• Mondo
  • Mercoledì 10 luglio 2024

Cosa significa essere «riformisti» in Iran

È la fazione del nuovo presidente Massoud Pezeshkian: fino a qualche tempo fa si proponeva di smantellare il regime dall'interno, ma dopo anni di violentissime repressioni ha obiettivi più limitati

Sostenitori e sostenitrici di Massoud Pedeshkian durante la campagna elettorale (Farhad Babaei/laif)
Sostenitori e sostenitrici di Massoud Pedeshkian durante la campagna elettorale (Farhad Babaei/laif)
Caricamento player

In Iran la vittoria a sorpresa alle elezioni presidenziali dell’ex ministro alla Salute, Massoud Pezeshkian, ha riportato alla guida del paese un candidato del gruppo politico dei riformisti per la prima volta dopo vent’anni. Nella storia dell’Iran c’è stato un solo presidente riformista, Mohammad Khatami, in carica fra il 1997 e il 2005, e dopo di allora il movimento era stato fortemente contrastato dalla repressione del regime, tanto da essere considerato praticamente finito. Ma mentre la parola “riformista” in Occidente ha un significato generico e piuttosto flessibile, in Iran l’appartenenza a questo movimento indica un approccio e una corrente di pensiero molto precisi.

Essere riformisti in Iran significa appartenere alla formazione più progressista dell’arco politico iraniano, che per certi versi – solo alcuni – ha dei punti di contatto con una sinistra occidentale molto moderata. Una delle proposte più nette dei riformisti iraniani prevede fra l’altro proprio un progressivo riavvicinamento ai paesi occidentali. Proprio per via delle loro posizioni però ormai da anni sembravano destinati a un ruolo politico assai marginale. Il presidente Ebrahim Raisi, la cui morte nello schianto di un elicottero ha causato le elezioni anticipate a cui è stato eletto Pezeshkian, proveniva dalla fazione dei cosiddetti ultraconservatori.

Anche la leadership stessa dei riformisti non sembrava credere nelle proprie possibilità di tornare al potere. Alle elezioni parlamentari di marzo non aveva sostenuto alcun candidato, descrivendo le elezioni come «prive di significato, non competitive e ingiuste». La candidatura di Pezeshkian e la sua vittoria sono state quindi un cambio di direzione piuttosto consistente.

Per inquadrare meglio il movimento riformista però va specificato che le elezioni in Iran non sono né libere né democratiche: le candidature presidenziali come quella di Pezeshkian, ma anche quelle al parlamento, devono essere vagliate e approvate dal Consiglio dei guardiani, un organo composto da 12 membri, sei religiosi e sei giuristi, controllato dalla Guida Suprema Ali Khamenei, principale autorità politica e religiosa nonché esponente della fazione più conservatrice del regime. Alle ultime elezioni presidenziali, per dire, sono state respinte 74 delle 80 candidature proposte.

Manifesti elettorali a Tehran (AP Photo/Vahid Salemi)

In Iran esistono varie formazioni politiche, ma non dei veri e propri partiti: tutte fanno riferimento grossomodo a tre grandi correnti di pensiero.

Ci sono gli ultraconservatori e i conservatori, che nel corso degli anni hanno favorito un allontanamento del paese dall’Occidente, una dura repressione del dissenso, un più rigido rispetto delle prescrizioni religiose: Ali Khamenei, la Guida Suprema, fa parte degli ultraconservatori, così come l’ex presidente Raisi. Gli ultraconservatori sono anche la fazione più potente in Iran, al di là del fatto che siano o meno al governo, oltre che molto ben rappresentata a tutti i livelli negli apparati dello Stato.

Poi ci sono i moderati, che possiamo definire in maniera un po’ approssimativa “di centro”: ne faceva parte per esempio l’ex presidente Hassan Rouhani, che nel 2015 firmò lo storico accordo sul nucleare iraniano con l’amministrazione statunitense di Barack Obama e altri governi europei (accordo da cui gli Stati Uniti si ritirarono unilateralmente tre anni dopo per decisione di Donald Trump).

E infine ci sono i riformisti, che pur essendo su posizioni più progressiste non arrivano mai a mettere in discussione le strutture e le regole decisamente non democratiche della Repubblica Islamica e l’autorità della Guida Suprema.

