I dialetti sono un grosso problema per i tribunali
A causa di scarse competenze e trascuratezza spesso si generano errori nel trascrivere le intercettazioni, che possono portare persino a condanne ingiuste
di Isaia Invernizzi
La trascrizione di una conversazione in dialetto intercettata tra un uomo accusato di omicidio e sua madre sembrava una faccenda veloce, che in poco tempo avrebbe permesso di arrivare a una sentenza. Invece un anno fa il tribunale di Udine si trovò con un problema inaspettato: quando l’interprete del dialetto foggiano scelto dal tribunale iniziò ad ascoltare le conversazioni si rese conto di non capire quasi nulla. L’uomo accusato di omicidio e la madre erano di San Severo, una cittadina della provincia di Foggia, in Puglia, e per questo parlavano in dialetto sanseverese, più peculiare e diverso dal foggiano. L’interprete fu costretto a rinunciare all’incarico e il tribunale dovette cercare un nuovo interprete esperto di sanseverese, perdendo molto tempo.
Quando nei processi c’è di mezzo il dialetto, tuttavia, i ritardi sono la conseguenza più trascurabile. Ce ne sono alcune più gravi, tra cui la più grave di tutte: il dialetto trattato con superficialità può portare a condanne ingiuste, a volte clamorose.
Il dialetto è parte di un problema più generale che riguarda l’utilizzo delle intercettazioni, su cui negli ultimi anni si sono basate moltissime inchieste e che sono servite a motivare molte sentenze di condanna. Il rischio più significativo e trascurato nell’uso delle intercettazioni riguarda la fedeltà della trascrizione delle conversazioni registrate, perché in Italia non ci sono criteri condivisi o prassi ufficiali da seguire. Ogni persona incaricata fa un po’ come vuole: c’è chi trascrive tutto parola per parola, chi si limita ai dialoghi più interessanti, chi sottolinea alcuni passaggi. Non è prevista nemmeno una professione specifica. Le trascrizioni vengono fatte talvolta dalla polizia giudiziaria, a volte dai trascrittori forensi che però hanno formazioni molto diverse, in altri casi da periti incaricati dalle parti.
Da anni esperti di linguistica forense lamentano queste approssimazioni, che i tribunali invece tollerano e giustificano forti di una sentenza della Cassazione che nel 2018 minimizzò questi problemi, definendo le trascrizioni una «mera trasposizione grafica» delle intercettazioni. In realtà molti studi italiani e internazionali hanno dimostrato che la trascrizione di un’intercettazione è un’operazione molto più complessa di una semplice trasposizione grafica, esattamente come è complesso il parlato.
Oltre al contenuto sono importanti la forma, le pause, il contesto e il non detto, i rapporti tra le persone intercettate. Uno dei motti di chi si occupa di linguistica forense dice che una trascrizione troppo “pulita” non è mai una buona trascrizione. A tutto questo il dialetto aggiunge un ulteriore livello di complessità e di difficoltà, anche in questo caso trascurato dal sistema giudiziario italiano.
Chi trascrive una conversazione in dialetto non può far altro che utilizzare una tastiera da PC e quindi adattare le regole della lingua italiana al dialetto che sta sentendo. A dispetto della sua trascrizione, tuttavia, il dialetto può essere pronunciato in diversi modi non riproducibili precisamente in forma scritta. «Una parola scritta può essere pronunciata in due modi completamente diversi: vale per tutti i dialetti», dice Luciano Romito, professore di glottologia e linguistica, oltre che direttore del laboratorio di fonetica dell’università della Calabria. «Come si può trascrivere questa differenza? E siamo certi che il magistrato o il giudice capisca questa differenza? Inoltre il nostro parlato è “multi-modale” [cioè avviene in modi diversi che riguardano anche la postura e il tono di voce, ndr] e moltissimo dipende dall’intenzione con cui pronunciamo una parola. Tutto questo è ancora più complicato nei dialetti».
Nelle indagini possono essere commessi molti errori di trascrizione, che spesso si trascinano durante i processi fino alla sentenza definitiva. In alcuni casi gli stessi errori sono la causa di condanne ingiuste. La storia di Angelo Massaro è esemplare in questo senso. Massaro fu arrestato il 15 maggio del 1996 con l’accusa di avere ucciso un uomo, Lorenzo Fersurella, in provincia di Taranto. La procura chiese il suo arresto grazie a un’intercettazione fatta nel 1995 durante un’indagine per spaccio di stupefacenti, in cui Massaro era stato coinvolto e per il quale era stato poi condannato a 10 anni di carcere.
