(Spencer Platt/Getty Images)

Bere il mare

Il nostro mondo è ricoperto d'acqua, eppure quella bevibile è pochissima e ottenerne di nuova dagli oceani tramite i dissalatori è complicato e poco conveniente

In Sicilia da alcune settimane si discute sulla riapertura del dissalatore di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, per trattare l’acqua di mare e renderla potabile in modo da ridurre i forti problemi legati alla siccità degli ultimi mesi. La Regione ha previsto un milione di euro di spesa e alcuni mesi di lavoro per riattivare l’impianto fermo da 12 anni, ma sono stati espressi alcuni dubbi considerati i costi. I dissalatori consumano infatti molta energia e producono acque di scarto difficili da gestire: per questo sono ancora relativamente poco utilizzati in tutto il mondo, anche se negli ultimi decenni ci sono stati progressi nel miglioramento dei sistemi per renderli più efficienti dal punto di vista energetico.

Il 97 per cento dell’acqua presente sulla Terra è salato: è presente nei mari e negli oceani e non può essere bevuto né tanto meno utilizzato per l’agricoltura. Il resto dell’acqua è dolce, con il 2 per cento conservato nei ghiacciai, nelle calotte polari e negli accumuli di neve sulle montagne e l’1 per cento disponibile per le nostre esigenze e quelle dei numerosi altri organismi che per vivere hanno bisogno di acqua quasi totalmente priva di sali, a cominciare dal cloruro di sodio (NaCl, quello che comunemente chiamiamo “sale da cucina”). In media l’acqua marina contiene il 3,5 per cento circa di sale, una concentrazione sufficiente per causare danni ai reni ed essere letale.

Quell’1 per cento di acqua dolce sarebbe più che sufficiente, se non fosse che non è distribuito uniformemente nel pianeta: ci sono aree in cui abbonda e altre in cui scarseggia, in assoluto oppure a seconda delle stagioni e delle condizioni atmosferiche. Il cambiamento climatico in corso negli ultimi decenni ha peggiorato le cose con aree che sono diventate più aride, riducendo le possibilità di accesso per milioni di persone all’acqua dolce. Stando alle stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), circa 2 miliardi di persone vivono in zone del mondo in cui il reperimento dell’acqua è difficoltoso e solo nel 2022 almeno 1,7 miliardi di persone hanno avuto accesso per lo più ad acqua contaminata, con seri rischi per la salute.

Considerate le difficoltà nel disporre di acqua dolce, ci si chiede spesso perché non si possa sfruttare su larga scala quella degli oceani, privandola dei sali che non la rendono bevibile. Le tecnologie per farlo ci sono da tempo e alcune furono sperimentate millenni fa, eppure non siamo ancora in grado di trasformare l’acqua di mare in acqua potabile in modo conveniente e sostenibile. In un certo senso è un grande paradosso: il pianeta è ricolmo d’acqua, ma quella che possiamo usare per sopravvivere è una minuscola frazione.

L’oceano Pacifico è di gran lunga la più vasta distesa d’acqua salata della Terra (NOAA)

Per molto tempo il sistema più pratico per dissalare l’acqua è consistito nell’imitare ciò che avviene in natura facendola evaporare. Grazie al calore del Sole e a quello del nostro pianeta, ogni giorno una enorme quantità di acqua evapora dagli oceani, dai fiumi e dagli altri corsi d’acqua, raggiungendo gli strati dell’atmosfera dove si formano le nuvole e di conseguenza le piogge, che porteranno l’acqua dolce a cadere al suolo. Con la “dissalazione evaporativa” si fa artificialmente qualcosa di analogo: l’acqua del mare viene scaldata e fatta evaporare, in modo che si separi da buona parte dei sali. Il vapore acqueo viene poi fatto raffreddare in modo che condensi e che si possa recuperare l’acqua quasi priva di sali.

Negli anni sono state sviluppate varie tipologie di dissalatori evaporativi, per lo più per provare a rendere il più efficiente possibile il processo dal punto di vista energetico, ma il concetto di base rimane più o meno lo stesso. I dissalatori di questo tipo sono impiegati in molti impianti in giro per il mondo, specialmente nelle aree costiere lungo il Golfo in Medio Oriente, dove spesso si sfrutta la grande disponibilità di combustibili fossili per alimentare gli stabilimenti. Il processo richiede infatti grandi quantità di energia e per questo molti gruppi di ricerca hanno sperimentato alternative nei decenni passati.

Il progresso più importante nelle tecnologie di dissalazione fu raggiunto negli anni Sessanta, quando fu messo a punto il processo di “osmosi inversa”. L’acqua di mare viene fatta passare ad alta pressione attraverso una membrana semipermeabile, che permette solo alle molecole d’acqua di passare dall’altra parte, obbligandola a lasciarsi alle spalle gli ioni dei sali che la rendono salata.