In passato in realtà ci sono stati esponenti che hanno provato a farlo: ma gli spazi sempre più ridotti per il dissenso hanno di fatto eliminato dalla vita politica le componenti meno allineate.

La repressione violenta da parte del regime delle manifestazioni pro democrazia del 2009 ha reso difficile l’attività dei riformisti: negli anni successivi sempre meno persone erano disposte a impegnarsi politicamente per auspicare cambiamenti radicali nel paese, e le autorità statali approvavano sempre meno candidature. Anche per questo elettori ed elettrici riformisti nel corso degli anni si sono divisi fra boicottaggio delle elezioni e voti per quello che veniva considerato “il male minore”, cioè il gruppo dei moderati. Accadde ad esempio nel 2013, quando verosimilmente anche grazie ai voti dei riformisti fu eletto il moderato Rouhani.

Massoud Pezeshkian alla televisione iraniana prima di un dibattito (Morteza Fakhri Nezhad/IRIB via AP)

Proprio durante il mandato di Rouhani ci fu un altro evento che contribuì a mettere ai margini il movimento riformista. Fra il 2013 e il 2015 l’allora governo Rouhani aveva negoziato un accordo con i paesi del cosiddetto 5+1 (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, cioè i cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU, più la Germania) e l’Unione Europea per limitare l’uso dell’energia nucleare a scopi perlopiù civili. Nel 2018 però l’amministrazione statunitense di Donald Trump, che aveva posizioni molto ostili all’Iran, era uscita dall’accordo, di fatto provocandone il fallimento. Proprio quel fallimento aveva alimentato per reazione una crescita di consenso delle fazioni più conservatrici della società iraniana.

Donald Trump parla durante l’assemblea generale dell’ONU nel luglio del 2017 (AP Photo/Seth Wenig)

Secondo molti esperti di politica iraniana anche la natura dei riformisti è cambiata negli ultimi decenni, per effetto della repressione del regime. Alla fine degli anni anni Novanta la presidenza Khatami aveva l’ambizione di cambiare la Repubblica Islamica, con maggiori poteri per il parlamento e gli altri organi elettivi, lo sviluppo di una stampa libera, la promozione di un ordinamento giudiziario più ispirato a valori civili che religiosi. Molti di quei tentativi di riforma furono bloccati. Ancora oggi l’Iran è una teocrazia in cui i maggiori poteri sono in mano alla Guida Suprema Khamenei, e in cui molte delle decisioni riguardo a questioni di sicurezza e di politica interna sono influenzate dalle Guardie Rivoluzionarie, una potente forza militare.

Oggi i riformisti, compreso il neoeletto presidente Pezeshkian, sembrano avere obiettivi più limitati, probabilmente gli unici che possono essere oggettivamente perseguiti con qualche possibilità di essere realizzati. Si concentrano su un’applicazione meno rigida dell’obbligo di indossare l’hijab, il velo utilizzato dalle donne musulmane per coprire la testa e il collo, un approccio meno autoritario in politica interna e qualche apertura in quella estera, oltre a una gestione differente dell’economia, in grave crisi.

L’inattesa approvazione della candidatura di Pezeshkian, dopo anni in cui candidati con posizioni simili alle sue venivano respinti, è stata interpretata come una mossa dettata dalla necessità di evitare un più ampio boicottaggio delle elezioni, che avrebbe danneggiato l’immagine del paese e quindi anche del regime.

Nel corso degli anni, e dopo le proteste represse del 2009, del 2019 e del 2022, gran parte dell’elettorato non crede più alla possibilità di riformare il sistema dall’interno.

Nel 2022 in particolare le proteste furono innescate dalla morte di Mahsa Amini, una ragazza che era stata arrestata dalla polizia religiosa perché non indossava il velo correttamente e nei giorni successivi era morta mentre si trovava in custodia della polizia. Nelle settimane seguenti le manifestazioni furono enormi e chiesero apertamente la fine del regime. Moltissimi manifestanti rifiutarono ogni tentativo di fare politica al suo interno, considerandolo una legittimazione dell’attuale sistema. Uno degli slogan di quei giorni era: «Conservatori, riformisti, il gioco è finito».