Niente come la voce umana
«La riscoperta degli Staples Jr. Singers inizia in maniera timida, con un 45 giri acquistato per un dollaro da Greg Belson, un collezionista. Il pezzo finisce in una raccolta e qualche copia dell'album riaffiora sul mercato. Belson riesce a comprarne una, a 600 dollari, e la gira a una casa discografica. Inizia una benigna caccia all’uomo, simile a quella che portò a riscoprire Sixto Rodriguez. L’etichetta riesce a rintracciare Annie Brown: si è sposata e ha aperto un negozio di vestiti a West Point, in Mississippi. Oltre a lei ci sono altri due fratelli, Edward e R.C., che come Annie hanno continuato a suonare gospel per tutta la vita. La casa discografica si fa autorizzare la ristampa e riesce anche a convincere i fratelli Brown a tornare a suonare per promuoverla, con quattro date a New York»
Il 1° giugno del 1999 due ragazzi americani, Shawn Fanning e Sean Parker, appena usciti dalla high school mettono online un programma di file sharing chiamato Napster, disegnato per permettere agli appassionati di scambiarsi file musicali in formato mp3, peer to peer, da un computer all’altro. Il software conterà circa dieci milioni di iscritti nel momento in cui i Metallica, intorno al febbraio dell’anno successivo, scoprono che il rough mix di un singolo a cui stanno ancora lavorando era stato scaricato su Napster e già trasmesso da alcune stazioni radio americane. Inizia con questo episodio la storia di una lunga guerra, quella che le multinazionali della musica dichiareranno a ogni forma di file sharing, di condivisione tra appassionati a costo zero.
Napster, il software più in vista e di maggior successo, ha vita breve: la battaglia legale contro il software di Fanning e Parker è aggressiva e ha effetti praticamente immediati. Ma è la fine di Napster, paradossalmente, a segnare il vero inizio della cultura del file sharing. Nel momento in cui il software chiude, i suoi utenti sono già migrati in una galassia di alternative (Kazaa, Audiogalaxy, WinMX, LimeWire) che escono ormai su base mensile, ognuna con caratteristiche peculiari. È in quel periodo che inizia a diffondersi seriamente la credenza che, detto in soldoni, internet avrebbe ucciso la musica.
Per l’epoca era un ragionamento logico, forse un po’ catastrofista, ma con una sua coerenza di fondo. La crescita esponenziale del numero di downloader compulsivi stava iniziando a segnare un calo delle vendite dei formati fisici, con diminuzioni in doppia cifra ogni anno. Il futuro era visibile a occhio nudo: il sistema-musica sarebbe imploso, nessuno sarebbe riuscito a guadagnare più un dollaro suonando, e di lì a qualche anno la gente avrebbe smesso di realizzare dischi.
Il tempo è riuscito a dimostrare l’infondatezza delle preoccupazioni più pessimiste: certamente i modelli di business sono cambiati, e non si può fare più affidamento sulla vendita di dischi fisici per campare. Ma a un quarto di secolo esatto dalla nascita di Napster, i dati sembrano dirci che il mercato della musica, e in particolar modo il mercato emerso che aveva mosso guerra senza quartiere a Napster e fratellini, sta benissimo. O quantomeno questo è quel che dichiara IFPI, la International Federation of the Phonographic Industry, che compila annualmente un rapporto sullo stato del business e che anche nell’edizione 2024 parla senza mezzi termini di crescita, ottimismo, diversificazione e simili.
Va detto che quelli sbandierati da IFPI sono dati molto contestati che non sembrano rappresentare da vicino il tran tran quotidiano del mondo musicale nel suo complesso; che quelle cifre sono largamente inficiate da una ripartizione molto opaca dei proventi legati allo streaming, e da altre questioni economiche accessorie di cui una vasta schiera di artisti si sta lamentando e mobilitando. Rimandando gli approfondimenti alle sedi opportune, rimane però evidente che le previsioni apocalittiche formulate da operatori e osservatori del mercato musicale agli albori dei noughties, i primi dieci anni del Duemila, si sono rivelate decisamente esagerate. Sempre in soldoni: internet non ha affatto ucciso la musica. O più esattamente, il suo potenziale assassino si è rivelato un nonnulla rispetto alla sua capacità di resuscitarla. Le analisi di cui sopra non hanno tenuto conto dell’entusiasmo degli appassionati, che ha ampliato a dismisura il pubblico potenziale della musica, e in particolar modo di tutte quelle musiche che fino a quel momento sopravvivevano a malapena ai margini del mercato. Prima tra tutte, la musica del passato.
