Google Morals e il disimpegno

«Negli ultimi anni la classe politica è divenuta innanzitutto uno strumento di delega morale: soddisfa la volontà di delegare ad altri almeno una parte delle decisioni sul bene e sul male. Prima era comune farlo con il prete; oggi è accettabile farlo con il capo di un partito xenofobo. La deresponsabilizzazione e la delega a un'app che decida per noi hanno una somiglianza inquietante. E la Francia? È stata una bellissima sorpresa, ma forse scambiare le elezioni per un'inversione di rotta è l’ennesima forma di procura: un risultato altrui da sbandierare con sollievo, senza impegno»

Automa carillon di una tigre di Tippu che uccide un soldato inglese. India, XVIII secolo (Victoria & Albert Museum, via Wikimedia)
Automa carillon di una tigre di Tippu che uccide un soldato inglese. India, XVIII secolo (Victoria & Albert Museum, via Wikimedia)
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Una decina di anni fa il filosofo Robert J. Howell propose un interessante esperimento mentale immaginando un’applicazione, Google Morals, in grado di fornire risposte a ogni problema etico. L’obiezione di Howell al suo utilizzo era semplicissima: quand’anche Morals fosse infallibile, impermeabile ad attacchi hacker e promettesse dunque illimitato benessere, accedendovi perderemmo la libertà – condizione indispensabile per ogni scelta tra bene e male. (Non siamo lontani dall’offerta del Grande Inquisitore di Dostoevskij, nei Fratelli Karamazov: rinunciare all’autonomia personale in cambio di un dominio paternalistico).

In effetti agire sempre in accordo a un perfetto calcolo morale ci renderebbe degli automi. Magari automi felici e rispettosi: ma privi di quel nucleo inviolabile che appartiene a ognuno di noi – coscienza, anima, chiamatelo come che vi pare. Il prezzo della libertà può essere molto alto, perfino tragico, ma senza di essa e la responsabilità che ne deriva è davvero complicato definirci umani.

Ovviamente l’appalto della propria responsabilità morale a un’autorità esterna non va confuso con i normali atti di delega che compiamo ogni giorno, affidandoci agli esperti per risolvere problemi fuori dalle nostre competenze – per esempio chiamando un idraulico se la lavatrice si rompe. (Persino Bakunin, nemico di ogni dominio, diceva di fare affidamento all’autorità del calzolaio quando si trattava di scarpe).

Lo stesso vale per i buoni consigli. Se dobbiamo prendere decisioni attorno a problemi spinosi possiamo chiedere pareri a persone che stimiamo, ma chiunque troverebbe ingiusto scaricare su di essi il peso della scelta. La risposta finale alla domanda “Perché l’hai fatto?” dipende soltanto da noi.

Com’è noto, negarlo fu la tattica difensiva prediletta dai nazisti: abolire qualsiasi scrutinio interiore, anche la minima ombra di allocazione personale delle colpe: l’ho fatto perché mi hanno detto di farlo; e se mi fossi rifiutato (ma disobbedire è sbagliato!) l’avrebbe comunque fatto qualcun altro. Come scrisse Hannah Arendt in Alcune questioni di filosofia morale, fu allora che l’etica

crollò o si afflosciò come un vuoto insieme di mores – usi, costumi, convenzioni che si possono cambiare quando si vuole – non a causa dei criminali, ma della gente ordinaria, che fino a quando le norme morali erano accettate da tutti non si sognò mai di mettere in dubbio ciò che le era stato insegnato.

Attenzione: nel 2014 lo spunto di Howell sembrava un innocuo gioco filosofico; oggi, con l’AI (qualunque cosa voglia dire), è diventato un problema reale e serissimo. La nostra autonomia non è mai stata così a rischio, e ciò rende il discorso ancora più urgente: ma un eventuale uso sconsiderato della tecnologia trova già terreno fertile nel cattivo “uso” reciproco di noi stessi; agisce su una serie di atteggiamenti che caratterizzano da tempo il tessuto sociale. Ad esempio, un certo tipo di rapporto fra deleganti e delegati umani.

