C’è una proposta di legge per incentivare l’assunzione di detenuti
È stata presentata in Parlamento dal CNEL e prevede maggiori sgravi fiscali per le aziende che offrono loro un lavoro
di Amos Tozzini
Il 17 giugno è stato depositato in Parlamento il disegno di legge del CNEL, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, “per l’inclusione socio-lavorativa e l’abbattimento della recidiva”. L’obiettivo di questa misura è quindi facilitare l’accesso delle persone detenute al lavoro svolto fuori dalle carceri, favorire il loro reinserimento sociale e ridurre così le probabilità che gli ex detenuti commettano altri crimini una volta tornati in libertà (quella che viene chiamata recidiva).
L’8 luglio è stata istituita la commissione parlamentare competente, e in seguito serviranno la discussione e l’approvazione delle Camere per approvarlo definitivamente: alcune parti del testo potrebbero quindi essere cambiate durante il percorso legislativo.
Se le intenzioni del CNEL saranno rispettate, verrà modificata la legge che attualmente regola le attività lavorative delle persone detenute. La legge è del 2000 e porta il nome del suo principale promotore, Carlo Smuraglia, ex senatore che ha militato in diversi partiti di sinistra, e che all’epoca era a capo della commissione Lavoro.
Nonostante la possibilità di lavorare fuori dagli istituti penitenziari per conto di aziende private e associazioni fosse già prevista dall’articolo 21 della legge 354 del 1975, in realtà solo una minima parte dei detenuti partecipava ad attività fuori dal carcere: l’idea di Smuraglia fu allora di offrire importanti sgravi fiscali agli enti che decidono di assumerli.
Per avere accesso al lavoro esterno devono verificarsi diverse condizioni. Come prima cosa occorre la disponibilità e il rispetto di tutti gli obblighi assicurativi e previdenziali del datore di lavoro. Una volta presentata la richiesta, questa deve essere approvata dalla direzione del carcere insieme a un programma rieducativo elaborato da un gruppo di funzionari dello stesso istituto. Dopo che il detenuto ha accettato formalmente gli obblighi stabiliti (per esempio gli orari di rientro), può infine iniziare a lavorare. La legge non prevede comunque che tutti possano fare richiesta: per chi ha commesso omicidi o rapine serve dimostrare di non avere legami con la criminalità organizzata, mentre altri devono prima scontare alcuni anni di pena in base alla gravità del reato. Le persone condannate all’ergastolo, per esempio, possono accedere a questo programma dopo 10 anni.
Nonostante gli incentivi offerti dalla legge, la percentuale di detenuti-lavoratori è ancora piuttosto bassa: secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), a fine 2023 solo il 33,4 per cento di tutta la popolazione carceraria svolgeva una qualsiasi attività retribuita e solo il 15 per cento lo faceva per aziende private. Secondo un rapporto del 2016 dell’associazione Antigone, che da anni si occupa di tutela dei diritti nel sistema penitenziario, la gran parte delle persone che trovano lavoro in aziende private era concentrata in poche regioni.
Le persone che riescono a imparare un mestiere mentre sono ancora in carcere così da potersi sostenere in autonomia una volta scontata la pena sono quindi una minoranza. Le minori occasioni di contatto con l’esterno rendono inoltre più complicato costruire relazioni sociali significative. I corsi di formazione, che potrebbero attenuare queste difficoltà, sono stati frequentati solo dal 6 per cento del totale nel 2023.
Tutto ciò rende più probabile che una volta scontata la pena le persone non più detenute commettano nuovamente dei crimini e tornino in carcere: la recidiva rimane infatti alta e contribuisce al problema del sovraffollamento delle strutture. Popolazione carceraria, personale penitenziario e associazioni denunciano infatti da anni una pessima qualità della vita all’interno degli istituti. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte Dei Diritti dell’Uomo eppure il tasso di affollamento è del 119 per cento.
Per migliorare la situazione, la nuova proposta di legge ha l’obiettivo di semplificare alcune procedure burocratiche e facilitare i rapporti tra gli istituti e le aziende, ma soprattutto propone lo stanziamento di maggiori fondi per le detrazioni fiscali e l’equiparazione degli stipendi dei detenuti a quelli previsti dai contratti collettivi.
Tuttavia l’intervento potrebbe non essere sufficiente: sarà per esempio necessario capire quanti fondi verranno stanziati e secondo quali criteri saranno distribuiti. Esperti e addetti ai lavori sostengono inoltre la necessità di soluzioni diverse. Paola Severino, ministra del Lavoro durante il governo di Mario Monti, ha scritto sulla Stampa che benefici simili dovrebbero essere concessi anche a quelle aziende che decidono di assumere persone ex detenute. Paolo Mordà, responsabile del progetto “Oltre il muro” della cooperativa sociale Arnèra di Pisa, ha spiegato al Post che l’attenzione dovrebbe essere spostata dai datori di lavoro ai detenuti: molte aziende offrono loro un contratto solo per il vantaggio economico, senza guidarli nel reinserimento sociale. Per questo, secondo Mordà, sarebbe più utile pensare a un percorso mirato che non li lasci soli una volta scontata la pena.
Questo e gli altri articoli della sezione Dentro e intorno al carcere sono un progetto del workshop di giornalismo 2024 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.