Nella visione classica della discografia novecentesca pre-Napster, la salvaguardia della tradizione musicale nel corso dei decenni è affidata ai venditori: il disco di un certo artista viene stampato da un’etichetta in un certo numero di copie, e finché quelle copie ci sono, il disco rimane ‘in catalogo’, disponibile a chiunque voglia acquistarlo sui canali di vendita usuali (negozi, mail order). Quando la tiratura si esaurisce, l’etichetta può decidere di ristampare o non ristampare quel disco, secondo normali logiche commerciali di domanda e offerta. Se il disco non viene ristampato esce dal catalogo, e da un punto di vista strettamente legale quel disco non è più scambiabile. A questo punto interviene un mercato secondario, quello dei dischi usati e delle rarità.
È un mercato specifico, animato da operatori che hanno una rete di contatti, hub commerciali di riferimento (certe fiere, certi negozi, certi mail order) e competenze specifiche. I dischi acquistano o perdono valore secondo logiche interne a quel mercato. Nella visione della discografia post-2000, l’espressione ‘fuori catalogo’ ha perso la maggior parte del suo senso: se il disco è stato stampato in qualsiasi momento della storia, la musica può essere copiata su file, scambiata da un computer all’altro, circolare secondo dinamiche di puro entusiasmo, continuando a esistere all’interno di una rete impalpabile che, non di rado, è in grado di fornire le premesse commerciali perché il disco torni a essere stampato e commerciato, magari in edizioni extralusso.
Oggi questo mercato delle reissue è diventato una parte tutt’altro che trascurabile del mercato discografico nel suo complesso, animata da migliaia di etichette specializzate in ristampe, come la Numero Group di Chicago o l’italiana Cinedelic. Grazie allo scambio tra appassionati, titoli di dischi che il mondo considerava morti e sepolti torna a farsi sentire, generando curiosità, interesse e – di quando in quando – persino delle reunion. È quello che è successo con uno dei più citati esempi di questa dinamica, raccontato in uno stupendo documentario del 2012, A Band Called Death. Un’opera che narra la storia di un’oscura band di tre fratelli, attivi a Detroit nella metà degli anni Settanta: avevano registrato un disco che anticipava in qualche modo quel che sarebbe stato il primo punk rock, ma non erano riusciti a pubblicarlo e si erano sciolti. Trentacinque anni dopo, il tam tam su internet generato dall’unico singolo che i fratelli Hackney erano riusciti a stampare, in edizione ultra-limitata, aveva generato abbastanza entusiasmo da convincere l’etichetta musicale Drag City a dare alle stampe il loro primo disco, con tanto di reunion, tour mondiali in club da tutto esaurito e perfino un nuovo album di inediti.
Quella dei Death, cioè dei fratelli Hackney, è una storia che presenta tantissime affinità con quella di un disco intitolato Searching, uscito il 14 giugno di quest’anno. Comincia idealmente nel 2019, con la pubblicazione di una raccolta intitolata The Time For Peace Is Now. L’etichetta che la pubblica si chiama Luaka Bop ed è stata fondata alla fine degli anni Ottanta da David Byrne (Talking Heads). Luaka Bop si occupa sia di novità che di ristampe, è specializzata in quella che molti di noi chiamano impropriamente world music, ma è contraddistinta da un approccio molto laico al genere che ricalca la visione musicale del fondatore della label: tutta la musica è musica popolare.
