Frida Kahlo era tutta un’altra cosa
Dalla sua morte, avvenuta 70 anni fa, l'artista messicana comunista e sovversiva è stata trasformata in un brand ripulito e innocuo: il motivo è com'è gestita la sua immagine
Il faccione del rivoluzionario argentino Ernesto “Che” Guevara in bianco e nero, che guarda in lontananza con sguardo severo e determinato, un cappello con una stella calcato sulla fronte. Quello sorridente del musicista reggae Bob Marley, con i colori della bandiera giamaicana sullo sfondo. L’attrice Audrey Hepburn con i capelli raccolti in un’acconciatura elegante, lunghi guanti neri, uno sguardo accattivante. I volti di alcuni artisti e personaggi storici sono diventati, più o meno per caso, delle icone che comunicano in un colpo solo una serie di valori o priorità: ribellione, fascino femminile, spensieratezza o un certo amore per la marijuana. E poi sono stati massicciamente commercializzati, riprodotti milioni di volte su poster, adesivi, tazze, t-shirt, spillette, bandiere, murales.
Tra le figure del Novecento che più hanno subito questo processo di commercializzazione c’è Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón, meglio nota come Frida Kahlo. Nata nel 1907 a Città del Messico e morta il 13 luglio 1954, settant’anni fa, fu un’artista d’avanguardia che contribuì profondamente alla valorizzazione della cultura indigena del Messico precolombiano e oggi è considerata la più famosa artista della storia dell’America Latina. Negli ultimi quarant’anni, però, la sua rilevanza come artista e intellettuale dalle forti posizioni politiche – soprattutto comuniste e anticolonialiste – è stata sorpassata dalla sua notorietà come icona pop.
Subito riconoscibile grazie alle folte sopracciglia, il rossetto rosso, le corone di fiori sgargianti e le ampie gonne con cui è stata più volte ritratta, l’immagine di Kahlo oggi è associata a una serie nebulosa di valori e messaggi. Indossare una maglietta con Frida Kahlo sopra vuol dire quasi sempre mostrarsi vagamente femministe e anticonformiste, disinteressate al giudizio altrui, ma anche creative e amanti dell’arte. La narrazione a lei più spesso associata è, insomma, quella della donna forte e indipendente, passionale e non occidentale, capace di farsi strada nel mondo dell’arte nonostante il maschilismo del periodo storico in cui visse e nonostante l’incidente che la costrinse a sottoporsi nel corso degli anni a decine di interventi.
Kahlo si definiva una «figlia della rivoluzione» e disse a lungo in giro di essere nata nel 1910, l’anno d’inizio della rivoluzione messicana, anche se in realtà nacque il 6 luglio 1907 a Coyoacán, un sobborgo di Città del Messico. Ebbe una vita molto densa e movimentata, raccontata con entusiasmo per la prima volta da Hayden Herrera nella sua biografia Frida, che uscì nel 1983 e fu adattata in un film con protagonista Salma Hayek nel 2002. Il libro, insieme a un’importante mostra inaugurata alla Whitechapel Gallery di Londra nel 1982, contribuì moltissimo ad attirare attenzione postuma su Kahlo in un momento in cui si cominciavano a rivalutare molto le artiste donne, in precedenza poco considerate.
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La madre era una cittadina messicana molto religiosa, il padre un ebreo tedesco che soffriva di epilessia: Kahlo strinse un rapporto particolarmente stretto con lui dopo che, a 6 anni, contrasse la poliomelite, che la isolò dai coetanei e fece sì che una delle sue gambe crescesse più corta ed esile dell’altra. L’incidente più rilevante della sua vita, però, avvenne nel 1925, quando l’autobus su cui stava viaggiando si scontrò con un tram: vari passeggeri morirono e lei riportò fratture alla colonna vertebrale, alla gamba destra, al bacino e alla clavicola oltre a gravi lesioni interne.
