Le “celle aperte” non hanno risolto i problemi delle carceri italiane
Da dieci anni si cerca di dare più libertà di movimento ai detenuti per limitare il problema del sovraffollamento, ma questa soluzione non ha funzionato granchè e negli ultimi anni si è tornati indietro
di Margherita Gaito
Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per aver recluso alcuni detenuti in condizioni di sovraffollamento, incompatibili con il rispetto della dignità umana. Quella sentenza, chiamata Torreggiani dal nome di uno dei detenuti che presentò il ricorso, ha avviato una serie di riforme che hanno modificato il modo in cui i detenuti passano la loro vita dentro al carcere.
Dopo la sentenza Torreggiani è stato introdotto il regime a celle aperte, che permette alle persone recluse di passare più ore della giornata fuori dalla propria cella. È una modalità di detenzione che può portare a un miglioramento della qualità della vita dei detenuti ma che presenta diverse complessità, soprattutto nel contesto delle carceri italiane. Dopo un inizio incoraggiante, i casi di violenza, la mancanza di agenti e gli spazi insufficienti hanno limitato molto la diffusione di questa misura: negli ultimi anni in molte carceri dove era stato introdotto il regime a celle aperte si è tornati alle regole precedenti che limitano la libertà delle persone detenute.
Con la sentenza Torreggiani l’Italia è stata condannata per non aver rispettato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani nel trattamento di 7 persone detenute nelle carceri di Piacenza e Busto Arsizio. La Convenzione impone che ogni detenuto sia custodito in condizioni rispettose della dignità umana: la sentenza era stata motivata dal fatto che i detenuti avevano vissuto in celle con meno di 3 metri quadri per persona, mentre già nel 2006 il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa aveva indicato l’obiettivo di garantire 7 metri quadri per persona. Alla fine del 2013 nelle carceri italiane c’erano 62.536 persone su 47.709 posti disponibili, un’evidente situazione di sovraffollamento che l’Italia è stata costretta ad affrontare proprio per via della sentenza.
Negli anni successivi il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP), che fa parte del ministero della Giustizia, ha emanato alcune circolari che hanno riformato il funzionamento degli istituti penitenziari italiani per risolvere il sovraffollamento e garantire ai detenuti delle condizioni di vita dignitose. Le circolari del DAP hanno introdotto il cosiddetto regime “a celle aperte”, opposto al tradizionale regime “a celle chiuse”, con un tentativo di affrontare almeno dal punto di vista formale la questione del sovraffollamento. Nel caso dei detenuti nelle sezioni a “celle aperte” il conteggio dei metri quadri per persona infatti tiene conto non solo della cella ma anche di tutti i locali in cui i detenuti possono muoversi.
Il regime a celle aperte è stato introdotto nelle sezioni a Media Sicurezza delle carceri. La Media Sicurezza è una tra le modalità di detenzione definita dal DAP a seconda della gravità del reato commesso dai detenuti e anche a seconda del loro comportamento e rispetto delle regole. Nelle sezioni a Media Sicurezza sono ospitati i detenuti comuni, quindi la maggior parte della popolazione carceraria; secondo i dati di agosto 2023 le persone detenute nella Media Sicurezza erano il 71 per cento del totale (41.597 su 58.491). È proprio nella Media Sicurezza che si verificano le situazioni di maggior affollamento, e di conseguenza anche di maggior disagio.
Il regime a celle aperte è stato introdotto dalla circolare del 23 ottobre 2015 e all’inizio permetteva ai detenuti di passare tra le 8 e le 14 ore al giorno fuori dalla propria cella, muovendosi liberamente nella sezione e con la possibilità di partecipare ad attività sociali, scolastiche o lavorative anche fuori dalla sezione o fuori dal carcere. La circolare, inoltre, incoraggiava ad adottare nelle sezioni a celle aperte la sorveglianza “dinamica”, cioè garantita non dalla presenza fissa del personale di polizia ma dalla videosorveglianza e dalla presenza di operatori e volontari. Invece i detenuti ritenuti non idonei a queste maggiori libertà erano custoditi seguendo il regime a celle chiuse. In questo caso la possibilità di stare fuori dalla propria cella era limitata a 8 ore al giorno e gli spostamenti nella sezione non erano liberi, ma vigilati, e anche la possibilità di partecipare ad attività educative o lavorative erano ridotte.
