Chiudere la prigione di Guantanamo è molto difficile
Due presidenti degli Stati Uniti, Barack Obama e Joe Biden, hanno detto di volerlo fare, ma per ragioni legali e politiche trenta detenuti sono ancora lì
di Marco Arvati
Benché lo avesse definito «il nostro obiettivo e la nostra intenzione» a febbraio 2021, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden non ha ancora chiuso il carcere di massima sicurezza di Guantanamo, situato nell’omonima baia sull’isola di Cuba: lì è presente una base navale degli Stati Uniti, al cui interno si trova anche la prigione. Entrambe sono considerate un’occupazione illegale di territorio dal governo comunista al potere nel paese dal 1959. Tra i Democratici è in corso da anni un dibattito sulla legittimità del carcere, che è aperto da gennaio 2002 e ha ospitato un totale di 780 detenuti nell’arco della sua attività. Chiuderlo era stato un obiettivo anche di Barack Obama, di cui Biden era stato vicepresidente: già ai tempi però la promessa non fu mantenuta. Dopo varie iniziative volte a ridurre la popolazione del carcere, oggi i detenuti rimasti sono soltanto 30. La chiusura di Guantanamo, però, è ancora lontana, per ragioni legali e politiche.
La prigione ospita persone sospettate di appartenere all’organizzazione terroristica al Qaida, responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Il carcere è gestito in maniera diretta dal governo statunitense, che decide chi detenervi in modo autonomo, ma non rispetta nessuna delle garanzie concesse ai detenuti dalla legge del paese, trovandosi formalmente sul territorio di uno Stato estero. I detenuti non vengono considerati prigionieri di guerra dal governo americano, che quindi non garantisce loro nemmeno i diritti sanciti dalla convenzione di Ginevra. A molti dei prigionieri non è mai stato detto perché sono stati incarcerati, e nemmeno sono stati notificati loro dei capi d’accusa formali.
La maggior parte dei prigionieri fu rinchiusa a Guantanamo tra il 2002 e il 2003, a seguito delle guerre iniziate dagli Stati Uniti contro Afghanistan e Iraq. Fin da subito il carcere è stato definito dall’allora presidente George W. Bush (che lo aprì) una soluzione temporanea, anche se non venne mai definito un piano o una data di chiusura. Tutti i 780 detenuti presenti o passati a Guantanamo sono entrati durante la sua amministrazione, che ne ha successivamente trasferiti altrove 540. Barack Obama, il suo successore, ne ha trasferiti circa 197, mentre Donald Trump ha trasferito solamente un detenuto. Joe Biden ha ricominciato a trasferire prigionieri, ma con lentezza, anche a causa di difficoltà politiche.
Il carcere è stato il luogo, fin dalla sua apertura, di numerose accuse di trattamenti brutali, torture e violazioni dei diritti umani. Gli Stati Uniti hanno acconsentito a un’ispezione indipendente del carcere soltanto nel 2023, durante l’amministrazione Biden, quando un’ispettrice delle Nazioni Unite, la professoressa irlandese di legge Fionnuala Ní Aoláin, è potuta entrare per la prima volta nella prigione. Nel report che ne è conseguito ha scritto di trattamenti crudeli, tra cui un servizio sanitario scadente per detenuti sempre più anziani e l’uso della forza per far uscire i carcerati dalle celle. Durante alcuni colloqui i detenuti le hanno detto di soffrire di traumi cronici, insicurezza e ansia dovuta ad abusi psicologici, e le hanno mostrato le ferite causate dagli abusi.
I detenuti di Guantanamo possono essere divisi grossomodo in due categorie. Quelli che sono rinchiusi nella prigione senza accuse formali, molti dei quali erano stati catturati durante le guerre in Iraq e Afghanistan (attualmente i detenuti di questo tipo sono 19); gli altri 11 hanno imputazioni a loro carico o sono già stati condannati per reati legati al terrorismo.
Per cercare di ridurre la popolazione del carcere di Guantanamo l’amministrazione Biden, come quelle che l’hanno preceduta, ha cercato di trasferire in paesi terzi i detenuti senza accuse formali. Per questo ha fatto accordi con paesi disposti ad accoglierli. Gli Stati Uniti non possono infatti trasferire i detenuti di Guantanamo all’interno del territorio nazionale per via di un emendamento al bilancio della difesa del 2015, votato dalle camere a larga maggioranza. In questo modo, da quando è entrata in carica, l’amministrazione Biden ha scarcerato 10 detenuti, facendo accordi con Arabia Saudita, Pakistan e Belize, piccolo Stato dell’America centrale.