In un dissalatore a osmosi inversa, l’acqua salata viene aspirata dal mare attraverso potenti pompe e fatta fluire tra grandi grate per separarla dalle impurità più grandi. L’acqua attraversa poi membrane con pori via via più piccoli per bloccare il passaggio della sabbia, dei batteri e di altre sostanze. L’acqua è infine pronta per essere spinta ad alta pressione attraverso una membrana che ha solitamente pori di dimensioni intorno a 0,1 nanometri (un nanometro è un miliardesimo di metro), tali da bloccare il passaggio dei sali, ma non delle molecole d’acqua.

(CNBC)

Da un punto di vista energetico, la dissalazione per osmosi inversa è più conveniente rispetto a quella per evaporazione, perché non richiede di scaldare l’acqua. Alcuni impianti sono arrivati a produrre acqua dolce con un consumo di 2 kWh (“kilowattora”) per metro cubo d’acqua, un risultato importante se si considera che negli anni Settanta il consumo era di 16 kWh per metro cubo. In media si stima che la dissalazione dell’acqua con i metodi più diffusi comporti un consumo di 3 kWh/m3 e che negli ultimi cinquant’anni si sia ridotto di circa dieci volte. L’attuale consumo è paragonabile a quello del trasporto dell’acqua su lunghe distanze verso i luoghi in cui manca, mentre è ancora lontano da quello degli impianti che forniscono localmente l’acqua dolce disponibile sul territorio.

L’osmosi inversa, nelle sue varie declinazioni, ha contribuito più di altre tecnologie a ridurre l’impatto energetico della dissalazione, ma ha comunque i suoi limiti. A causa della forte pressione, le membrane per realizzarla devono essere sostituite di frequente e la loro costruzione è laboriosa e delicata. Inoltre, man mano che si estrae l’acqua dolce, l’acqua marina di partenza diventa sempre più salata e sempre più difficile da separare dai sali che contiene. Oltre un certo limite non si può andare e si ottiene una salamoia che deve essere gestita e smaltita.

I livelli di efficienza variano molto a seconda degli impianti, ma in media un dissalatore a osmosi inversa produce un litro di salamoia per ogni litro di acqua dolce (ci sono analisi più o meno pessimistiche sul rapporto). Si stima che ogni giorno siano prodotti circa 140 miliardi di litri di salamoia, la maggior parte dei quali vengono dispersi nuovamente in mare. Lo sversamento avviene di solito utilizzando condotte sottomarine che si spingono lontano da quelle che effettuano i prelievi, in modo da evitare che sia aspirata acqua di mare troppo salata.

L’impianto di desalinizzazione a Barcellona, Spagna (AP Photo/Emilio Morenatti)

Data l’alta quantità di sali al suo interno, la salamoia è più densa della normale acqua di mare e tende quindi a rimanere sul fondale marino prima di disperdersi nel resto dell’acqua marina. La maggiore concentrazione di sali potrebbe avere conseguenze sugli ecosistemi marini e per questo il rilascio della salamoia in mare è studiato da tempo, anche se per ora le ricerche non hanno portato a trovare molti indizi sugli eventuali effetti deleteri. In alcuni paesi ci sono comunque leggi che regolamentano le modalità di sversamento, per esempio richiedendo l’utilizzo di tubature che si spingano più al largo e che abbiano molte diramazioni, in modo da rilasciare la salamoia in più punti favorendo la sua diluizione col resto dell’acqua marina.

Lo sversamento in mare non è comunque l’unica tecnica per liberarsi della salamoia. Un’alternativa è lasciare che evapori al sole, raccogliendo poi i sali in un secondo momento per utilizzarli in altre attività industriali. È però un processo che richiede del tempo, la disponibilità di porzioni di territorio sufficientemente grandi e un clima che renda possibile l’evaporazione in buona parte dell’anno. In alternativa l’evaporazione può essere ottenuta scaldando la salamoia, ma anche in questo caso sono necessarie grandi quantità di energia e il processo non è efficiente.

Non tutte le salamoie sono uguali perché la concentrazione di sali non è uniforme e omogenea negli oceani, per questo alcuni gruppi di ricerca stanno esplorando la possibilità di sfruttarle per ottenere minerali particolarmente richiesti. L’interesse principale è per il litio, una materia prima molto richiesta per la produzione di batterie e dispositivi elettrici. La sua estrazione viene effettuata di solito in alcune zone aride del mondo, a cominciare da quelle del Sudamerica, dove acque sature di sali vengono lasciate evaporare sotto al Sole per mesi. Sono in fase di sperimentazione sistemi alternativi di estrazione, ma separare il litio dalle altre sostanze non è semplice e richiede comunque energia.

