L’antico palazzo napoletano restaurato fuori e in rovina dentro
Palazzo Carafa di Maddaloni venne danneggiato dal terremoto del 1980: quarant'anni dopo la facciata è stata rimessa a nuovo, ma le sale che ospitarono Napoleone e i concerti di Scarlatti e Pergolesi ancora no
di Angelo Mastrandrea
Visto da fuori, il Palazzo Carafa di Maddaloni, uno degli edifici dell’epoca barocca più importanti di Napoli, appare rimesso a nuovo. La facciata di colore rosso pompeiano è stata rifatta e così pure l’imponente portale seicentesco in marmo e piperno, una roccia ricavata dalla lava del Vesuvio e molto utilizzata nei palazzi più antichi della città. È tornato al suo posto anche il mascherone in legno nel rosone, che era stato rubato ed è stato trovato online, dove un antiquario bergamasco l’aveva messo all’asta. All’esterno, una targa ricorda che durante il Regno delle Due Sicilie l’edificio fu la sede della Corte suprema di giustizia e che all’inizio del Novecento ci abitò il giurista e filosofo Luigi Miraglia, che fu anche sindaco di Napoli. Nell’androne è stata lasciata la scritta di una vecchia tipografia, mentre il cortile è stato ristrutturato e vicino allo scalone è stato installato un ascensore nuovo.
All’interno la situazione è completamente diversa. Antonio Monti è un insegnante di religione che ha ereditato il cosiddetto «piano nobile», il secondo, dove si trova l’appartamento che in passato veniva considerato il più importante del palazzo (di solito il piano nobile nei palazzi era il primo, in realtà, ed era dotato di un ampio loggione). Monti mostra in che stato rovinoso si trovino le stanze, indica le crepe nei muri e sui pavimenti dei balconi, i vetri delle finestre rotti e gli stipiti che si aprono a fatica, gli affreschi malridotti, i danni provocati da un incendio che nel 2018 distrusse il tetto, le colonne e i soffitti ancora puntellati dopo il terremoto del 1980.
Nel palazzo, dalla fine del Cinquecento, abitarono prima il marchese spagnolo Cesare d’Avalos, che fece costruire il palazzo, poi il mercante e collezionista d’arte fiammingo Gaspar Roomer, che ci portò 1.500 dipinti di pittori italiani e olandesi. Alla metà del Seicento ci si stabilì il principe Diomede Carafa di Maddaloni, poiché il noto rivoluzionario Masaniello e alcuni altri rivoltosi avevano occupato il palazzo in cui viveva nel rione Stella. Da quando nel 1806 i Carafa vendettero a pezzi il palazzo, molti aristocratici si avvicendarono al piano nobile.
La sala da ballo ospitava i ricevimenti della nobiltà napoletana, i concerti e gli spettacoli di danza e di teatro prima che fosse costruito il teatro San Carlo. Attualmente è abbandonata. Monti racconta che era abitualmente frequentata dal compositore Domenico Scarlatti, e Giovan Battista Pergolesi ci suonò per la prima volta la sua composizione sacra Stabat Mater. Si dice che ci abbia suonato anche Mozart, che quando era molto giovane tenne alcuni concerti in diversi palazzi napoletani, ma su questo non ci sono conferme. Di sicuro, il salone fu utilizzato almeno fino alla metà del Novecento, anche da note attrici teatrali come Anna Maria Ackermann e le sorelle Pagano. Nel 1981 la regista Liliana Cavani lo trasformò in un circolo di soldati americani nel film La pelle, e c’è chi si ricorda di Marcello Mastroianni addormentato in un angolo per un riposo pomeridiano.
Sono in rovina anche gli altri tre saloni, che all’inizio dell’Ottocento ospitarono a pranzo e a cena Napoleone Bonaparte nei suoi soggiorni napoletani e le riunioni della massoneria col generale francese e re di Napoli Gioacchino Murat, e dove dopo l’Unità d’Italia si ritrovavano intellettuali come la giornalista e scrittrice Matilde Serao, il poeta Salvatore Di Giacomo e il filosofo Benedetto Croce.
In uno di quei saloni è arrotolata dalla fine degli anni Novanta la tela di 400 metri quadrati che copriva il soffitto della sala da ballo, del pittore settecentesco Fedele Fischetti. Fu tolta alla fine degli anni Novanta per evitare che si rovinasse, visto che quando pioveva filtrava l’acqua dal tetto, e non venne mai rimessa.
In un’altra sala «hanno rubato un intero pavimento del Settecento», racconta Monti. Nel salone da ballo sono scomparse quattro angoliere in legno dorato che raffiguravano le quattro stagioni e non sono mai state trovate alcune statue e uno dei cinque busti che adornavano la loggia. Monti ha ritrovato da un antiquario di Viterbo solo il tritone che ornava la fontana. Qualcuno notò l’assenza perché le opere erano state fotografate nel 1985 da Mimmo Jodice, uno dei più importanti fotografi italiani del Novecento, e il caso finì sui giornali. Gli altri busti e una statua furono smontati per evitare che a loro volta fossero rubati e ora sono poggiati in un corridoio, anche loro in attesa del restauro. «Questo edificio è come un cadavere imbellettato, lo hanno abbellito e truccato all’esterno come si fa con i morti, mentre dentro cade a pezzi», dice Monti.
