiro a segno, uno di quegli sport per cui l’Olimpiade è davvero il centro di tutto perché per tutto il resto del tempo è molto poco seguito. “L’Italia mira al 1° oro”, diceva il titolo di un articolo che presentava Di Donna come «favorito per l’oro».
Di Donna era alla sua terza Olimpiade. Dopo aver iniziato a tirare a 12 anni, attirato da «uno sport fatto di disciplina, attenzione e concentrazione» e «senza aver mai avuto la passione per le armi», aveva fatto l’esordio olimpico non ancora ventenne a Seul 1988, finendo 23°, e a Barcellona 1992 era arrivato ottavo nella prova di pistola 10 metri aria compressa, la sua preferita. Negli anni e nei mesi prima di Atlanta 1996 Di Donna aveva ottenuto tanti podi e non poche vittorie: era davvero tra i favoriti, e aveva ottime possibilità di diventare il secondo a vincere un oro olimpico nella storia del tiro a segno italiano, dopo il primo di Los Angeles 1932.
La prova maschile di pistola 10 metri aria compressa si disputò al Wolf Creek Shooting Complex di Atlanta, con quasi 40 °C fuori e una forte aria condizionata dentro, davanti ad alcune migliaia di spettatori. Il formato di gara prevedeva una prova fatta di 60 colpi per ognuno dei 50 partecipanti, al termine della quale si sarebbero qualificati alla finale immediatamente successiva i migliori 8. Una finale in cui – a differenza di quanto accadrà a Parigi – si accedeva portandosi dietro i punti della qualificazione, senza che ci fosse un “reset” dei punteggi.
Le persone che dall’Italia si misero a seguire la finale in quel primo giorno di Olimpiadi non ebbero grandi problemi a capire le regole della disciplina. C’è un bersaglio fisso fatto di cerchi concentrici verso cui i tiratori sparano in posizione statica da 10 metri di distanza. Le pistole hanno un calibro di 4,5 millimetri e pesano circa un chilo e mezzo. Si sparano pallini di piombo verso un bersaglio in cui il cerchio interno, quello che vale 10, ha un diametro più piccolo di quello di una moneta da un centesimo. Nei primi 60 colpi si sommano i valori interi dei colpi (che solitamente sono soprattutto da 9 e da 10); nelle finali si contano anche i decimali in base a dove, all’interno di ogni cerchio, è finito il colpo (e quindi si può fare un 10.9, un 9.4 e così via).
E poi, oltre alla precisione, sull’esito della gara incide molto anche la parte umana, che risente di una qualificazione lunga un paio d’ore e della successiva finale, con i battiti che arrivano fino a 160 al minuto e – come racconta chi ci è passato – i pensieri che si aggrovigliano. «Il tiro ti macera» disse Di Donna nei giorni precedenti a quella gara, «emergi solo quando sei al massimo della concentrazione, devi crescere gara per gara, maturando come uomo e come tiratore. Nel tempo ho imparato a sparare ad alti livelli limando le esaltazioni e le depressioni per un colpo riuscito o solo sfiorato, perché il vero avversario sei sempre tu e non gli altri. Da fuori sembriamo tranquilli, sereni e serafici ma abbiamo una turbolenza interiore».
Per chi guardava da casa, Di Donna si fece notare anche per un particolare “monocolo” davanti all’occhio sinistro: «io sparavo con la mano destra ma miravo con l’occhio sinistro, che per me era il dominante; e quella era una normale lente per miopia e astigmatismo, indossata con una particolare montatura che serviva a tenere la lente in posizione».
Dopo i 60 colpi di qualificazione, in cui il peggiore dei partecipanti fece 547 punti su 600 possibili, Di Donna era secondo a pari merito con il polacco Jerzy Pietrzak: entrambi avevano 585 punti, due in meno di Wang, che da campione in carica e altro grande favorito per l’oro aveva appena fatto segnare il nuovo record olimpico della disciplina.
Di otto anni più anziano rispetto a Di Donna, Wang aveva vinto il bronzo olimpico a Los Angeles 1984, nella gara in cui un suo connazionale vinse il primo oro olimpico nella storia della Cina, che prima non vi partecipava. A Barcellona 1992 aveva poi vinto l’oro nella pistola 10 metri con 585 punti in semifinale e 99.8 in finale, per un totale di 684.8 punti.
«Ero partito molto teso» ricorda Di Donna, «ma feci una delle gare più belle della mia vita, con un unico calo di tensione nell’ultima decina, dove tirai un 8, che sapevo mi sarei portato in finale e che temevo avrebbe potuto fare la differenza per la vittoria».
La finale per Di Donna partì male, con un 8.3: un pessimo punteggio a quei livelli, che già da solo rischiava di comprometterne le ambizioni di medaglia. «Dopo quel tiro», racconta Di Donna, «mi sono cancellato: ho dimenticato tutto e tutti, e mi sono concentrato per ricercare la perfezione ad ogni tiro. Quell’8.3 era, non dico impossibile, ma comunque molto difficile da recuperare, ma ebbi capacità e merito di dimenticarmi completamente di tutto».
C’era uno speaker che annunciava i punteggi dei tiratori, ma Di Donna si impegnò per non farci caso, sebbene racconta che qualche volta gli capitò di sentire che Wang, in una vicina corsia di tiro, stava infilando una serie di 10. «Non guardavo la classifica, mi ero creato una bolla agonistica ed ero all’oscuro di tutto ciò che mi succedeva tutto intorno».