In Arabia Saudita, uno dei paesi che hanno più investito nello sviluppo di tecnologie di dissalazione a causa della ricorrente mancanza di acqua dolce, è in progettazione un impianto per estrarre dalla salamoia ulteriore acqua da rendere potabile e al tempo stesso ottenere cloruro di sodio. Questa sostanza è fondamentale per molti processi dell’industria chimica, ma deve avere un alto livello di purezza difficile da raggiungere tramite i classici processi di desalinizzazione. L’impianto utilizzerà particolari membrane per separare le impurità e produrre di conseguenza del cloruro di sodio puro a sufficienza, almeno nelle intenzioni dei responsabili dell’iniziativa.

Altri gruppi di ricerca si sono invece orientati verso il perfezionamento di tecniche che prevedono l’applicazione di una corrente elettrica per diluire la salamoia, in modo da poter estrarre più quantità di acqua dolce attraverso l’osmosi inversa. Ulteriori approcci prevedono invece l’impiego di solventi chimici che a basse temperature favoriscono la separazione delle molecole d’acqua dal resto, permettendo di nuovo un maggiore recupero di acqua dolce dalla salamoia.

Come ha spiegato al sito di Nature un ingegnere ambientale della Princeton University (Stati Uniti): «Per molti anni abbiamo mancato il bersaglio. Ci siamo concentrati sull’acqua come un prodotto: secondo me, l’acqua dovrebbe essere un prodotto secondario di altre risorse». L’idea, sempre più condivisa, è che per rendere economicamente vantaggiosa la desalinizzazione ci si debba concentrare sulle opportunità derivanti dallo sfruttamento delle sostanze di risulta, lasciando l’acqua dolce a tutti e senza costi. Non tutti sono però convinti della sostenibilità di questa impostazione, soprattutto per la sostenibilità in generale del settore.

I dissalatori attivi nel mondo sono circa 15-20mila con dimensioni, capacità e tecnologie impiegate che variano a seconda dei paesi e delle necessità. Si stima che dall’acqua dolce prodotta con la desalinizzazione dipendano almeno 300 milioni di persone, anche se le stime variano molto ed è difficile fare calcoli precisi. L’impatto energetico dei dissalatori è però ancora molto alto e di conseguenza il costo di ogni litro di acqua dolce prodotto in questo modo rispetto ai luoghi dove l’acqua dolce è naturalmente disponibile.

Un operaio al lavoro sui filtri di un impianto di dissalazione a San Diego, California, Stati Uniti (AP Photo/Gregory Bull)

Gli impianti per dissalare l’acqua sono generalmente più convenienti quando possono essere costruiti direttamente in prossimità delle aree dove scarseggia l’acqua dolce, ma solo in alcune parti del mondo le zone aride si trovano lungo aree costiere. Per le comunità che vivono in luoghi siccitosi lontano dai mari il trasporto dell’acqua deve essere comunque gestito in qualche modo. Ci sono quindi casi in cui è più economico trasportare acqua dolce da una fonte distante rispetto a desalinizzare quella di mare.

In futuro la desalinizzazione potrebbe riguardare una quantità crescente di persone a causa dell’aumento della salinità di alcune riserve d’acqua soprattutto lungo le aree costiere. L’aumento della temperatura media globale ha reso più intensi i processi di evaporazione in certe aree del mondo, influendo sulla concentrazione dei sali anche nei corsi d’acqua dolce. L’innalzamento dei mari, sempre dovuto al riscaldamento globale, è visto come un altro rischio per la contaminazione delle falde acquifere vicino alle coste che potrebbero aumentare le quantità di sali.

I più ottimisti sostengono che i problemi energetici legati ai dissalatori potranno essere superati grazie allo sviluppo delle centrali nucleari a fusione, che metteranno a disposizione enormi quantità di energia a una frazione dei prezzi attuali. La fusione porterebbe certamente a una riduzione del costo dell’energia senza paragoni nella storia umana, ma il suo sviluppo procede a rilento e richiederà ancora decenni, ammesso che possa mai portare a qualche applicazione tecnica su larga scala.

Invece di fare affidamento su tecnologie di cui ancora non disponiamo, gli esperti consigliano di ripensare il modo in cui utilizziamo l’acqua dolce, riducendo il più possibile gli sprechi e ottimizzando i consumi in modo da avere necessità dei dissalatori solo dove non ci sono alternative. Nelle aree esposte stagionalmente alla siccità si dovrebbero invece costruire bacini per l’accumulo e la conservazione dell’acqua piovana, per esempio, insieme a impianti per la purificazione e il riciclo delle acque reflue.

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