Perché in Italia abbiamo lasciato stare il coriandolo
In antichità si usava molto, ma nel corso dei secoli è uscito dalla cucina popolare: oggi lo si trova poco, e per molti sa di sapone
Molti ingredienti tradizionali della cucina italiana sono introduzioni relativamente recenti, come il pomodoro importato dalla Spagna nel Cinquecento, mentre altri sono stati utilizzati per secoli, dimenticati e ora considerati esotici. Tra questi c’è il coriandolo, una pianta erbacea dalle foglie simili a quelle del prezzemolo, ma dal sapore più pungente e per qualcuno saponoso, originaria dell’Europa, del Medio Oriente e del Nord Africa. Oggi in Italia è associato ad alcune cucine asiatiche, come quella cambogiana e thailandese, o latinoamericane, e spesso la sua semplice presenza rende un piatto speciale, almeno per chi non lo trova disgustoso (c’entra la genetica: ci arriviamo). Nell’antichità, però, era coltivato e mangiato comunemente anche nell’attuale Italia.
Nel più importante ricettario dell’epoca latina, il De re coquinaria, attribuito al gastronomo Marco Gavio, detto Apicio, ma compilato tra il I e il V secolo d.C., il coriandolo è presente nel 18 per cento delle ricette, che si tratti dei semi dal sapore agrumato o delle foglie: era utilizzato nelle salse, nell’insalata, negli arrosti e per insaporire le bevande. Si pensava avesse anche proprietà curative, per esempio il naturalista Plinio il Vecchio scriveva nella Naturalis historia (77-78 d.C.) che i semi aiutavano a espellere i vermi intestinali e che le foglie funzionavano contro ulcere, febbri terzane e colera.
Il coriandolo di migliore qualità, spiegava, cresceva lungo il Nilo, in Egitto: qui si aggiungeva al vino insieme all’aglio, mentre i semi erano utilizzati nell’impasto del pane e in una salsa per le ostriche. Oltre che dagli antichi Egizi, i Romani impararono a mangiare i semi e le foglie di coriandolo dai Greci.
Semi di coriandolo risalenti al I secolo sono stati ritrovati nelle botteghe del sito archeologico di Pompei e nelle zone più remote dell’Impero romano, a testimoniare che era mangiato ovunque e in tutte le classi sociali. Serviva anche a conservare il cibo grazie alle proprietà antibatteriche dei semi, presenti ancora oggi in alcuni salumi italiani, tra cui la porchetta. A parte questo, nella cucina italiana non resta molta traccia del coriandolo, che iniziò a cadere in disuso con la disgregazione dell’Impero e l’arrivo dei popoli germanici che non lo conoscevano.
La storica di cucina dell’università di Siena, Karima Moyer-Nocchi, ha spiegato al sito Atlas Obscura che nel Medioevo il coriandolo non ebbe fortuna perché non era associato all’idea di ricchezza, contrariamente alla cannella, al cardamomo e alle spezie importate dall’Oriente. I suoi semi erano classificati tra le spezie cosiddette “forti”, come il pepe, che erano meno usate rispetto a quelle considerate “dolci”. Infine il suo sapore cozzava con quello di altri ingredienti importati e alla moda, come l’acqua di rose.
Già nel Rinascimento se ne utilizzavano soltanto i semi, come spezia oppure per i confetti: venivano ricoperti di zucchero, offerti dopo cena come digestivo e lanciati in aria durante le feste. Da questa usanza viene il nome di coriandoli, i pezzetti di carta colorata che si lanciano ancora oggi a Carnevale, ma che in inglese sono chiamati ancora confetti, dal nome degli antichi dolci fatti con i semi di coriandolo (che oggi sono a base di mandorle, nocciole o cioccolato).
La crisi del coriandolo era evidente già nel 1544, quando il fisico e botanico Pietro Andrea Mattioli scrisse che le foglie puzzavano come cimici, un paragone ripreso anche da altri: nel 1597 l’erborista inglese John Gerard lo definì un’erba «molto puzzolente» con foglie dalle «qualità velenose» e nello stesso periodo anche lo scrittore francese Olivier de Serres sostenne che le foglie, se sfregate, puzzavano di cimice.
Nel Settecento, spiega sempre Moyer-Nocchi, era difficile trovare il coriandolo nelle ricette italiane. In quel periodo il primato della cucina italiana, considerata la più raffinata e innovativa d’Europa, passò a quella francese. I cuochi francesi del XVIII e XIX secolo si discostarono dalle regole di quelli italiani – attenti soprattutto alla giusta mescolanza di spezie – e si concentrarono sulle erbe fresche e sull’abbinamento degli ingredienti. Anche l’Italia fu influenzata dalla nuova moda gastronomica e quando, con l’unificazione, nacque la cucina nazionale italiana, non c’era più traccia del coriandolo. Nelle 790 ricette di La scienza in cucina e l’arte del mangiare bene del gastronomo Pellegrino Artusi, uscito nel 1891 e considerato il testo fondante della cucina italiana, le foglie di coriandolo non sono presenti mai, mentre i semi dall’odore «grato quanto quello di vainiglia», sono usati solo in quattro dessert.
C’è un altro motivo che ha danneggiato la popolarità del coriandolo: alcune ricerche recenti hanno scoperto che viene considerato disgustoso a causa di una variazione genetica associata all’olfatto. Alcune molecole dell’odore delle foglie di coriandolo fresco appartengono alla famiglia delle aldeidi, le stesse responsabili dell’odore repellente emesso da alcuni insetti. Le persone con questa variazione genetica percepirebbero con più intensità le aldeidi e l’odore pungente del coriandolo: tra loro c’è, probabilmente, la famosa cuoca statunitense Julia Child, che disse che non mangiava né rucola né coriandolo perché «sapevano di morto» e che se avesse intravisto una foglia di coriandolo nel piatto l’avrebbe subito «gettata a terra».
Sempre secondo alcune ricerche, le donne percepiscono il sapore saponoso del coriandolo più degli uomini, e le persone di origine europea hanno più probabilità di trovarlo disgustoso rispetto a quelle di origine sud-asiatica, latina e africano-americana: è anche per questo che è alla base del popolare pico de gallo messicano, un contorno a base di pomodori, cipolle, peperoncini, lime e foglie di coriandolo, e di molte zuppe asiatiche, tra cui il Bun Bo vietnamita, con vermicelli di riso, manzo, verdure e foglie di coriandolo.
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