Dalle intercettazioni ambientali per le indagini sui reati di spaccio, venne estratta una frase in particolare. Parlando con la moglie al telefono una settimana dopo che Lorenzo Fersurella era scomparso, Massaro aveva pronunciato una frase che venne fraintesa. Massaro disse, in dialetto: «Sto portando stu muers». Muers, in dialetto pugliese, è una parola che si usa per indicare qualcosa di pesante e che è d’impaccio, come lo slittino da neve che Massaro stava trasportando sulla sua auto. Nei verbali “muers” diventò “muert”, morto. Nel 2017 Massaro venne assolto dopo aver trascorso più di vent’anni in carcere per colpa di quella consonante mal trascritta.
Un altro rischio dovuto al dialetto riguarda l’identificazione della persona intercettata, un lavoro che come nel caso delle trascrizioni viene assegnato a persone senza una formazione specifica. «Quando le voci usano il dialetto la comparazione è più complicata e incerta, anche perché non esiste una banca dati che comprende i dialetti», dice Milko Grimaldi, direttore del centro di ricerca interdisciplinare sul linguaggio dell’università del Salento. «Servono studi approfonditi sulle peculiarità dialettali di una determinata area geografica, a volte molto piccola. Va analizzato l’uso delle vocali, l’esclusione di alcune precise parole. Insomma, non è affatto semplice».
Nel 2017 Grimaldi realizzò la perizia fonica che portò alla liberazione di Medhanie Tesfamariam Berhe, un uomo eritreo all’epoca 29enne, detenuto per un anno e mezzo in carcere perché accusato di essere Medhanie Yehdego Mered, uomo di 35 anni originario dell’Eritrea, uno dei capi di una grande organizzazione con base in Libia che gestiva il traffico di migranti verso l’Europa. Le prove presentate dalla procura si basavano sull’uso di un software per l’analisi della voce non in grado di riconoscere la lingua eritrea parlata da Medhanie Yehdego Mered nell’intercettazione, il Tigrinya, e per questo erano poco attendibili. La perizia fonica di Grimaldi confermò che la procura aveva commesso un errore.
Sia Grimaldi che Romito vengono chiamati spesso dagli avvocati per realizzare perizie di parte, o dai giudici per le perizie chieste dai tribunali per risolvere problemi simili che interessano intercettazioni in dialetto. Quando – quasi sempre – vengono fatti errori in fase di trascrizione, i processi durano molto di più e in molti casi non arrivano nemmeno a conclusione: le udienze si trascinano tra i conflitti di difesa e accusa. «Si affidano a noi periti pensando di trovare una soluzione definitiva, ma se i danni sono stati fatti alla base è tutto più difficile», dice Grimaldi. «L’uso delle intercettazioni è cresciuto moltissimo come fonte di prova, mentre non è cresciuta la sensibilità nel valutare questo materiale. Molti processi che potevano essere risolti in primo grado arrivano perfino alla revisione».
Secondo Romito c’è anche una sorta di dipendenza di magistrati e giudici nei confronti delle trascrizioni, che vengono considerate quasi sempre certe e inconfutabili. «Quando vengo chiamato come perito, se quello che dico non rispetta la linea del pubblico ministero sostenuta dalle trascrizioni il problema divento io e non più la trascrizione», dice. «I giudici potrebbero “tornare sulla bobina”, come si dice in gergo, cioè ascoltare le intercettazioni e magari rendersi conto che si sente poco, che c’è troppo rumore e che quindi le intercettazioni sono inutilizzabili, eppure non lo fanno quasi mai».
Questa generale approssimazione nel trattare le intercettazioni, in particolare quelle in dialetto, dipende molto dal fatto che i trascrittori non sono professionisti certificati: vengono pagati pochissimo per trascrivere ore e ore di intercettazioni e sono tutti precari. Lo scorso 19 marzo i sindacati hanno organizzato uno sciopero nazionale proprio per chiedere condizioni di lavoro migliori.
Oltre a non esserci un albo professionale dei trascrittori, in Italia non esiste un protocollo ufficiale per le buone prassi o un percorso formativo obbligatorio e unico. Una proposta di linee guida per i trascrittori è stata fatta dall’Osservatorio sulla linguistica forense (OLF), costituito da un gruppo di professionisti e professioniste che lavorano anche nel sistema giudiziario italiano, e che da tempo chiedono maggior attenzione su questo tema. Sulla base di quel documento, finora soltanto Toscana, Lazio, Marche, Abruzzo, Basilicata e Calabria hanno riconosciuto ufficialmente le figure di “tecnico di analisi e trascrizione di segnali fonici” e “tecnico di gestione della perizia di trascrizione in ambito forense”.