The Time For Peace Is Now è il secondo episodio di una serie chiamata World Spirituality Classics. Raccoglie tredici lost gems di area gospel registrate nei primi anni Settanta: 46 minuti di musica per un totale di dodici artisti. Il materiale è compilato da Greg Belson, un dj/collezionista inglese trasferitosi a Los Angeles che ha passato la vita ad accumulare edizioni minuscole di album e singoli del genere creando un archivio sterminato. Yale Evelev, attuale presidente di Luaka Bop, ascolta una puntata del suo programma radio e decide di affidargli la cura di una raccolta. È tutto materiale che agli occhi della discografia ufficiale può considerarsi sostanzialmente inedito, soprattutto per via delle prassi di mercato con cui il gospel veniva scambiato in quell’epoca: la maggior parte dei gruppi di quel genere registrava e stampava dischi in totale autonomia, pagandosi lo studio e l’edizione per una piccola tiratura di album, senza etichette specializzate che li supportasse.
A dispetto di questa invisibilità per i meccanismi del rock degli anni Settanta, The Time For Peace Is Now testimonia di una scena viva e pulsante che fa innamorare la critica specializzata. Valga per tutti un best new reissue assegnato al disco su Pitchfork: nell’entusiasta recensione di Stephen Thomas Erlewine, tra le altre cose, viene menzionato un nume tutelare che sembra posare la sua influenza su tutti gli artisti presenti nella raccolta: i leggendari Staple Singers di Chicago, che in quegli anni pubblicano per Stax Records e che rappresentano la versione emersa e mainstream di quello che si ascolta nella raccolta. Sono loro gli alfieri di un nuovo approccio al genere: la musica si ibrida con il funk e con altri generi, i testi superano la preghiera per diventare riflessioni personali sull’umanità. In The Time For Peace Is Now sono presenti perfino gli Staples Jr. Singers, una band il cui nome è un tributo agli Staple Singers e un involontario indice di un’esistenza così ai margini del mercato da non aver mai sollevato questioni legali (Greg Belson aveva acquistato un loro singolo per un dollaro in qualche negozio dell’usato del Midwest).
Gli Staples Jr. Singers sono una family band di Aberdeen, Mississippi. Dieci fratelli, cognome Brown, introdotti al gospel da bambini dal padre cantante e devoto religioso; si esibiscono soprattutto alle funzioni della loro chiesa, ma già nella primissima adolescenza sono un gruppo rodato e con canzoni proprie, che gira per gli stati del Sud attirando un discreto seguito. Il nome lo scelgono un po’ per scherzo e un po’ come omaggio, per via dei continui paragoni con la band creata dal patriarca Roebuck “Pops” Staples con le figlie Cleotha, Mavis e Yvonne, e il figlio Pervis. Nei loro tour improvvisati gli Staples Jr. Singers hanno modo di osservare la realtà del Sud dei primi anni Settanta, formalmente desegregato ma ancora pieno di problemi, e la loro poetica cambia, inglobando lentamente l’elemento politico, come già avevano fatto i loro ‘padrini’ Staple Singers. Nel 1975 incidono un album, con mezzi di fortuna, ovviamente in totale autonomia – When Do We Get Paid? – che viene venduto ai concerti e nel cortile della casa di famiglia.
When Do We Get Paid?, per gli standard di un genere tutto sommato conservatore come il gospel, è un disco inusuale. Le voci di Annie ed Edward Brown sono ancora voci di ragazzi, ma le tematiche sono oscure e complesse, decisamente introspettive. Più in generale, i generosi riferimenti alla Bibbia sembrano più metafore di un approccio solidale, che segni di appartenenza al genere e alla religione da cui è nato. L’obiettivo dell’album è probabilmente dare una testimonianza dei concerti della band, infatti la scaletta è divisa tra uptempo per far ballare il pubblico (in cui non è impossibile sentire l’impronta di un certo funk-soul-R&B dell’epoca, quello di Curtis Mayfield o Marvin Gaye) e momenti più interlocutori di stampo blues. When Do We Get Paid? rimarrà l’unico documento dell’esistenza della band, che si scioglierà in seguito alla disgregazione della famiglia Brown (litigi, contenziosi, lutti).
