Perché il carcere di Bollate è per molti versi un modello
È considerato uno dei più d’avanguardia in Italia – per la buona condizione delle sue strutture e per i percorsi di studio e lavoro che offre ai detenuti, tra le altre cose –, ma non significa che non ci siano problemi
di Chiara Del Corno
Il carcere di Bollate, a Milano, è stato aperto nel 2000 ed è considerato uno dei più all’avanguardia in Italia per le sue strutture, i suoi servizi e l’importanza data al reinserimento dei detenuti nella società una volta scontata la pena. Ai detenuti sono garantiti spesso – anche se non sempre – gli standard minimi stabiliti per tutelare il rispetto della dignità umana, oltre che diverse opportunità, come quella di studiare, lavorare e partecipare alle attività culturali organizzate nel carcere. È per questo che spesso si sente parlare di “modello Bollate”.
Il carcere è costituito da due diverse zone: la prima a cui hanno accesso le persone esterne che possono partecipare ad alcune attività, la seconda frequentata quasi esclusivamente dai detenuti e dal personale penitenziario. Una volta entrati, uno dei primi edifici che si vede è InGalera, un ristorante segnalato nelle guide gastronomiche Michelin e del Gambero Rosso: dal 2015 i detenuti lavorano lì come camerieri sotto la guida di uno chef e un maître professionisti. C’è poi un teatro, che ospita laboratori e spettacoli, e dal 2017 c’è un asilo nido che accoglie non solo i figli dei dipendenti e delle famiglie nel territorio, ma anche quelli delle detenute.
Il resto della struttura è composto da otto reparti, in sostanza palazzine di quattro piani ciascuna. È presente anche una sezione femminile. Bollate ospita infatti 1.476 detenuti, di cui 166 donne, a fronte di una capienza di 1.267 posti. Anche Bollate risente quindi del problema del sovraffollamento, ma in misura in parte minore rispetto alla situazione regionale e nazionale. La Lombardia è infatti la seconda regione d’Italia dopo la Puglia per tasso di sovraffollamento carcerario più alto, 143% a novembre del 2023 rispetto alla media italiana del 127%.
Ogni reparto ha diverse sale per la socialità e appositi spazi con forni per la cottura dei cibi. Ci sono aree per la pratica religiosa, palestre e cortili in cemento in cui si può giocare a tennis, a calcio o a pallavolo e che costituiscono l’area passeggio. Al quarto reparto c’è una biblioteca con alcune sale studio. Gli spazi ospitano diverse attività culturali: per esempio, tutti i venerdì alle 16 si svolgono gli incontri di redazione del giornale scritto dai detenuti e dalle detenute, Carte Bollate.
Nel suo ultimo rapporto, l’associazione Antigone che si occupa dei diritti delle persone detenute ha rilevato che a Bollate «rispetto al passato, si riscontra oggi una maggiore chiusura all’integrazione tra donne e uomini nelle attività trattamentali miste». Significa che i detenuti e le detenute hanno poche occasioni di interagire ad eccezione di alcuni momenti come la frequentazione di corsi oltre ad altre attività.
Per partecipare alle diverse attività, per motivi di studio o di lavoro, le persone possono muoversi liberamente all’interno dei reparti perché le celle vengono tenute aperte per almeno dieci ore al giorno. In questo modello di carcere “aperto”, la cella viene quindi usata prevalentemente per dormire.
Inoltre ci sono alcuni gruppi di detenuti la cui “sorveglianza” non è costante, perché hanno sviluppato un rapporto di fiducia con la dirigenza del carcere: questi gruppi non sono sempre sorvegliati e anche gli agenti penitenziari non hanno sempre delle postazioni fisse. Questo sistema si chiama “vigilanza dinamica”, che però può comportare rischi di fughe da parte dei detenuti: l’ultima è avvenuta a giugno del 2024. Dopo quell’episodio si è quindi tornati a sollevare dubbi sull’efficacia di questo metodo, soprattutto da parte del segretario nazionale del Sappe, il Sindacato Autonomo di Polizia, che ha parlato di amministrazione inefficiente. «Maggiore autonomia significa aumentare la sfera di responsabilità delle persone e maggiore responsabilità significa anche maggiori rischi sia da parte della persona detenuta, sia da parte nostra» ha detto il direttore del carcere di Bollate, Giorgio Leggieri, in un’intervista data al Sole 24 Ore il 26 giugno.
L’importanza di conoscere i detenuti e trovare delle soluzioni mirate e quindi personalizzate alle varie criticità è un’importante innovazione di Bollate. La psicoterapeuta Manuela Leoni ha lavorato lì dal 2014 al 2018 in un progetto che mirava a risolvere un problema di risse e liti particolarmente presenti in uno dei reparti. Leoni teneva delle sessioni settimanali con incontri in gruppi di 10 detenuti selezionati fra quelli a cui più sarebbe servito un percorso di lavoro sull’aggressività. «Quando hanno capito che quello non era uno strumento valutativo, ma a loro servizio per migliorare il clima del loro reparto, allora hanno collaborato molto volentieri. Per loro era uno spazio di parola non giudicante di cui avevano molto bisogno».