Riduciamo il discorso al nostro paese, per comodità e interesse. Secondo un aforisma attribuito a Longanesi il tricolore dovrebbe essere completato da una scritta, Ho famiglia: descrivendo così l’italianissima limitazione della responsabilità a detrimento di più vasti doveri civici. Una variante aggiornata potrebbe essere Delega e lamentati: si attribuisce la responsabilità delle azioni a terzi e si piagnucola comunque se le cose non vanno come sperato.

Bene, negli ultimi anni la classe politica è divenuta innanzitutto uno strumento di delega morale: ovvero la volontà di affidare ad altri almeno una parte delle decisioni sul bene e sul male. Prima era comune farlo con il prete; oggi è accettabile farlo con il capo di un partito xenofobo.

Ma se online è tutto un fiorire di opinioni in prima persona!, si obietterà. Vero. Però anche le modalità di tale discorso hanno preso una piega singolare: le bolle digitali richiedono uno schieramento immediato; e la tendenza a curare ossessivamente la propria immagine di coerenza fa il resto. Il fattore-tempo è cruciale: proprio come ci aspettiamo che un’app (anche un’app come Morals) fornisca risposte in pochi secondi, allo stesso modo si coltiva l’obbligo a pronunciarci senza mezzi termini e il prima possibile – pena qualche scomunica. Abbiamo sperimentato tutti quella sensazione di essere davanti a un tribunale permanente.

Ma esprimersi in una discussione fra pari in un’assemblea di quartiere, o alla riunione periodica di un’associazione o di un centro sociale, è cosa ben diversa. Nel discorso digitale la fatica del rispetto reciproco conta meno; gli eventi ci colgono sempre impreparati, sono troppi e troppo urgenti, tutti, e la massa di voci pressante: studiare e documentarsi richiede tempo, però il tempo manca; dunque capita di delegare la propria scelta su ciò che è bene e ciò che è male alla bolla cui si appartiene.

(A uso dei cantori del bel tempo che fu: il giornalismo aveva già questi problemi di urgenza decenni fa, come notava acutamente un Giorgio Manganelli pressato dalle interviste telefoniche: «Credo di essere contrario al cannibalismo, ma prima vorrei pensarci, e poi vorrei introdurre dei distinguo». E invece ti chiedono di rispondere subito).

C’è però un aspetto che travalica di gran lunga i limiti della discussione online. La deresponsabilizzazione che ci affligge e la delega a Google Morals hanno una somiglianza inquietante, come accennavo, in una nuova sfumatura del meccanismo di rappresentanza.

Invece di un algoritmo qui abbiamo persone in carne e ossa, altamente fallibili e spesso ben poco interessate ai problemi etici. A esse, secondo quanto previsto dalla Costituzione italiana e dai comuni processi di una democrazia liberale, viene concessa una delega politica. In nessun caso è previsto o auspicato che ottengano altro, eppure è in questa direzione che siamo andati, seguendo un comodo e diffuso infantilismo: lo dice lui o lei, lo faccio perché mi hanno detto di farlo.

Da qui a scivolare verso involuzioni totalitarie il passo è lungo, ma anche coltivare un “semplice” qualunquismo resta un danno irreparabile.

Credo insomma avesse perfettamente ragione Nicola Chiaromonte, che su libertà e responsabilità ha costruito tutto il proprio pensiero. Per Chiaromonte la democrazia non implica soltanto la libertà di esprimersi e la difesa dei diritti individuali contro le ingerenze del potere:

democrazia è propriamente quel regime di convivenza nel quale è dato al cittadino nutrire speranza ragionevole di poter influire sul destino comune, di contare nella collettività come una presenza attiva e non come una cifra, quindi di poter far valere la propria libertà contro le necessità e le inerzie sociali.

