Il tempo dell’attesa
«E allora ci siamo messi, io e Alessandro, ad aspettare. I primi giorni erano giorni di panico, ma una volta passato il dolore, ho pensato che non valeva la pena infestare la mente e tanto valeva andare al lavoro, portare Bianca a scuola, vedere gli amici, bere un bicchiere, guardare i film, leggere i libri, passeggiare lungo il fiume. Poi è arrivato il giorno finalmente»
Sono andata a fare un’ecografia al seno perché è un po’ di tempo, quanto tempo? Non lo so quantificare, ma è un po’ di tempo che ho un dolore di tanto in tanto, ma quel di tanto in tanto se prima era dimenticabile, con il passare dei giorni è diventato sempre più presente.
Quando ho male mi preoccupo immediatamente di avere una malattia incurabile, ma con la stessa velocità mi scordo di avere avuto male: una volta che il dolore è passato, lo rimuovo sino a quando non torna. Così sono andata avanti e indietro in questo tempo del dolore, finché ho deciso di farmi fare una visita dalla mia medica di base. Mi sono auto palpata molte volte e non ho mai sentito niente, e neanche lei ha sentito niente. E allora mi ha detto «da quant’è che lo sente sto dolore?» e io ho capito che mi voleva dire che sono in un periodo di stress e poteva essere psicosomatico, ma io già prima lo sentivo sto dolore come di un ago che ti punge, anche se non so dire quando era il prima, perché il tempo del dolore è difficile da calcolare.
L’altra notte ho fatto un sogno strano che però non mi ricordo, ma forse c’entrava anche con questo e con mia madre in casa di riposo e con le vecchie ognuna sulla sua sedia in cerchio a guardare il vuoto, per tanto tempo, per giornate intere, incalcolabile, e il sogno aveva un doppio tempo sovrapposto: da un lato c’era il tempo dell’attesa, il tempo soggettivo di Bergson, dilatatissimo, e dall’altro il tempo che continuava a essere scandito in giorno e notte che nel sogno assomigliavano più a una lampadina accesa e spenta come quando ci gioca un bambino, senza nessuna sfumatura. Comunque la dottoressa non ha sentito niente e io ero già più tranquilla, ma mi ha detto «facciamo comunque un’ecografia», e io ho detto «va bene», ed ero serena che non ci fosse nulla, che avrei fatto un giro a vuoto e anche un po’ sprecato le risorse dello Stato.
Ho pensato che forse sono tutti i miei pensieri che mi fanno sentire il dolore, e sono andata a fare quest’ecografia all’ospedale Sant’Anna e, niente, mi visitano e mi dicono che ho dolore perché ho il seno fibroso e un sacco di donne ce l’hanno a quanto pare, e fa male. Però ho anche un piccolo nodulo sotto il capezzolo. E allora la radiologa mi dice «prenotiamo subito una biopsia».
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E io tutto a un tratto che ero tranquilla e pensavo che non fosse niente, che fossero solo i miei pensieri abituati a creare mondi ad aver creato malattie, tumori, morte, invece no, questa volta, devo pensare che siano reali, che i miei pensieri esistano. E allora prenoto la biopsia ma ancora non connetto bene perché è tutto confuso in testa, ma confuso che non c’è un pensiero che inizia e finisce, non c’è più niente, solo un groviglio di parole che si mescolano senza riuscire a mettere insieme una frase di senso compiuto. E la biopsia me la fanno subito, di lì a cinque giorni.
Così dopo cinque giorni vado a fare la biopsia, e la dottoressa e le infermiere, che sono tutte estremamente gentili, mi inseriscono un lungo ago nel seno e mi fanno quattro prelievi. Mi dicono che farà male e un po’ fa male, ma non troppo. Che in ogni caso questo nodulo lo dovrò togliere. Che ogni prelievo lo analizzerà un medico diverso, ci vogliono tre settimane per avere l’esito.
E quindi poi mi sono messa, o meglio ci siamo messi, io e Alessandro ad aspettare. Abbiamo riempito il tempo dell’attesa. I primi giorni erano giorni di panico, anche perché dovevo stare a riposo per via del prelievo. E poi una volta passato il dolore, ho pensato che non valeva la pena infestare la mente e tanto valeva fare le cose di sempre: andare al lavoro, portare Bianca a scuola, vedere gli amici, bere un bicchiere, guardare i film, leggere i libri, passeggiare lungo il fiume. Anche se quel pensiero poi, quello del tumore, quello della paura più grande, quello che quando ho fatto disegnare il bingo delle paure come What brings you joy? di Yao Xiao ai miei studenti dello IED, c’era in tutte le tavole, una serie di cancri incorniciati in quadratini da gioco colorati, quel pensiero ti s’infila di nascosto, torna a esistere quando bevi il caffè o cammini per strada. Poi si cancella e ritorna, quindi se da un lato ti vedi morta, dall’altro pensi pure che magari non è niente e che ci riderai su di quell’ansia.
