Quanti sono i brevetti europei e chi li chiede
I loro effetti su ricerca e innovazione sono assai dibattuti dagli studiosi di economia, perché tutelano le aziende ma allo stesso tempo possono generare distorsioni
Lunedì è stata inaugurata in centro a Milano la nuova sede del Tribunale Unificato dei Brevetti (TUB), una delle tre divisioni centrali del tribunale europeo di primo grado che regola le controversie in materia di innovazione e proprietà intellettuale. Come succede in questi casi c’era stata un’accesa competizione tra i paesi europei per aggiudicarsi l’assegnazione della sede, ma l’inaugurazione del nuovo tribunale è importante per un altro motivo: rappresenta uno dei passaggi finali di una lunga e complessa riforma di tutto il meccanismo europeo di concessione dei brevetti, pensata per alleggerire la burocrazia e i costi per chi vuole chiederne uno.
I brevetti sono infatti il metodo più diffuso per proteggere la proprietà intellettuale e le invenzioni: sono dunque un’importante spinta alla ricerca e alla modernizzazione, che i governi vogliono incentivare per garantire sviluppo e crescita economica nel lungo termine. I dati su quanti brevetti sono depositati ogni anno sono peraltro un indicatore della capacità di un paese di innovare e crescere: fanno capire quali sono le aziende che ne depositano di più, da quali paesi provengono, in quali settori operano. Per questo, e per alcune distorsioni che si portano dietro, i brevetti sono da tempo oggetto di dibattito nella teoria economica.
Un brevetto è la garanzia legale fornita da uno stato a chi ha inventato qualcosa. Si può brevettare qualsiasi cosa, dalla più concreta, come un prodotto di consumo o un farmaco, alla più astratta, come un nuovo metodo di produzione o un software o addirittura un gesto. Per ottenere un brevetto l’inventore deve aver creato qualcosa di effettivamente nuovo: non si possono brevettare scoperte su fenomeni fisici, per esempio.
Con il brevetto l’inventore detiene la possibilità di fare un uso esclusivo della sua invenzione, per esempio di commercializzarla, o di venderne i diritti a qualcun altro. Prendiamo il caso di un’azienda farmaceutica che sviluppa un nuovo farmaco innovativo e lo brevetta: sarà l’unica a poterlo commercializzare fino alla scadenza della tutela. La tutela di un brevetto ha infatti una durata limitata, che può essere fino a 20 anni.
Secondo la maggior parte degli economisti, l’esistenza dei brevetti è uno dei più grandi incentivi all’innovazione: le aziende investono nella ricerca e nello sviluppo di nuove cose nella speranza di garantirsi profitti certi in futuro, e la possibilità di brevettare le nuove invenzioni garantisce a chi le inventa di beneficiare dei risultati in via esclusiva. Tornando all’esempio dell’azienda farmaceutica, sarà praticamente monopolista della vendita del nuovo farmaco fino alla scadenza del brevetto: in questo modo avrà il tempo per vendere così tanti farmaci da garantirsi di rientrare economicamente degli anni di investimenti che ha dedicato allo sviluppo del nuovo prodotto. Se non ci fossero i brevetti, le altre società concorrenti potrebbero replicare il farmaco non appena questo entrasse in commercio, e dunque appropriarsi dei risultati di un investimento non loro. In gergo economico questo fenomeno di appropriazione si chiama free-riding.
I brevetti sono dunque molto convenienti per le aziende che tutelano, ma ottenerli non è semplice. Innanzitutto perché hanno una valenza locale, quindi solo dove sono registrati: significa che di un’invenzione registrata in Italia – dove è competente l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi – non potranno avvalersi le aziende concorrenti operanti in Italia, ma potranno farlo quelle all’estero. Per ovviare a questo esistono anche i brevetti con effetti internazionali, cioè che valgono in più stati, ma le procedure per ottenerli possono essere lunghe e cambiano da paese a paese: in buona parte dei casi alla fine le imprese si trovano a dover registrare la propria invenzione in tutti i singoli stati in cui vogliono la tutela.
