Parlare di diritto alla sessualità per le detenute è ancora più complicato
La possibilità di accogliere partner nelle carceri non è di fatto concessa in Italia, e con le detenute si aggiungono stereotipi e problemi organizzativi
di Marzia Magrone
Il dibattito sul diritto alla sessualità nelle carceri italiane, ovvero il diritto che tutela la libertà d’espressione affettiva e sessuale delle persone detenute, ha sempre direttamente o indirettamente riguardato principalmente i detenuti uomini. La ragione più immediata di questo fenomeno riguarda l’eccezionale minoranza delle donne detenute rispetto agli uomini: le donne rappresentano il 4,2 per cento del totale della popolazione carceraria e gli istituti penitenziari femminili in Italia sono solo tre (a Roma, Trani e Venezia, mentre la struttura di Pozzuoli è stata chiusa a causa dei danni riportati nel terremoto dello scorso 20 maggio). In un contesto in cui i fondi destinati al sistema penitenziario italiano sono scarsi, le risorse per le esigenze delle detenute, compreso il diritto alla sessualità, sono estremamente limitate.
Che si tratti di carceri femminili o maschili, il diritto alla sessualità in carcere è un tema sul quale ancora non sono state trovate soluzioni efficaci, come dimostra il fallimento del recente tentativo di introdurre degli spazi per l’affettività nel carcere Due Palazzi di Padova. L’importanza di questo diritto era già stata riconosciuta dalla Corte costituzionale, che in una sentenza del 2012 stabiliva la facoltà delle persone detenute di continuare ad avere relazioni affettive intime a carattere sessuale con i propri coniugi e partner conviventi. Da allora le istituzioni carcerarie non sono state in grado di mettere in pratica queste indicazioni, continuando invece a dimostrare una certa reticenza ad agire su questioni legate alla sessualità.
A questo contribuisce il fatto che non esiste legislazione specifica sull’argomento, cosa che rende complicato realizzare progetti concreti. L’Ordinamento Penitenziario prevede che il trattamento del condannato e dell’internato sia «svolto […] agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia», riconoscendo l’importanza della socialità e dei rapporti interpersonali a fini rieducativi. Allo stesso tempo, però, è lo stesso Ordinamento a prevedere che qualsiasi contatto tra le persone detenute e i familiari avvenga sotto il controllo a vista del personale penitenziario, escludendo la possibilità di ottenere incontri privati.
Attualmente l’unica reale possibilità di esercitare il diritto alla sessualità per le persone detenute consiste nell’assegnazione dei permessi premio. Si tratta di brevi periodi di tempo durante i quali è concesso alla persona detenuta di allontanarsi dal carcere. Ma la concessione di questi permessi è molto rara dato che, nel 2022, ne ha potuto beneficiare solo un decimo della popolazione carceraria totale. Per di più, questa misura riduce il concetto di intimità a un premio che è necessario meritarsi quando, invece, si tratta di un diritto.
I problemi non sono limitati al diritto alla sessualità. Anche il rispetto del diritto all’affettività non risulta completo, benché incoraggiare i rapporti con i propri cari e permettere alle persone detenute di non perdere del tutto l’abitudine alla socialità sia parte fondamentale per una buona riuscita del fine rieducativo della pena. Attualmente in Italia esistono misure che garantiscono contatti tra detenuti e familiari ma risultano insufficienti, come dimostrato dai dati raccolti da Antigone, associazione italiana per i diritti e le garanzie nel sistema penale. I colloqui di persona durano un’ora, sono consentiti massimo sei volte al mese e avvengono sotto lo stretto controllo visivo del personale di custodia.