Cominciò a dipingere per noia mentre si trovava ricoverata in ospedale, dopo aver lasciato gli studi di medicina che stava facendo. I suoi quadri fin da subito raffigurarono lei stessa, oppure nature morte e persone care. Dopo un primo periodo piuttosto realista adottò uno stile più originale, influenzato dal fatto che in quegli anni il Messico era al centro di numerose avanguardie artistiche, dal pauperismo rivoluzionario allo stridentismo, dal surrealismo fino a quello che venne in seguito definito realismo magico.
Kahlo usava l’arte per interpretare e raccontare a modo proprio alcuni aspetti della sua vita privata, ma anche per comunicare e dare concretezza alle proprie convinzioni e posizioni politiche: si unì al partito comunista messicano da adolescente, e ne rimase sostenitrice fino a quando non ne fu espulsa negli anni Trenta per via della sua opposizione alla linea stalinista del partito. Più tardi sarebbe stata amante del rivoluzionario russo Lev Trockij, che viveva in esilio in Messico. Uno dei suoi ultimi quadri prima di morire, per esempio, doveva chiamarsi Pace sulla Terra affinché la scienza marxista possa salvare i malati e gli oppressi dal capitalismo criminale yankee e include un faccione di Karl Marx in un angolo.
Kahlo sosteneva soprattutto la convinzione che l’élite messicana, quasi esclusivamente di origini europee, avesse a lungo ignorato e sminuito la cultura indigena del paese, fortemente legata alle tradizioni di popolazioni che avevano una lunga storia antecedente all’arrivo dei colonizzatori europei nelle Americhe. Per questo Kahlo scelse spesso di dare visibilità e dignità al passato indigeno del suo paese e alla cultura popolare messicana, riprendendone i colori, le storie, e il folklore. Oltre al rapporto con la propria identità culturale, altre tematiche ricorrenti del suo lavoro furono la soggettività femminile, lo spettro del desiderio e della sessualità (essendo lei stessa attratta sia da uomini che da donne), il potere, l’impotenza e le altre dualità dell’esperienza umana.
Per gran parte della sua carriera si parlò di lei soprattutto come moglie del pittore Diego Rivera, che aveva vent’anni più di lei ed era considerato l’artista messicano più importante della sua generazione. I due si sposarono nel 1929: lei aveva 22 anni, lui ne aveva 42, aveva già avuto quattro mogli e tre figli, e aveva una fama internazionale. Fu una relazione molto travagliata, segnata dalla difficoltà ad avere figli per via dell’incidente di lei, dai frequenti adulteri (prima di lui, poi di entrambi) e dalla grande disuguaglianza economica e di potere tra i due. Divorziarono la prima volta dopo che lui la tradì con la sorella di lei, Cristina, per risposarsi l’anno dopo.
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Cominciò a essere riconosciuta per il proprio lavoro, a prescindere dal marito, a partire dal 1938, e nell’arco di qualche anno divenne amica e confidente di moltissimi artisti e intellettuali internazionali, dall’artista statunitense Georgia O’Keeffe al saggista André Breton, che la definì una “surrealista”. Venne ritratta da alcuni dei fotografi più importanti della sua generazione – tra cui Tina Modotti e Man Ray – ed ebbe una lunga relazione extramatrimoniale con uno di loro: Nickolas Muray, che scattò tra le altre cose una delle più famose immagini di Kahlo, di quelle che oggi vengono riprodotte moltissimo. Morì a 47 anni il 13 luglio del 1954.
A distanza di settant’anni, la sua faccia e il suo stile nel vestiario sono ovunque. La si trova, spesso reimmaginata, decontestualizzata e “sbiancata”, su quadri e t-shirt di scarsa qualità in ogni mercatino dedicato a turisti giovani e “alternativi”, da Londra a Berlino. In tantissimi paesi (inclusa l’Italia) si moltiplicano le mostre “immersive” che usano decine di proiettori per mostrare sulle pareti (ma anche su pavimenti e soffitti) delle animazioni digitali raffiguranti le sue opere e le foto della sua vita, pensate per essere pubblicate sui social.