Il governo era pronto a scarcerare altri 11 detenuti, e questo avrebbe portato per la prima volta Guantanamo ad avere meno di 20 reclusi: erano in corso infatti trattative avanzate con l’Oman, Stato della penisola arabica, per il rilascio di alcuni detenuti yemeniti. Secondo la ricostruzione fatta da NBC News, il trasferimento sarebbe dovuto avvenire nel mese di ottobre del 2023, ma sarebbe stato bloccato per motivi politici: dopo l’attentato del gruppo radicale Hamas sul territorio israeliano il 7 ottobre, e la guerra che ne è conseguita, l’amministrazione Biden non trovava politicamente opportuno liberare in un paese mediorientale persone che erano state anni in un carcere di massima sicurezza perché sospettate di terrorismo. Da quel momento non ci sono stati nuovi tentativi di trasferimento.
Degli 11 detenuti per i quali non è previsto il trasferimento, quattro sono stati condannati da tribunali militari. Gli altri sette sono stati incriminati per reati legati al terrorismo, ma i loro processi non sono ancora iniziati. Il più importante e seguito di questi processi, che coinvolge quattro detenuti di Guantanamo, riguarda la complicità con il gruppo di terroristi che mise in atto l’attentato dell’11 settembre 2001.
I quattro detenuti sono stati incriminati nel 2012, ma il processo non è ancora stato istruito. Questo perché, secondo Stefano Luconi, professore di Storia degli Stati Uniti all’università di Padova, «l’accusa ha paura che molte prove non vengano prese in considerazione perché ottenute con la tortura. C’è un precedente che scoraggia a istruire il processo, quello di Ahmed Khalfan Gailani, uno dei responsabili degli attentati contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998. È stato condannato all’ergastolo, ma ritenuto colpevole di solo uno dei 285 capi d’imputazione a lui attribuiti, per via del fatto che le prove erano state ottenute attraverso la tortura».
Lo scorso anno le parti in causa nel processo definito “11 Settembre” stavano discutendo un patteggiamento: l’accusa avrebbe rinunciato a cercare di ottenere la pena di morte per gli imputati, accontentandosi dell’ergastolo. In cambio i detenuti si sarebbero dichiarati colpevoli, ma avrebbero ottenuto condizioni migliori di detenzione, tra cui un programma civile per curare disturbi del sonno, disturbi gastrointestinali, cerebrali, e qualsiasi altro problema sanitario derivante dai brutali metodi di interrogatorio che hanno subìto nelle prigioni mediorientali gestite dall’esercito americano tra 2003 e 2006, prima di essere trasferiti a Guantanamo.
Appena saputa la notizia, tuttavia, il Partito Repubblicano ha contestato questa ipotesi di accordo. Ted Cruz, senatore Repubblicano del Texas, ha mandato una lettera formale al segretario alla Difesa Lloyd Austin ad agosto 2023 per lamentarsi del possibile patteggiamento, che non avrebbe rispettato la volontà delle vittime degli attentati. A settembre Biden ha deciso di dichiararsi contrario al patteggiamento, di fatto facendolo saltare, anche se gli avvocati di difesa e accusa hanno dichiarato che le parti si stanno ancora parlando. Senza patteggiamento i detenuti dovrebbero andare a processo, che tuttavia continua a non essere istruito.
Se alle elezioni presidenziali di novembre dovesse poi prevalere Donald Trump, il candidato del Partito repubblicano, la situazione rimarrà con ogni probabilità bloccata per i prossimi quattro anni.
«Dalla presidenza Obama in avanti», dice Stefano Luconi, «i Repubblicani hanno politicizzato la chiusura di Guantanamo. La loro opposizione serviva a screditare le presidenze democratiche, ritenute deboli nei confronti dei terroristi». In controtendenza rispetto agli otto anni precedenti, in cui la popolazione carceraria di Guantanamo si era notevolmente ridotta, durante la campagna elettorale del 2016 Trump ha detto che il carcere doveva tornare ad ospitare «persone cattive», aprendo alla possibilità di aumentare, anziché diminuire, il numero dei prigionieri. In realtà, durante i suoi quattro anni da presidente, nessun nuovo presunto criminale è stato mandato nel carcere di massima sicurezza di Guantanamo; in quattro anni, però, ha trasferito solamente un detenuto.
Questo e gli altri articoli della sezione Dentro e intorno al carcere sono un progetto del workshop di giornalismo 2024 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.