Alla fine del percorso la situazione era migliorata: «È stata la direttrice del carcere a chiederci di andare avanti con il progetto perché ha visto che il livello di aggressività all’interno del reparto era diminuito molto, quasi del 50%», ha aggiunto Leoni.
Anche a Bollate si verificano infatti episodi critici, come appunto risse o aggressioni a danni del personale o fra detenuti. I dati forniti da Antigone, aggiornati al 2022, segnalano anche atti di autolesionismo, suicidi e tentati suicidi. Uno dei problemi riguarda le condizioni dell’infermeria del carcere: secondo alcune segnalazioni, tra cui una della stessa Antigone, l’infermeria di Bollate non è un luogo adeguato alla cura dei pazienti. In generale le condizioni della medicina penitenziaria in Italia sono molto critiche per diversi aspetti: la scarsità di organico, la mancanza di una formazione specifica dei medici e turni molto impegnativi. All’inizio del 2023, Bollate contava infatti solo 8 infermieri e la carenza di personale è un problema anche di altri carceri milanesi come Opera, San Vittore e il carcere minorile Beccaria.
Al di là di queste criticità ci sono molte ragioni che spiegano come mai Bollate sia considerato un carcere “modello”. A differenza di molte altre carceri, a Bollate il reinserimento dei detenuti nella società è considerato una priorità: il fine della pena deve essere rieducativo, dice l’articolo 27 della Costituzione, ed è quello che prova a fare Bollate. Il fatto che un istituto penitenziario non sia concepito come luogo isolato e con fini punitivi ha un impatto positivo prima di tutto sul tasso di recidiva. Secondo gli ultimi dati raccolti dal CNEL, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, le possibilità che un ex detenuto torni a delinquere una volta uscito si riducono drasticamente, da quasi il 70% al 2%, se ha lavorato. Il lavoro è infatti uno dei trattamenti rieducativi previsti dalla legge sull’Ordinamento penitenziario (articolo 15). L’idea alla base è che solo dando nuove competenze e creando prospettive lavorative future sarà più facile per le persone riprendere a stare in società.
Il numero dei detenuti a Bollate che hanno un impiego è di oltre 700, dunque circa il 50% del totale, mentre la media nazionale è del 32,6% secondo i dati di Antigone aggiornati al 2023. Di questi 700, alcuni lavorano per l’amministrazione penitenziaria, mentre gli altri lavorano in aziende interne o esterne alla struttura. Dentro a Bollate si trova un’area industriale che è sede di diverse cooperative. Ad esempio, c’è un vivaio gestito dalla cooperativa sociale Cascina Bollate in cui detenuti ed esterni lavorano come giardinieri; c’è la sede della cooperativa Alice che si occupa di servizi di sartoria; e c’è anche la cooperativa Bee4, che dà lavoro ai detenuti in un call center, in un’officina di riparazione o in servizi di controllo qualità.
Altro aspetto innovativo di Bollate è la presenza di diversi corsi e laboratori per favorire l’istruzione. Anche lo studio è uno dei trattamenti rieducativi previsti per agevolare il reinserimento dell’individuo in società. Il carcere mette a disposizione diversi percorsi di istruzione che vanno da un’alfabetizzazione di base fino alla formazione universitaria.
Per esempio, l’università di Milano Statale è uno dei due atenei, insieme con l’università degli Studi di Milano – Bicocca, che ha lì un polo penitenziario. La Statale offre corsi di laurea ai detenuti a rette agevolate e una rete di tutor favorisce lo studio a distanza degli studenti che non possono seguire le lezioni universitarie all’esterno. Inoltre, i docenti dell’università tengono moduli didattici facendo lezione proprio in carcere: i moduli possono essere frequentati sia da “studenti ristretti” (i detenuti) sia da studenti esterni. Le classi in genere sono miste, formate da una ventina di studenti, e i corsi si svolgono una volta a settimana per circa dieci settimane. Viceversa, grazie al progetto chiamato Bard Prison Project, i detenuti che possono uscire dal carcere per ragioni di lavoro possono diventare tutor di studenti universitari in difficoltà.
La dottoressa Chiara Dell’Oca, responsabile dell’ufficio Progetto Carcere dell’università di Milano, dice che lavorare a Bollate è un’esperienza molto agevole per diversi aspetti: il clima di fiducia, i rapporti verso l’esterno e le attività culturali. Il carcere però non è esente da problemi. Dell’Oca ha raccontato che rispetto alla quantità di progetti potenzialmente attivabili, gli spazi e la disponibilità sono decisamente limitati. Inoltre ci sono parecchi problemi anche nella sezione femminile: il reparto è più piccolo e marginalizzato di quello maschile e la stessa partecipazione femminile ai corsi che la Statale ha attivato in carcere è stata difficoltosa, soprattutto all’inizio.
Bollate prevede infine anche uno sportello di consulenza giuridica dell’università Bocconi di Milano attraverso cui gli studenti, affiancati da docenti, offrono assistenza legale ai detenuti.
Questo e gli altri articoli della sezione Dentro e intorno al carcere sono un progetto del workshop di giornalismo 2024 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.
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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.