Ci sono filtri per assomigliare a lei su Snapchat, Instagram, TikTok. Una mostra di questo tipo, permanente, c’è anche a Cancun: una volta usciti si può cenare in un ristorante a tema Frida Kahlo dove il volto dell’artista è proiettato su ogni piatto. Nel 2017, per festeggiare il suo centodecimo compleanno, il museo d’arte di Dallas cercò di organizzare la sfilata di sosia di Kahlo più grande al mondo: se ne presentarono 1.100. E addirittura l’ex prima ministra conservatrice britannica Theresa May è apparsa una volta in pubblico con un grosso braccialetto con sopra un’opera di Kahlo al polso.
Già nel 1991 la storica dell’arte inglese Oriana Baddeley scrisse un saggio in cui sosteneva che la grande attenzione data dal pubblico alla vita di Kahlo, pur straordinaria, stava oscurando la sua complessità come artista. Baddley diceva che anche l’impressionista Vincent van Gogh (1853-1890), tornato altrettanto di moda in quegli anni, era ricordato per «lo status iconico della sua vita tragica», ma che rimaneva definito soprattutto dal suo stile artistico: «le pennellate spesse e impastate, i gialli vibranti, l’urgenza della sua spinta creativa».
Kahlo, invece, era associata «all’appassionata ossessione per il marito Diego Rivera, all’aspetto appariscente e soprattutto al dolore fisico ed emotivo». In un libro scritto nel 2005, Baddeley tornò sul tema scrivendo che «la Frida del XXI secolo è allo stesso tempo una star – una proprietà commerciale con tanto di fan club e merchandising – e l’incarnazione delle speranze e delle aspirazioni di un gruppo quasi religioso di seguaci. Questa Frida selvaggia e ibrida, un misto di tragicità bohémien, Vergine di Guadalupe, eroina rivoluzionaria e Salma Hayek, ha avuto una tale presa sull’immaginario comune che tende a oscurare Kahlo come personaggio storico».
Kahlo morì senza lasciare eredi e senza dare disposizioni su come voleva che la sua immagine fosse trattata e riprodotta dopo la morte. Anche per questo oggi la sua eredità è molto contesa. Moltissime delle sue opere nonché la gestione della Casa Azul (dove la pittrice visse gran parte della sua vita) appartengono al Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, che fa riferimento al governo messicano e prende tutte le decisioni relative ai prestiti dei quadri che Kahlo decise di lasciare in eredità al popolo messicano al momento della sua morte. Per poter riprodurre legalmente le sue opere è necessario chiedere il permesso sia all’Istituto Nazionale di Belle Arti del Messico, sia alla Banca del Messico: un percorso lungo e farraginoso.
È invece molto più facile riprodurre la firma di Kahlo e una versione verosimile del suo volto. Il marchio Frida Kahlo è gestito dalla Frida Kahlo Corporation (FKC), fondata negli Stati Uniti nel 2005 dalla nipote dell’artista, Isolda P. Kahlo. È a questa società che si rivolgono brand come Zara, Converse o Mattel quando vogliono utilizzare l’immagine di Kahlo all’interno delle proprie collezioni.
L’azienda dice che il suo obiettivo è estendere quanto più in là possibile «l’impatto positivo [di Kahlo] come fonte d’ispirazione, fiducia in sé stessi, passione e amore» e «onorare una donna forte che trascende e supera le barriere culturali, temporali e sociali grazie alla sua personalità unica e iconica». Nel tempo hanno permesso la produzione di smalti, rossetti, carte di credito, bottiglie di superalcolici, ristoranti e saponi, oltre a tantissimi poster, magliette, felpe, mascherine sanitarie con la faccia di Kahlo.
Beatriz Alvarado, una delle persone che oggi gestiscono la FKC, dice che a loro avviso la stessa Kahlo voleva attirare attenzione su di sé, dati i moltissimi autoritratti a cui lavorò in vita. «Stiamo semplicemente facendo quello che ha fatto lei. Le persone si identificano davvero con il suo atteggiamento e le sue esperienze come essere umano. Ha attraversato un periodo davvero difficile. Si esprimeva come nessun’altra donna faceva all’epoca», spiegò nel 2017 alla rivista Artsy.