Poi è arrivato il giorno finalmente, e io e Alessandro, anche se non ci siamo detti niente, l’abbiamo capito subito che non era andata benissimo: il referto non era tra gli altri e aveva un post it giallo attaccato. E quindi siamo andati a ritirarlo con tutto che si stringeva dentro e gli occhi erano già pieni d’acqua e la radiologa ci ha detto che ho un tumore maligno e tu con quelle parole che rimbombano nelle orecchie sei subito sott’acqua e trattieni il respiro e cominci a sentire tutto ovattato proprio come nei film, non sfiata più niente.
«Però è curabile» ci dice la radiologa, e poi anche l’oncologa e usciamo già più sollevati dall’ospedale e ci scriviamo un elenco di domande da fare perché poi quando sei lì davanti ai medici non ti viene mai niente in mente. E poi cominci a dirlo agli amici, ai parenti. E quando lo dici si fa sempre il silenzio e l’imbarazzo dell’altro che non sa cosa dire e che si sente in colpa perché ti ha appena parlato di tutte le piccole cose per le quali è infelice o arrabbiato. Perché è la paura più grande che diventa vera e nessuno vuole averla vicina, perché come una luce troppo forte ha il potere di mettere tutto in ombra. Anche se ormai lo sappiamo che tumore, cancro sono nomi contenitore perché prendono diverse forme e hanno diverse intensità. Ma fanno comunque sempre paura. Come dice Susan Sontag non c’è poesia nel cancro, nessuna epica se non quella della sfida, del combattere, del farsi forza, come se l’avessi deciso te di averlo il tumore.
Senza sapere ancora nulla un’amica mi ha regalato il libro Stelle solitarie e non sa che regalo mi ha fatto. Quando succede qualcosa di tragico, tendo a informarmi, o meglio a evadere e insieme trovare conforto nelle parole degli altri che sono passati attraverso lo stesso dolore. Questa volta è un po’ diverso, in questa malattia ci entro in punta di piedi, non mi ci tuffo. Quasi a volerla evitare ancora per un po’, a danzarle intorno prima che sia lei a tirarmi dentro in una piroetta infinita.
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Intanto prendo confidenza con l’ospedale, che in questo 2024 ho frequentato molto, prima in neurologia, per via dell’ictus che ha preso mia madre, e ora in oncologia, o meglio nella breast unit del Sant’Anna. L’ospedale è un mondo che viaggia in parallelo a quello in cui viviamo. Non fa parte delle nostre vite a meno che non ci lavoriamo, lo conosciamo solo quando siamo malati, non ci pensiamo mai il resto del tempo.
Ho visto medici, infermieri, oss affaccendarsi in turni da dodici ore, tra ululati di un vecchio intubato che ricordava soltanto le preghiere, tra urla a chiamare gente appartenuta a vite passate Aldo, Achille, Maria per ore; ho visto gli oss alzare mia madre per portarla in bagno, quando avrebbero potuto benissimo non farlo, e ridarle un minimo di dignità quando ne aveva bisogno. Ho visto l’oncologa rispondere a mia figlia che un carcinoma è giallo e assicurarla che sarei tornata a casa con un cerotto. Ho visto gente urlare e piangere, ma anche ridere, ridere tanto delle umane disgrazie. Che sollievo è sempre poterne anche ridere.
Ho visto personale preparato, sempre più preparato dal punto di vista umano e psicologico, prendersi cura dei pazienti. Mi chiedo in questi giorni perché non ci prendiamo più cura allo stesso modo della sanità pubblica, perché so cosa vuol dire non dover sborsare un euro per essere curati. Che fortuna è questa perché siamo incapaci di esserne custodi?
Mi chiedo com’è che non ci pensiamo mai, da sani, a quel mondo dei malati. Forse è che quando usciamo dall’ospedale vogliamo solo che la vita ci prenda e ci trascini altrove e abbiamo bisogno di bello, perciò vogliamo che il portone alle spalle si chiuda nella speranza di non vedere più tanta sofferenza. Forse è perché le cose che fanno male preferiamo restino chiuse, come gli oggetti che scordiamo nei cassetti e non ritroviamo più per lungo tempo, salvo poi rivederli spuntare per caso, inaspettati. Facciamo male?
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