Fino a un anno fa le cose erano piuttosto complicate anche in Unione Europea. Esisteva soltanto una sorta di “brevetto europeo”, che altro non era che una procedura semplificata per ottenere una tutela nei 39 paesi (alcuni dell’Unione Europea e altri esterni) che avevano aderito alla Convenzione sul brevetto europeo del 1973. Questi paesi però mantenevano la giurisdizione sull’assegnazione e la violazione dei brevetti nei singoli stati: la procedura era unica, ma bisognava comunque ottenere 39 singole convalide, dunque avere a che fare con 39 uffici diversi e pagare 39 quote per il rinnovo del brevetto.
Per questo da anni si discuteva della necessità di una riforma del sistema. È stato così introdotto il meccanismo del “Brevetto europeo con effetto unitario” (European patent with unitary effect, EPUE): venne approvato nel 2013 e firmato dalla maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, ma è entrato in vigore solo nel 2023 a causa di una serie di lungaggini nelle ratifiche. Serve ad armonizzare le procedure per richiedere un brevetto nei paesi europei, e proteggerlo da eventuali appropriazioni indebite. Viene rilasciato da un unico ufficio, l’Ufficio europeo dei brevetti (European Patent Office, EPO), e attraverso il pagamento di un’unica tassa di rinnovo consente di ottenere contemporaneamente la protezione in 17 paesi dell’Unione, senza le convalide nazionali: sono Belgio, Bulgaria, Danimarca, Germania, Estonia, Francia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Austria, Portogallo, Slovenia, Finlandia e Svezia. Da settembre si aggiungerà poi la Romania, e l’accordo rimane aperto per qualsiasi altro paese europeo voglia entrarci.
Il nuovo meccanismo prevede anche l’istituzione di un sistema di tribunali per regolare le controversie che possano sorgere: la cosiddetta Corte di prima istanza ha la sezione centrale a Parigi e quelle distaccate a Monaco di Baviera e a Milano, appunto. La Corte di appello si trova in Lussemburgo. Il brevetto europeo con effetto unitario, comunque, si affianca al vecchio brevetto europeo e a quelli nazionali, e non li sostituisce (altrimenti non sarebbe possibile chiedere una protezione fuori dai 17 paesi in cui è valido).
Da quando sono entrati in vigore al 2 luglio 2024 sono stati chiesti 30.425 brevetti europei con effetto unitario, e ne sono stati rilasciati 29.671, di cui 1.592 di origine italiana, pari al 5,4 per cento di tutti i brevetti concessi. L’Italia è al sesto posto per origine dei richiedenti e terza tra i paesi dell’Unione Europea (dopo Germania e Francia).
I dati sui brevetti con effetto unitario non restituiscono ancora una tendenza consolidata, perché questo tipo di strumento esiste da troppo poco tempo. Per vedere la composizione delle richieste conviene quindi guardare le richieste dell’ancora molto usato brevetto europeo, i cui dati a disposizione si fermano però al 2022. In quell’anno furono più di 193mila le richieste di brevetti e gli Stati Uniti furono il paese che ne fece di più. L’Italia fu l’undicesimo paese per numero di richieste.
Se si rapporta il numero delle richieste con la dimensione della popolazione la classifica cambia parecchio: è la Svizzera il paese con più richieste di brevetti ogni milione di abitanti, seguita da Svezia, Danimarca, Paesi Bassi e Finlandia. Gli Stati Uniti sono solo al quattordicesimo posto, la Germania al sesto, il Giappone al dodicesimo e la Cina al trentaquattresimo.
I settori più rappresentati tra le richieste complessive sono il digitale, le tecnologie mediche e l’informatica, che insieme compongono quasi un quarto di tutte le richieste.
