I leader del centrosinistra insieme al segretario della CGIL Maurizio Landini, con rappresentanti di varie associazioni, davanti alla Corte di Cassazione di Roma per depositare il quesito sul referendum abrogativo dell'autonomia differenziata, il 5 luglio 2024 (ANGELO CARCONI/ANSA)

La legge sull’autonomia differenziata ha compattato l’opposizione come mai prima d’ora

Tutti i partiti dell'area che va dal centro alla sinistra hanno aderito al referendum che punta ad abolire la riforma, tranne Azione di Carlo Calenda, che comunque l'ha apertamente criticata

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Lo scorso venerdì è stato formalmente avviato il percorso burocratico per la proposta di un referendum che ha l’obiettivo di abolire la legge sull’autonomia differenziata, approvata in via definitiva dalla maggioranza di destra il 19 giugno scorso: siamo ancora in una fase molto preliminare e ci vorranno diversi mesi per capire se il referendum si farà davvero. Nel frattempo però questa proposta ha fatto emergere un dato politico interessante e non scontato, perché la contrarietà all’autonomia differenziata è stata fin qui uno dei rarissimi temi – e forse l’unico, da quando è in carica il governo di Giorgia Meloni – su cui tutti i partiti di opposizione si sono trovati d’accordo (uno di questi però, Azione di Carlo Calenda, non ha fin qui appoggiato la proposta di referendum).

L’autonomia differenziata è la riforma che consente alle regioni di chiedere al governo l’assegnazione di funzioni finora svolte dallo stato centrale. Venerdì il segretario della CGIL Maurizio Landini ha depositato alla Corte di Cassazione a Roma il quesito referendario con cui si vorrebbe abrogare la riforma, e con lui c’erano esponenti di quasi tutti i partiti che non sostengono il governo di Giorgia Meloni: la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, i leader di Alleanza Verdi e Sinistra Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, il segretario di Più Europa Riccardo Magi e Maria Elena Boschi di Italia Viva. Tutti, dunque, con la sola eccezione di Azione di Carlo Calenda, che ha comunque espresso critiche nette alla riforma.

Per dare seguito all’iniziativa e fare in modo che si possa arrivare al referendum, i promotori dovranno ora raccogliere almeno 500mila firme entro il 30 settembre. Nel frattempo la Corte di Cassazione, tramite un apposito ufficio, ha trenta giorni per dichiarare la legittimità del quesito; dopodiché sarà la Corte Costituzionale a doverne confermare l’ammissibilità, entro il 20 gennaio 2025. Solo allora, eventualmente, il governo e il presidente della Repubblica potranno indire il referendum, che dovrà svolgersi nel caso tra il 15 aprile e il 15 giugno del 2025.

Il percorso è dunque ancora lungo e complesso, e il deposito del quesito non ne costituisce che l’avvio, ma è comunque politicamente rilevante che intorno all’autonomia si sia raggruppato un fronte dell’opposizione ampio e plurale come non era quasi mai successo finora. L’unico precedente paragonabile fu la campagna dello scorso autunno per l’introduzione del salario minimo legale in Italia, cioè una legge che stabilisse una soglia minima per le paga oraria di tutti i lavoratori. In quel caso però Italia Viva non sostenne l’iniziativa unitaria, su cui non era molto d’accordo (mentre sull’autonomia Calenda e il suo partito non sarebbero contrari a votare favorevolmente in un eventuale referendum).

A questa unitarietà dell’opposizione nel Partito Democratico danno una certa enfasi. Il progetto di federare il cosiddetto “campo largo”, come viene spesso chiamata una vasta alleanza delle forze progressiste e riformiste, è un obiettivo dichiarato da parte di Schlein, che non a caso dopo le elezioni europee di inizio giugno ha avviato una serie di colloqui anche con gli esponenti del centro con cui il dialogo negli anni passati è stato più complicato, e cioè Matteo Renzi e lo stesso Calenda. «Mi pare significativo che, anche al di là delle varie divergenze su singoli temi, su una questione così decisiva per il paese, il fronte dell’opposizione si sia ritrovato compatto. È un dato politico estremamente rilevante che fa ben sperare per il futuro. Essere stati testardamente unitari, paga», dice il deputato Marco Sarracino, responsabile del Sud nella segreteria di Schlein.