La riscoperta degli Staples Jr. Singers inizia in maniera timida, da un 45 giri della collezione di dischi di Greg Belson, con la benedizione di David Byrne. Ma poco dopo l’uscita di The Time For Peace Is Now, qualche copia di When Do We Get Paid? riaffiora sul mercato. Belson riesce a comprarne una, alla modica cifra di 600 dollari e gira immediatamente i file a Luaka Bop. Da lì in poi inizia una benigna caccia all’uomo, simile a quella che portò a riscoprire Sixto Rodriguez. L’etichetta, che è in cerca dei membri sopravvissuti della band, che autorizzino la reissue del disco, riesce a rintracciare Annie Brown che, dopo essersi sposata, è diventata Annie Caldwell, ha aperto un negozio di vestiti a West Point, sempre nel Mississippi, a poche miglia dalla natia Aberdeen, e fondato un’altra family band, Annie & The Caldwell Singers. Della famiglia Brown sono rimasti altri due fratelli – Edward, l’altro cantante, e il chitarrista R.C. – che come Annie hanno continuato a suonare e cantare gospel per tutta la vita. Ricuciti gli strappi familiari, Luaka Bop si fa autorizzare la ristampa e riesce anche a convincerli a tornare a suonare per promuoverla: quattro date a New York, organizzate dall’etichetta.
When Do We Get Paid? viene pubblicato nel 2022 e compare anche in qualche playlist di fine anno. I primi concerti newyorkesi hanno dato esiti insperati anche perché la band, attorno ai tre membri originali, integra le nuove generazioni: un figlio a testa per Edward e R.C., e per quest’ultimo addirittura un nipote (il batterista Jaylin). Le canzoni rimangono quelle del repertorio, ma il tempo ha levigato le voci di Edward e Annie, portando gli Staples Jr. Singers ai confini del blues. Segue una tornata di concerti leggendaria che tocca l’Europa, rassegne di area jazz-contemporanea e festival come Le Guess Who? di Utrecht, nei Paesi Bassi.
A un certo punto la band registra anche qualcosa di nuovo, e semplicemente funziona. Luaka Bop decide di organizzare la release del primo disco di inediti degli Staples Jr. Singers dopo cinquant’anni. Le canzoni sono già scritte: una decina di pezzi che Edward e R.C. avevano composto nella fase finale della band, suonato qualche volta dal vivo e ficcato in un cassetto in attesa di tempi migliori. Nel progetto viene coinvolto Sinkane (al secolo Ahmed Gallab) in veste di produttore. È lui a organizzare le registrazioni, che si svolgono in maniera decisamente poco ortodossa: due serate di lavoro, dal vivo e in presa diretta, con la band seduta in cerchio all’interno di una chiesa. Si occupa lui stesso del missaggio e di qualche sovraincisione.
Searching non ha molto a che spartire, dal punto di vista musicale, col primo disco degli Staples Jr. Singers. Quel briciolo di arroganza giovanile che contraddistingueva la band ha ceduto il passo all’incedere disilluso delle voci di Annie ed Edward. Rimane lo scheletro di essenzialità con cui sono pensati gli arrangiamenti strumentali, ma il lavoro di Sinkane sembra aver tirato il disco in quella terra di nessuno tra passato e presente, dove abitano dischi come I’m New Here di Gil Scott-Heron. D’altra parte la storia degli Staples Jr. Singers è una storia di redenzione e di resurrezione, e forse le canzoni parlano anche un po’ di questo. È un disco realizzato in una situazione impossibile con materiale inedito, registrato da chi l’ha scritto, più di quarant’anni dopo averlo scritto. Nelle note di copertina di Searching il critico e giornalista musicale Anton Spice scrive che «niente come la voce umana è in grado di rivelare il trascorrere degli anni». Se la guardiamo da questo punto di vista, Searching è un disco come ce ne sono stati pochi: un’autentica testimonianza del passare del tempo, dei posti da dove veniamo e forse anche di qualche luogo sconosciuto in cui siamo diretti. Gli Staples Jr. Singers si sono imbarcati nel loro secondo tour europeo, che tra una pausa e l’altra durerà fino a fine anno. Le date della band non toccano l’Italia, ma la band figura nel cartellone di diversi festival estivi tra cui Roskilde.