L’inadeguatezza del sistema carcerario italiano nella garanzia del diritto alla sessualità è amplificata anche da un forte senso di «pudore» che ancora esiste attorno ai temi della sessualità e dell’intimità, come spiega Elena Sonnini, docente di Sociologia della devianza dell’università di Torino. Questa situazione è resa evidente anche dalla limitata organizzazione di attività promiscue tra detenuti e detenute nelle carceri miste. Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia, parla degli istituti penitenziari lombardi come poco organizzati in questo senso, con poche eccezioni come il carcere di Verziano, a Brescia. Verdolini racconta che nelle carceri lombarde le occasioni destinate ad attività a cui partecipano assieme detenuti e detenute sono state ridotte dopo che alcune detenute sono rimaste incinte: questo è sintomo da parte delle amministrazioni carcerarie di una «paradossale infantilizzazione» delle detenute, ritenute nemmeno in grado di gestire il proprio diritto alla sessualità.
Come accade anche fuori dal carcere, la sessualità delle detenute viene concepita principalmente in relazione alla maternità. Ne è una dimostrazione il carcere femminile di Rebibbia, a Roma, dove a ottobre del 2021 è stato inaugurato il M.A.MA, Modulo per l’Affettività e la Maternità, una sorta di piccolo appartamentino privato utilizzato per gli incontri tra madri e figli. Questo progetto sottolinea esplicitamente il ruolo delle donne come madri, individuando l’ambito domestico come canale di espressione principale dell’intimità delle donne. La struttura, infatti, è costruita per richiamare l’aspetto di una casa in cui le madri detenute possono incontrare i propri figli e trascorrere del tempo con loro.
Strutture simili sono state realizzate in altri paesi europei, dove però ai progetti di genitorialità sono affiancati spazi per garantire ai detenuti e alle detenute e ai propri partner dei momenti di intimità, anche a carattere sessuale. In Francia, per esempio, in alcune carceri esistono strutture chiamate Unitès de Vie Familiale e Parloirs familiaux, in cui i detenuti o le detenute possono ricevere privatamente il compagno, la compagna o l’intera famiglia per periodi che vanno dalle 6 alle 72 ore.
La tradizionale assenza di un concreto interesse riguardo la sessualità nei contesti carcerari da parte delle autorità ha comportato anche una certa trascuratezza nei confronti delle necessità avvertite dalle detenute. Uno dei pochi studi italiani che ha raccolto le voci delle detenute sul tema è stato svolto da Elena Sonnini dell’università di Torino. «Il carcere è un’istituzione portatrice di valori, princìpi e codici estremamente radicati nel passato», e nelle carceri femminili si avverte ancora una forte «matrice salvifica di prevenzione, per cui le donne devono tornare a essere brave madri e mogli piuttosto che brave cittadine», dice Sonnini.
Nel suo studio, intitolato “Sessualità e affettività femminile nello spazio detentivo”, Sonnini ha intervistato numerose detenute della sezione femminile dell’istituto penitenziario di Capanne, a Perugia, e del carcere femminile di Rebibbia, a Roma. Dalle interviste emerge come le detenute, davanti all’assenza di strutture e tutele, abbiano «introiettato l’idea» che il diritto alla sessualità «non sia un bisogno primario», come dice Sonnini. Alla richiesta di commentare quello che di fatto è l’impedimento di qualsiasi rapporto intimo e sessuale con persone esterne, alcune detenute hanno risposto dicendo di non soffrirne particolarmente. «La cosa mi manca, ma mi manca il mio compagno… ognuno fa quello che gli pare, ma io me la tengo finché non esco, non trovo altri modi. Mi limito ad un abbraccio», ha detto F, una delle donne intervistate da Sonnini.
Allo stesso tempo, ci sono detenute estremamente consapevoli di essere vittime della privazione di un diritto e che attribuiscono al loro piacere sessuale una certa importanza. Sonnini insiste sulla necessità di «dare voce ai detenuti e alle detenute» per restituire la complessità che caratterizza il tema.
Questo e gli altri articoli della sezione Dentro e intorno al carcere sono un progetto del workshop di giornalismo 2024 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.