Cassa Depositi e Prestiti non trova abbastanza donne per il suo nuovo consiglio di amministrazione

Secondo Repubblica il governo avrebbe proposto perlopiù uomini, e quindi la società starebbe pensando di cambiare statuto per aggirare le regole sulla rappresentanza di genere

La sede di Cassa Depositi e Prestiti, a Roma (ANSA/Angelo Carconi)
La sede di Cassa Depositi e Prestiti, a Roma (ANSA/Angelo Carconi)
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Sta per arrivare a scadenza l’attuale consiglio di amministrazione di Cassa Depositi e Prestiti (CDP), la società che detiene per conto dello Stato partecipazioni in molte aziende strategiche, come Eni, Tim, Saipem, Fincantieri e altre ancora. CDP è di proprietà del ministero dell’Economia, che possiede l’82,77 per cento delle azioni, e di un gruppo di fondazioni bancarie: spetta dunque al governo e alle fondazioni l’indicazione dei nomi del nuovo consiglio di amministrazione, un elemento essenziale per il funzionamento dell’azienda.

Da mesi si sta cercando senza successo di comporre un nuovo consiglio che rispetti le leggi sulla rappresentanza di genere: sono leggi che valgono per le società quotate e per quelle controllate dallo Stato, e impongono che nei loro consigli di amministrazione almeno due quinti dei membri siano del genere meno rappresentato, solitamente le donne. Il problema, hanno riferito diversi giornali nelle ultime settimane, è che buona parte dei nomi proposti dal governo sarebbero uomini, e questo non consentirebbe di arrivare a una lista di nomi che può essere approvata dall’assemblea degli azionisti: è da maggio che deve votare su questo tema e ha dovuto rimandare il voto per quattro volte.

Il consiglio di amministrazione uscente è di nove componenti, di cui quattro donne: rispetta la quota dei due quinti. Secondo quanto scrive Repubblica, finora si sarebbe trovato un accordo su due persone: Lucia Calvosa, importante giurista proposta dalle fondazioni che è stata tra le altre cose anche presidente di Eni, la più importante azienda energetica italiana, e l’economista Luigi Guiso. L’intenzione sarebbe anche quella di confermare Giovanni Gorno Tempini come presidente e Dario Scannapieco come amministratore delegato, che fanno parte entrambi dell’attuale consiglio di amministrazione. In questo modo però su nove membri ci sarebbero già tre uomini, a fronte di una sola donna: ne servirebbero almeno altre tre per rispettare la quota di genere. Il governo però sta considerando e proponendo perlopiù altri uomini.

Sempre Repubblica scrive che per questo gli azionisti starebbero valutando alcune operazioni societarie per abbassare il limite della quota di genere, che renderebbe possibile per l’assemblea approvare una composizione più maschile.

La notizia data da Repubblica ha generato diverse reazioni da parte di politici dell’opposizione. La senatrice Beatrice Lorenzin, vicecapogruppo del Partito Democratico al Senato, ha presentato un’interrogazione al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Il senatore Antonio Misiani, responsabile economico del PD, ha scritto su X (Twitter): «Indietro tutta. Poiché i nomi ipotizzati dai partiti della maggioranza per il nuovo cda di CDP sono tutti maschi, che si fa? Si cambia lo statuto, si allenta il criterio di equilibrio di genere. Una autentica vergogna». In un post su Facebook la parlamentare europea del Movimento 5 Stelle Carolina Morace ha parlato di una «ennesima dimostrazione di quanto la destra valorizzi le donne». Elena Bonetti, vicepresidente di Azione, su X ha scritto che «sarebbe un passo indietro inaccettabile. Le donne competenti ci sono, non possono pagare loro le logiche di occupazione del potere».

Ha commentato anche Lella Golfo, ex senatrice dell’allora Popolo della Libertà (gruppo di centrodestra che univa gli attuali Forza Italia e Fratelli d’Italia) che fu prima firmataria della legge del 2011 sulla rappresentanza di genere nelle società quotate. Ha definito la questione «di una gravità inaudita, se CDP non torna sui propri passi siamo davanti a un vulnus gravissimo da non far passare sotto silenzio».

CDP potrebbe effettivamente cambiare le regole del suo statuto nonostante la legge per via di alcune lentezze legislative. La legge sulle quote di genere esiste dal 2011 per le società quotate e dal 2012 è stata estesa alle società a controllo pubblico (come CDP) con un decreto del presidente della Repubblica: in origine prevedeva una quota di almeno un terzo per il genere meno rappresentato, che è stata aumentata a due quinti nel 2020 per le società quotate e nel 2021 per quelle a controllo pubblico. La legge del 2021 ha però bisogno di un regolamento per estendere la modifica al decreto originario, e questo regolamento non è ancora stato emanato: quindi almeno formalmente per le società a controllo pubblico vale ancora la quota di un terzo.

CDP aveva già recepito volontariamente la quota dei due quinti nel suo statuto, cioè quell’insieme di regole procedurali per lo svolgimento delle attività dell’impresa. Secondo Repubblica gli azionisti starebbero pensando ora di cambiarlo, in modo da prevedere l’abbassamento della quota da due quinti a un terzo (che resta negli attuali vincoli di legge) e di estenderlo contestualmente anche al consiglio di amministrazione della cosiddetta “gestione separata” di CDP, cioè il consiglio che presiede la parte di attività relativa al finanziamento degli investimenti statali: attualmente il consiglio di amministrazione è composto da cinque membri, tutti uomini. In questo modo ci sarebbe più flessibilità: sarebbe cioè sufficiente avere un terzo di donne tra i membri del consiglio ordinario e quello della gestione separata, quindi cinque donne su quattordici indipendentemente da quale consiglio si tratti. Basterebbe per esempio nominare un’altra donna per il consiglio di amministrazione ordinario, e averne tre in quello della gestione separata.

Gli azionisti di CDP, e dunque il governo, riuscirebbero così ad aggirare la regola, ma dovrebbero comunque tornare a rispettarla se dovesse essere pubblicato il regolamento per rendere valida la legge del 2021. Secondo diversi studi, in ogni caso, la legge sulla rappresentanza di genere ha avuto effetti benefici non solo in termini di maggiore diversità nei consigli di amministrazione, ma ha anche garantito migliori risultati economici alle aziende che ci si sono adeguate. Non ha però ancora prodotto uno dei risultati auspicati dalla legge, cioè quello di influenzare indirettamente il resto del management delle aziende, le cui posizioni dirigenziali restano ancora nella maggior parte occupate da uomini.