Il problema è proprio che tale possibilità non viene granché esercitata. Meglio: da un’ampia quota di persone non è considerata un valore primario. L’articolo di Chiaromonte è del 1962, al principio di un’epoca cui molti guardano con nostalgia; ma già allora il saggista dubitava che i cittadini potessero incidere in un contesto politico altamente burocratizzato, dal linguaggio oscuro e alle prese con questioni complicatissime. L’anno successivo disse che il voto dell’italiano «non ha quindi un significato molto diverso da quello che avrebbe uno scongiuro o altro gesto superstizioso». Difficile dargli torto, oggi.

Di primo acchito sembra che il segnale più chiaro di tale disaffezione sia la recente astensione alle Europee – mai così alta in tutta la storia repubblicana. Ma possiamo scavare più a fondo. In uno studio dell’Istat relativo al 2022 leggiamo che

il grado di fiducia espresso dai cittadini di 14 anni e più nei confronti delle istituzioni politiche e giudiziarie si mantiene ampiamente al di sotto della sufficienza, con valori per lo più stabili rispetto al 2021. […] In particolare, l’atteggiamento di sfiducia più diffuso è quello verso i partiti politici, per i quali si rileva il voto medio più basso in assoluto, pari a 3,3 su una scala da 0 a 10 (era 3,2 nel 2019), con punteggi insufficienti assegnati da quasi 8 cittadini su 10.

Giocando un po’ con le query del sito possiamo anche confrontare i dati su «discussione e attività politica» dal 2001 al 2022 relativi alla popolazione sopra i 14 anni. Ecco l’andamento di due fattori interessanti, l’attività gratuita per un partito politico e la partecipazione a un corteo (le colonne sono dodici perché mancano i dati del 2005):

Il calo è costante in entrambi i casi, e già su percentuali assai risicate.

Statistiche a parte, è il meccanismo in sé ad aver perso il significato che un tempo vi si attribuiva — pur con tutte le cautele già segnalate da Chiaromonte, e in fondo tipiche di ogni società di massa. (Ma: e la Francia? La Francia è stata una bellissima sorpresa, un esempio di fedeltà repubblicana e antifascista; tuttavia ho qualche dubbio sia il segno di una grande inversione di rotta. Anzi, forse scambiarlo per tale è l’ennesima forma di procura: un risultato altrui da sbandierare con sollievo, senza impegnarsi per trarne le conseguenze).

Restiamo dunque in Italia. Qui l’investimento ideale nel processo rappresentativo va indebolendosi sempre più, per mille ragioni. Lo spazio politico dove agire con coscienza è piuttosto altrove, nel volontariato o nelle attività informali sul territorio; ma per i moltissimi inattivi il voto è appunto uno scongiuro e una delega assoluta. Una volta espressa la preferenza, che il proprio leader si occupi di tutto: anche della tragicità che a volte comportano le decisioni morali.

È questo il brodo di coltura dove nasce quel conformismo della cattiveria che osserviamo tanto spesso.

Forse fu Berlusconi a vendere per primo un’idea di libertà irresponsabile e gaudente in cambio del potere. La proposta era di una semplicità disarmante, diretta non a una specifica classe sociale ma al singolo cittadino: bada al tuo interesse e lascia che io mi occupi del resto, tanto le questioni morali hanno scarsa rilevanza. («Noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia» aveva detto Mussolini nel suo terribile discorso del 3 gennaio 1925).

– Leggi anche: Che ne sappiamo davvero di Giacomo Matteotti?

Ma descrivere genealogie non è poi molto importante; più importante è riconoscere il carattere diciamo rilassante della cosa. La sensibilità etica è consegnata a terzi, dunque non ci sono più ostacoli (se non di ordine legale) al rancore o al desiderio egoistico; e l’etica stessa si affloscia, per ripetere Arendt, come «un vuoto insieme di mores – usi, costumi, convenzioni che si possono cambiare quando si vuole».