Molti esperti, però, sostengono che questa onnipresenza della sua immagine non contribuisca a far conoscere l’arte di Kahlo e la complessità del suo messaggio, ma al contrario le oscuri, allontanando persone che sarebbero altrimenti interessate alla sua arte. «È successo anche con gli impressionisti. Il loro lavoro viene riprodotto su qualsiasi oggetto: rotoli di carta assorbente, tovaglioli, strofinacci da cucina, lenzuola, piatti», ha detto la professoressa di storia dell’arte Selma Holo. «[Kahlo] viene riprodotta e venduta talmente spesso che corre il rischio di sembrare noiosa. È una commercializzazione eccessiva».
David Martin del Campo, autore di una biografia di Kahlo, ha detto invece a NPR che «Frida era una militante, anticapitalista, comunista e femminista. E quello che oggi viene celebrato di lei sono solo gli aspetti superficiali e il modo in cui si vestiva. La commercializzazione di massa della sua immagine la banalizza, è di cattivo gusto e, in definitiva, è solo sfruttamento commerciale».
Secondo la ricercatrice Priya Prasad, la tendenza della FKC a cedere il marchio a qualsiasi azienda «contribuisce a cancellare gran parte dell’eredità che dice di star preservando». «Nemmeno il loro sito esplicita quali erano le posizioni politiche e sociali di Kahlo. La sua arte diventa essenzialmente un’estetica, secondaria alla sostenibilità economica», scrive. Prasad sottolinea che, per esempio, alla mostra immersiva gestita dalla FKC a Cancun man mano che le opere vengono proiettate sui muri non appare nessun titolo né contesto per aiutare gli spettatori a capire cosa stanno guardando.
Il tema è emerso con forza nel 2018 quando l’azienda di giocattoli Mattel mise in vendita una Barbie ispirata a Kahlo, schiarendole però la carnagione, rendendola più magra di quanto non fosse, femminilizzandole i lineamenti e modificando le sue sopracciglia perché fossero molto meno folte di quelle della pittrice. Mara de Anda Romeo, figlia di Isolda, la fondatrice della FKC, chiese la sua rimozione dal mercato perché la bambola avrebbe dovuto essere «molto più messicana», con «abiti messicani e gioielli messicani»: un tribunale messicano le diede ragione e vietò l’uso da parte di Mattel di «marchio, immagine e opere di Frida Kahlo» in tutto il territorio messicano, nonostante la FKC avesse dato loro l’autorizzazione a riprodurne l’immagine.
«Uno degli aspetti chiave del rebranding degli ultimi decenni è proprio l’abbellimento di Kahlo, in modo da creare una figura femminile normata. Vengono rimossi i peli del viso, la sua pelle viene sbiancata, il suo corpo viene trasformato in modo da nascondere proprio gli aspetti che la rendevano ribelle», ha scritto Prasad. Nelle sue opere, infatti, Kahlo sceglieva coscientemente di ritrarre la propria pelle come scura e di evidenziare il monociglio, oltre che i peli del labbro superiore.
«Mentre era in vita, Kahlo era conosciuta per il modo in cui sfidava le norme di genere e gli standard di bellezza eurocentrici. I suoi autoritratti servivano intenzionalmente a raffigurarsi così com’era, sottolineando la propria eredità etnica e i peli sul viso, confrontandosi con la realtà della sua vita ma rappresentandosi non come una figura tragica, ma come una persona animata da fervore ribelle», aggiunge Prasad. «In quest’era digitale e commerciale il suo aspetto iconico, che sfida le norme, è stato appropriato da aziende che la trasformano in una figura normalizzata, bianca e abile, pur capitalizzando sull’identità che l’hanno resa famosa in primo luogo. Il femminismo in questo senso viene cooptato per vendere ai consumatori un look, piuttosto che per promuovere il ripensamento della realtà sociopolitica».