Mentre in Italia era sera, e la finale di pistola ad aria compressa era trasmessa a un pubblico che difficilmente sarebbe potuto essere più vasto, Wang stava in effetti andando benissimo: «Per il momento è di un altro pianeta», commentò Bizzotto. Al brutto 8.3 iniziale Di Donna fece seguire un 9.4, un 9.8, un 9.6 e cinque tiri sopra al 10, senza mai avvicinarsi davvero alla prima posizione e anzi finendo in certi momenti anche in quarta o quinta posizione. Prima dell’ultimo colpo Wang aveva 3.8 punti di vantaggio su di lui: un vantaggio enorme in una gara dove spesso si va sopra il 10 e dove anche solo un 8.3 è un pessimo colpo.
Prima dell’ultimo tiro al Wolf Creek Shooting Complex ci fu un blackout elettrico. Forse per il caldo, e quindi con tanti sistemi per l’aria condizionata attivi, o forse per un cavo tranciato da un albero caduto, saltò la corrente e la gara dovette fermarsi per tre minuti. Di Donna non ricorda cosa di preciso pensò in quei minuti, e probabilmente il suo merito fu proprio di non pensare a niente: tornata la corrente e arrivato il suo turno sparò l’ultimo colpo, un ottimo 10.4. Si girò verso l’allenatore che gli disse «hai vinto l’argento».
Mancava però l’ultimo colpo di Wang, di cui già prima Bizzotto aveva detto che era talmente in vantaggio da «potersi permettere anche dei 9». Né lui né Ferraris si curarono però particolarmente di quel tiro, ritenendo pressoché impossibile – e con ottime ragioni – che potesse perdere l’oro.
Intanto Di Donna era ancora in corsia e guardava Wang che «alzava e non tirava, alzava e non tirava». Vuol dire che per ben due volte, sapendo di avere un massimo di 75 secondi per sparare, Wang aveva preparato il colpo senza poi farlo partire, con sempre meno tempo a disposizione e «con il mirino che andava da tutte le parti». Wang infine sparò e fece 6.5. Un errore quasi inconcepibile, un punteggio che permise a Di Donna di vincere l’oro per un decimo, con 684.2 punti contro i 684.1 di Wang.
Di Donna realizzò e festeggiò, ma ricorda che all’euforia e al «turbinio di emozioni fortissime» seguì un momento di «solidarietà e dispiacere per il dramma sportivo e umano di uno con cui avevo fatto mille battaglie».
Fu probabilmente per una somma di motivi che Wang si accasciò su una sedia e uscì dal Wolf Creek Shooting Complex in barella e con una maschera per l’ossigeno, saltando tra l’altro la cerimonia di premiazione.
Su cosa ebbe quel giorno e sui successivi referti ospedalieri ci sono diverse versioni: si parlò di diabete ma anche di più generici problemi dovuti allo stress di quella gara, e alcune settimane dopo il New York Times parlò di una vertebra dislocata e di più generali problemi al collo. Di Donna racconta che nei momenti del blackout gli capitò di incrociare lo sguardo di Wang, che toccandosi la pancia gli fece un cenno «come per dire “non mi sento bene”». Qualsiasi cosa fosse alla base di quel malore di certo passò piuttosto in fretta, perché tre giorni dopo Wang si presentò, cavandosela piuttosto bene, alla prova di pistola da 50 metri.
La sera dopo quell’oro Di Donna andò a una festa in cui Luciano Pavarotti gli disse «lei ha fatto una cosa bellissima per il nostro paese»; poi salutò presto la compagnia per riposarsi per la gara di pistola da 50 metri.
Di Donna dormì con un commissario antidoping a vegliare su di lui (c’era stato un problema dovuto alla densità delle urine che richiedeva un secondo controllo, in attesa del quale doveva restare sotto sorveglianza costante), mentre intanto in Italia la Gazzetta dello Sport gli aveva dedicato, per il secondo giorno di fila, il titolo in prima pagina, con una foto tanto grande quanto quella di Muhammad Ali.
Tre giorni dopo, nella gara da 50 metri Wang arrivò sesto e Di Donna terzo. Di Donna tornò a gareggiare alle Olimpiadi di Sydney nel 2000 e, pur avendo conquistato un posto anche per quelle di Atene 2004, scelse di rinunciare a quel posto e lasciarlo a un altro atleta non sentendosi abbastanza in forma, perché «bisogna avere consapevolezza dei propri limiti», dice. Proprio ad Atene 2004, in quella che fu la sua sesta e ultima Olimpiade, Wang vinse il suo secondo oro olimpico nella pistola 10 metri ad aria compressa.
Abituato a rispondere alle domande su Wang quasi quanto a quelle su se stesso, Di Donna spiega che «ad atleti del calibro di Wang – e modestamente di Di Donna – non succede, non a quei livelli, di fare un 6 in una finale. Ma quando si rompe il meccanismo può succedere di tutto». Qualcosa di ancora peggiore di quanto successo a Wang accadde allo statunitense Matthew Emmons, vincitore di tre medaglie olimpiche ma ben più ricordato per quelle che non vinse. Nel 2004, nella carabina 50 metri 3 posizioni, fece zero all’ultimo tiro, dopo che era virtualmente oro, perché si confuse e mirò al bersaglio del vicino. Nel 2008, sempre nella carabina 50 metri 3 posizioni, arrivò ancora oro virtuale all’ultimo tiro, dove però premette il grilletto prima del dovuto e fece 4.4.
L’ultima occasione in cui Wang e Di Donna si sono rivisti fu «nel 2019 o nel 2020», in occasione dei campionati europei dove Wang era presente in quanto vicepresidente della federazione mondiale: «Ci siamo abbracciati e ci siamo commossi», ricorda Di Donna, «è una presenza costante della mia vita».