I dati dell’Ufficio europeo dei brevetti mostrano anche quali sono le società che hanno presentato più richieste: la prima è l’azienda tecnologica cinese Huawei, seguita dalla coreana LG e dalla società di semiconduttori statunitense Qualcomm. Tra le prime venti 8 sono asiatiche, 6 statunitensi e 6 europee.
Ma c’è anche tutta una serie di questioni economiche, etiche, tecnologiche e sociali che i brevetti pongono, su cui la teoria economica si interroga da tempo. Partiamo da quelle etiche, riprendendo l’esempio del nuovo farmaco.
Il brevetto metterebbe l’azienda che l’ha sviluppato in una condizione di monopolio, in cui non ha concorrenti, e dunque questa potrebbe fissare anche un prezzo molto alto per garantirsi ampi margini di guadagno, escludendo chi non può permettersi di pagarlo dall’accesso alla cura. L’opportunità di mantenere i brevetti sui farmaci era per esempio emersa quando furono sviluppati i vaccini contro il coronavirus, che richiesero un grande impegno e investimento da parte delle aziende farmaceutiche: allora i governi – soprattutto quello statunitense – temevano che la tutela della proprietà intellettuale avrebbe finito per rallentare la produzione e le campagne vaccinali di tutto il mondo. Si discusse molto sulla possibilità di sospenderli in virtù dell’eccezionalità della pandemia, ma la decisione fu infine quella di mantenerli.
I brevetti pongono poi alcune questioni economiche su cui non c’è consenso tra gli economisti. La prima è se siano un incentivo davvero funzionale all’innovazione. Secondo una parte degli economisti i brevetti compromettono eccessivamente la concorrenza tra imprese, a danno dell’innovazione complessiva: in quest’ottica l’impossibilità di competere in un settore protetto da brevetto scoraggia l’ingresso di nuove aziende e la creazione di un mercato concorrenziale, in cui sarebbe proprio la competizione tra imprese a fare da stimolo a innovare ulteriormente.
Per questo numerosi studi si concentrano anche su quale sia la durata ottimale dei brevetti, quella cioè che consenta di bilanciare benefici e svantaggi: facendo da incentivo per le imprese che devono decidere o meno se investire nella ricerca, ma che non sia così lunga da ostacolare del tutto la concorrenza.
C’è poi un tema di efficienza degli investimenti: mentre secondo alcuni i brevetti sono un incentivo essenziale per convincere le aziende a innovare, secondo altri la prospettiva di una tutela così ampia per le proprie invenzioni porta le società a essere poco oculate negli investimenti, sia in termini di risorse impiegate che in termini di processi. Con la consapevolezza di ambire a un brevetto che la porterà in una posizione di monopolio, di fatto un’impresa rischia di spendere cifre enormi in ricerche che talvolta non sono neanche condotte in modo efficiente. In più dal punto di vista della società nel suo complesso la ricerca spinta dal brevetto non è affatto ottimale: secondo una parte di studiosi la “corsa” al brevetto può portare molte aziende a fare gli stessi studi, con investimenti replicati da parte di tutte le imprese che li conducono. Insomma, lo sforzo economico aggregato rischia di essere così elevato da superare il beneficio sociale dell’innovazione.
Un’altra questione riguarda la cosiddetta “distruzione creativa”, un concetto elaborato dall’economista austriaco Joseph Schumpeter nella prima parte del Novecento, che mise in guardia sul fatto che l’innovazione ha dei costi, anche quella incentivata tramite i brevetti: sebbene sia auspicabile per la collettività, l’obsolescenza di vecchi processi e vecchi prodotti rappresenterà per forza di cose un danno per qualcuno. Un esempio di attualità è la crescente diffusione dell’intelligenza artificiale in alcuni settori, di cui si parla moltissimo per l’enorme perdita di posti di lavoro che potrebbe generare in futuro. L’innovazione, secondo gran parte della teoria economica, va dunque governata, e non solo incentivata.