La segretaria del PD Elly Schlein e il presidente del M5S Giuseppe Conte davanti alla Corte di Cassazione, il 5 luglio 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

È un segnale ancora parziale, ovviamente, che non basta per far pensare a una effettiva riconciliazione delle varie componenti dei partiti di opposizione, tra i quali ci sono ancora grosse divisioni su molte questioni. Mentre i rappresentanti delle varie associazioni che fanno parte del comitato promotore del referendum si mettevano in posa per una foto di gruppo davanti alla sede della Cassazione, per esempio, c’è stato chi ha ironizzato bonariamente sulla vicinanza di Boschi (una delle esponenti più importanti di Italia Viva) e Landini (a capo della CGIL), visto che nel frattempo proprio la CGIL sta promuovendo un referendum abrogativo del Jobs Act, la legge sul lavoro che è uno dei simboli del governo Renzi, e tuttora rivendicata dal leader di Italia Viva. A chi gli ha fatto notare questa stranezza, Renzi ha risposto scherzosamente dicendo che «non era facile», ma Meloni è riuscita a compattare davvero un fronte dell’opposizione che va da lui a Landini.

– Leggi anche: Ci conviene davvero l’autonomia differenziata?

Si è invece rivelato più difficile il tentativo di Schlein di coinvolgere anche Calenda in questa iniziativa referendaria. La segretaria del PD si era detta ottimista al riguardo con alcuni suoi parlamentari, dopo aver avuto un primo colloquio col leader di Azione. E invece alla fine Calenda si è sfilato, anche per il timore che la componente più di destra e più nordista del suo partito, quella composta dagli ex esponenti di Forza Italia e guidata da Mariastella Gelmini, rompesse con Azione. «Ci ritroveremmo a fare la campagna referendaria con Conte e Fratoianni», aveva messo in guardia l’ex ministra per gli Affari regionali. E anche per questo Calenda – il quale pure sa che molti dirigenti locali di Azione, soprattutto al Sud, com’è successo in queste ore in Puglia, sosterranno l’iniziativa del referendum – alla fine ha mantenuto una posizione neutra e un po’ ambigua, chiedendo al governo di ritirare di sua spontanea volontà la riforma sull’autonomia appena approvata dal parlamento.

Anche il protagonismo di Landini sul referendum è stato motivo di qualche malumore. Il segretario della CGIL si è intestato un po’ la paternità del deposito del quesito, in questa prima fase, ma è convinzione generale che per rendere l’iniziativa referendaria più trasversale e condivisa possibile sia opportuno evitare che questa sia troppo schierata a livello ideologico, come sarebbe nel caso in cui il sindacato di sinistra acquisisse la guida del comitato promotore. Anche per questo, con ogni probabilità la sede del comitato non sarà, come si era inizialmente ipotizzato, presso la CGIL in Corso Italia a Roma, ma verrà ospitata dalla Lega delle autonomie locali (ALI), l’associazione dei comuni e delle amministrazioni locali, presieduta dall’europarlamentare del PD Matteo Ricci, che promuove il federalismo solidale: quindi un’associazione che non è contraria a priori al concetto di autonomia, ma che ne chiede un’attuazione prudente e che non esasperi i divari tra le aree più ricche e quelle più disagiate.

La deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi e il leader dei Verdi Angelo Bonelli partecipano al deposito del quesito referendario (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Meloni avrà così opposto a questa legge un blocco molto vasto, composto da partiti, sindacati e da alcune decine di associazioni, su un tema che ha dimostrato di essere piuttosto sentito a livello popolare e che ha generato grosse polemiche. La cosa è per certi versi ancor più notevole se si considera che lei stessa ha favorito l’approvazione di questa riforma senza mai mostrarsene davvero entusiasta. L’autonomia differenziata era infatti uno degli obiettivi principali della Lega di Matteo Salvini, e il ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli, leghista, ne è stato il promotore. Fratelli d’Italia (il partito di Meloni e il più rappresentato in parlamento) è anzi più volte intervenuto al Senato, nei mesi scorsi, per limitare alcuni aspetti della riforma e per rendere più lenta e complessa la sua effettiva attuazione.

Anche sul salario minimo Fratelli d’Italia aveva dimostrato di soffrire un po’ l’ostilità dei partiti di opposizione compatti, e aveva dovuto adottare vari stratagemmi parlamentari per rallentare prima e rinviare poi la discussione. In ogni caso l’aver raggruppato intorno alla proposta di referendum abrogativo un vasto fronte di centro e centrosinistra è solo un primo parziale risultato per il PD e per il comitato promotore. L’obiettivo finale, quello cioè di cancellare la riforma voluta da Calderoli, resta assai difficile.