Il palazzo si trova all’incrocio tra la centrale via Toledo e Spaccanapoli, la strada che attraversa per due chilometri il centro storico della città. È alto cinque piani, ognuno dei quali è grande circa 2.500 metri quadrati e ha dieci balconi per ogni lato. Fu costruito tra il 1580 e il 1585, gli affreschi all’interno furono affidati ai principali pittori napoletani dell’epoca e nel tempo subì molte modifiche e ampliamenti, tra cui un importante restauro alla metà del Seicento affidato all’architetto bergamasco Cosimo Fanzago. Nel 1944 venne assai danneggiato da un bombardamento, che distrusse una sala a cupola che affacciava su via Toledo e un’ala del palazzo, ricostruita nel dopoguerra senza rispettare la planimetria originale.
Monti cominciò a frequentarlo quando aveva 14 anni. «Un giorno la mia insegnante di canto, un’anziana signora, mi disse che voleva portarmi a vedere la sala in cui si era esibita da giovane, ne rimasi molto colpito perché non avevo mai visto un palazzo che aveva un teatro privato al suo interno», racconta. La donna era amica dell’allora proprietaria, la signora Comitale, la quale l’aveva acquistato dall’ultimo aristocratico che ci abitò, Antonino Monaco di Arianello. Monti continuò a frequentare Comitale anche da adulto, dopo la morte della sua insegnante, accudendola quando diventò anziana e sola. E così quando la donna morì, nel 1997, lasciò una parte del palazzo in eredità ai nipoti, ma destinò a lui i 1.200 metri quadrati del piano nobile, più un altro appartamento confinante e i 300 metri quadrati della loggia esterna.
Nel 1980 il palazzo fu seriamente danneggiato dal terremoto. Persino la Municipalità del quartiere napoletano di Montecalvario, che aveva lì la sede, fu costretta a lasciarlo.
Nel 1983 i condòmini presentarono un progetto di ristrutturazione che fu finanziato con 8 miliardi di lire (più di 15 milioni di euro di oggi) grazie alla legge sulla ricostruzione post-terremoto. La pratica però rimase bloccata in comune per più di vent’anni e ci furono anche due inchieste giudiziarie. La prima, nel 1990, coinvolse il presidente della Municipalità, il democristiano Mario Caracciolo, che fu accusato di aver chiesto una tangente del 10 per cento sui lavori. Per scoprirla i carabinieri si finsero dipendenti della ditta che aveva vinto l’appalto. La seconda riguardò alcuni tecnici comunali, che nel 2000 furono indagati per aver favorito alcune imprese nell’assegnazione dei lavori.
I condòmini, in tutto una cinquantina di famiglie, anni dopo presentarono un ricorso al TAR (tribunale amministrativo regionale) contro le inadempienze del comune. Il TAR accolse il ricorso e la giunta comunale nel 2008 approvò una delibera per sbloccare i lavori. Il vecchio stanziamento di 8 miliardi di lire fu convertito in 7 milioni e 800mila euro, sempre presi dai fondi per la ricostruzione. Nel 2010 finalmente i lavori iniziarono e il 5 febbraio del 2016, trentasei anni dopo il terremoto, il sindaco Luigi de Magistris inaugurò il portone monumentale ristrutturato. «È il primo tassello di un grandissimo lavoro di squadra, siamo riusciti a sbloccare le incrostazioni che hanno caratterizzato i lavori di questo restauro, che non è ancora finito», disse.
«Se avesse fatto un giro all’interno del palazzo si sarebbe accorto di come stavano davvero le cose», dice Monti. All’appartamento “nobile”, secondo il progetto iniziale, spettavano 4,2 milioni del finanziamento, ma secondo Monti «furono dirottati tutti per rifare la facciata» e all’interno ne furono spesi solo 860mila. Con quei soldi fu rifatto il tetto andato a fuoco, si cominciò il restauro della sala concerti e fu ripulita e foderata la tela di Fischetti, che si era salvata dall’incendio perché era stata smontata e arrotolata già alla fine degli anni Novanta. Non fu fatto però nessun lavoro di consolidamento.
Monti denuncia il rischio di cedimenti strutturali del palazzo e dice che, viste le condizioni in cui si trovano le sale e il rischio di crolli, non se la sente di aprirle alle visite turistiche o a quelle scolastiche. Poiché il palazzo è vincolato dallo Stato per il suo interesse artistico e storico, e il ministero della Cultura sul suo sito lo definisce «un gioiello del barocco», a ottobre del 2023 Monti ha girato con il suo cellulare un video tra le sale e la loggia in rovina, chiedendo al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano di intervenire. Finora non ha ottenuto risposta.