Allo stesso modo ogni rivendicazione di libertà irresponsabile finisce con l’elogio del più forte: di chi fidarsi, infatti, se l’autorevolezza o la critica razionale sono sospette perché limitano l’arbitrio del singolo? Obbedendo a un capo: lui o lei saprà cos’è bene e cos’è male, cos’è giusto e cos’è sbagliato – finché dura, e per fortuna possiamo (finora) sbarazzarcene quando ci va. Il trasformismo popolare non ha grossi costi, non comporta sforzi di pensiero.

Quando Popper identificava «l’essenziale di una forma di governo» nel «permettere di deporre il governo senza spargimento di sangue, dopo di che un nuovo governo prende in mano le redini del potere», non poteva sospettare una crisi tanto radicale del sistema. Certo avere la possibilità di far cadere un governo per via pacifica resta una benedizione, ma è davvero troppo poco rispetto alla definizione offerta da Chiaromonte: tanto più esigente, ma anche tanto più ricca e sostanziale.

Dunque un tema per gli anni a venire è la ricostruzione di un contesto di autorevolezza che eviti il ricorso in automatico a nobili nomi – democrazia! libertà! – quando non si sa più che pesci pigliare; e che rifiuti di accettare la delega morale pur spontaneamente offerta. Si tratta insomma di trattare i cittadini da adulti. Ciò passa anche attraverso una profonda revisione del linguaggio, la navigazione dal mare aperto di emozioni irriflesse fino alla costa della gentilezza «come postura e come metodo», nelle belle parole di Franco Lorenzoni in un articolo pubblicato anni fa su Gli asini.

Ho appena parlato di adulti e ora nomino un maestro elementare e pedagogo; può sembrare bizzarro, ma l’esempio non è scelto a caso. Lorenzoni parlava dell’educazione civica nelle scuole, eppure le sue frasi hanno un valore più ampio: «non credo ci possa essere alcuna possibilità di intendere quale sia il terreno di coltura della democrazia, senza proporre e praticare con efficacia il dialogo, senza cimentarci ad affinare le capacità di ascolto reciproco dei bambini, dei ragazzi e, prima – necessariamente prima! – di noi insegnanti».

Questa gentilezza non è banale galateo o un’etichetta che maschera ipocrisie e disparità: è politica elementare: mettere in pratica forme concrete di rispetto che segnalano immediatamente – attraverso i gesti, le parole, i sorrisi – l’accorgersi della presenza dell’altro; il riconoscimento dell’altro quale soggetto ricco di bisogni, speranze e desideri e non mero ostacolo, variabile astratta o concorrente nel gioco della vita.

Attraverso i modi suggeriti da Lorenzoni il danno di una delega morale appare subito chiaro. Occorre prendersi cura a vicenda o entrare in conflitto se necessario, ma senza accampare perennemente scuse e scaricare le giustificazioni su terzi.

Così, mentre il vittimismo è diventato la carta per fuggire ogni ombra di responsabilità e il risentimento erode la solidarietà, ad avere bisogno di educazione civica non sono certo solo i bambini. Ho citato Nicola Chiaromonte; vorrei farlo ancora a chiusura di pezzo:

Ciò che dobbiamo affrontare è il potere esercitato su ognuno di noi, che ci spoglia di molte cose oltre all’amore per il prossimo. Non è stato cancellato soltanto un sentimento soggettivo come l’amore, ma piuttosto quell’evidenza originaria per cui c’è qualcosa in comune tra due uomini per il solo fatto che esistono, la vera radice della società e della giustizia.

Difficile dirlo meglio: difficile anche porvi rimedio.

Giorgio Fontana
Giorgio Fontana

È uno scrittore. Il suo ultimo romanzo è Kafka. Un mondo di verità (Sellerio 2024).

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