Perché un referendum abrogativo sia valido, infatti, non basta che i voti a favore dell’abrogazione siano maggiori di quelli contrari, ma serve che vada a votare più della metà degli elettori. Cioè, grosso modo, 25,6 milioni di persone. Dovrebbero dunque andare a votare più degli italiani che hanno votato alle elezioni europee di inizio giugno, quando l’affluenza è stata del 48,3 per cento. Sempre facendo un raffronto un po’ approssimativo con le europee, emerge come i partiti che hanno aderito al comitato referendario abbiano ottenuto nel complesso poco più di 10,5 milioni di voti: dovrebbero dunque convincere ad andare a votare al referendum ben più del doppio dei loro attuali elettori.

Ma anche prima che si arrivi a quel punto ci saranno altri passaggi delicati e decisivi per la campagna referendaria. Prima la Cassazione e poi la Corte Costituzionale dovranno infatti esprimersi sull’ammissibilità del referendum. Sono giudizi mai scontati, perché devono tenere conto sia della correttezza formale del quesito (se, cioè, è scritto bene e in modo comprensibile), sia degli effetti che l’abrogazione della legge produrrebbe, se cioè lascerebbe dei vuoti normativi, se creerebbe delle contraddizioni con altre norme esistenti e se queste sarebbero poi compatibili con la Costituzione, eccetera. La riforma di Calderoli sull’autonomia differenziata è un testo molto articolato, con vari rimandi ad altre leggi ordinarie e costituzionali: dunque l’esito delle valutazioni della Cassazione e della Corte Costituzionale non sarà banale.

Il ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti alla Camera dei deputati, il 3 aprile 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

A tutto questo si aggiunge il fatto che tecnicamente la riforma dell’autonomia è un “collegato” alla legge di Bilancio, come si dice in gergo: il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, della Lega, aveva cioè deciso di inserirla nell’autunno scorso nella lista di quei provvedimenti che hanno una relazione diretta con le risorse stanziate dalla finanziaria per l’anno seguente. Fu un piccolo escamotage legislativo che aveva permesso al parlamento di occuparsi di autonomia anche nella sessione di bilancio tra ottobre e dicembre: quella durante la quale, secondo la legge, le camere dovrebbero occuparsi in via pressoché esclusiva della legge di bilancio, appunto. Ora però quell’escamotage potrebbe avere conseguenze sulla proposta di referendum, perché la Costituzione, all’articolo 75, proibisce i referendum che intendano abrogare «leggi tributarie e di bilancio».

C’è dunque un certo dibattito tra giuristi di diverso orientamento per stabilire se per un collegato alla legge finanziaria com’è la riforma dell’autonomia vada considerato inapplicabile il referendum.

È anche per aggirare questo ostacolo che il centrosinistra ha deciso di coinvolgere le regioni governate da giunte progressiste. Un referendum abrogativo può essere chiesto anche da cinque Consigli regionali, oltre che da 500mila cittadini con la propria firma. Lo ha fatto lunedì sera il Consiglio della Campania e lo faranno nei prossimi dieci giorni i Consigli di Emilia-Romagna, Toscana, Sardegna e Puglia (le altre regioni governate da giunte di centrosinistra), ma proponendo un duplice quesito. Il primo, che ricalcherà quello già depositato venerdì in Cassazione, chiederà l’abrogazione totale della legge; un altro, invece, conterrà delle richieste di abrogazione parziale limitate ad alcuni punti della riforma. L’obiettivo di questo secondo quesito è rendere l’attuazione dell’autonomia differenziata ancora più subordinata alla definizione dei LEP, i livelli essenziali delle prestazioni che bisogna garantire su tutto il territorio nazionale.

La riforma di Calderoli prevede infatti che, prima che una regione possa contrattare per chiedere maggiore autonomia su certe materie, lo Stato individui i LEP, cioè i servizi pubblici essenziali che vanno garantiti in tutte le aree del paese, a seconda delle esigenze di ciascuna regione. Prima dunque di assegnare al Veneto maggiore autonomia sulle politiche dei trasporti, per esempio, lo Stato deve stabilire con quale frequenza devono transitare gli autobus nei centri urbani o nei paesi di campagna anche in provincia di Potenza, in Basilicata, e poi deve stanziare le risorse necessarie per assicurare l’erogazione effettiva di questi servizi. Questo vale non solo per i trasporti, ovviamente, ma per almeno 14 delle 23 materie su cui le regioni possono richiedere maggiori poteri, seguendo un iter istituzionale e burocratico che comunque richiederà verosimilmente anni prima di produrre effetti concreti.

Su altre 9 materie, le meno importanti, non è necessario stabilire i LEP prima di avviare i negoziati tra regioni e governo. Il secondo quesito referendario che voteranno i Consigli regionali, dunque, servirà tra l’altro proprio a rimuovere questa distinzione, e subordinare tutto il percorso di richiesta di autonomia alla definizione dei LEP, bloccando di fatto per anni il progetto.

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