L’applicazione della circolare del DAP aveva reso evidenti alcuni limiti degli istituti penitenziari italiani: un rapporto del 2017 dell’associazione Antigone – la principale organizzazione italiana che si occupa di diritti dei detenuti – evidenziava che spesso l’apertura delle celle si fosse limitata a permettere ai detenuti di passare del tempo nei corridoi o in celle di altre persone detenute, a causa della mancanza di attività offerte dal carcere. Questa situazione era considerata comunque preferibile alle celle chiuse, ma insoddisfacente rispetto ai propositi della circolare.
Secondo un’altra considerazione contenuta nel rapporto di Antigone l’adozione della sorveglianza dinamica favoriva l’autonomia e la rieducazione dei detenuti, portando anche a una diminuzione degli attriti con gli agenti del personale penitenziario. Il rapporto di Antigone riportava anche delle criticità espresse da parte di alcuni esponenti della polizia penitenziaria, secondo cui le maggiori libertà di spostamento per i detenuti potevano comportare un problema di sicurezza: aprire le celle e consentire maggiori libertà di movimento implicava un lavoro aggiuntivo che non sempre il personale era in grado di sostenere.
La gestione delle sezioni di Media Sicurezza è cambiata nel 2020 con l’arrivo della pandemia da coronavirus, che ha imposto un ritorno alla chiusura delle celle per motivi di natura sanitaria. Questa chiusura però è stata mantenuta anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria: il 18 luglio 2022 è stata diffusa una nuova circolare del DAP che, dichiarando l’intento di «superare il dualismo tra custodia aperta e custodia chiusa», ha sancito un diffuso ritorno al regime di celle chiuse.
La circolare definiva diverse tipologie di sezioni: le stanze per l’accoglienza – per permanenze molto brevi –, le sezioni ordinarie, le sezioni a trattamento intensificato – per detenuti idonei a una maggiore autonomia –, le sezioni per detenuti dai quali si temono gesti violenti e le sezioni di isolamento. Le sezioni a trattamento intensificato erano equivalenti a sezioni a celle aperte, mentre tutte le altre erano equivalenti a sezioni a celle chiuse. Oltre a ciò, la circolare vincolava la possibilità di uscire dalle celle alla partecipazione ad attività organizzate.
La circolare del 2022 è stata applicata in maniera sperimentale solamente in quattro Provveditorati (Campania, Lombardia, Triveneto e Sicilia) nel periodo da luglio a dicembre 2022. I risultati di questa sperimentazione sono stati pubblicati e commentati a fine settembre 2023 dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Dallo studio del Garante emerge come l’ultima circolare del DAP abbia portato a un ritorno generalizzato al regime a celle chiuse, infatti i dati mostrano una diminuzione del numero di persone detenute in celle aperte, e allo stesso tempo un aumento delle persone detenute in celle chiuse. Anche le sezioni che usano l’approccio di vigilanza “dinamica” sono diminuite. Un altro problema evidenziato dallo studio del Garante è che le attività ricreative, sociali, educative e lavorative sono distribuite in modo disomogeneo, con un’offerta che in molte carceri è considerata scarsa e insufficiente.
L’associazione Antigone ha recentemente pubblicato il suo rapporto del 2024, in cui si evidenzia tra le altre cose la differenza delle condizioni di detenzione nei diversi istituti italiani: secondo il rapporto, l’ultima circolare del DAP ha determinato un ritorno alle celle chiuse in tutti quegli istituti che offrono poche o nessuna attività, mentre solo in alcuni esempi virtuosi i detenuti hanno accesso a un trattamento che permette più libertà. I dati aggiornati a giugno 2024 mostrano una popolazione carceraria di 61.480 persone a fronte di 51.234 posti. Il problema del sovraffollamento è lontano dall’essere risolto, e l’apertura delle celle si è dimostrata non una soluzione, ma anzi ha reso evidenti altri problemi delle carceri italiane.
Questo e gli altri articoli della sezione Dentro e intorno al carcere sono un progetto del workshop di giornalismo 2024 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.