I curriculum sono diventati obsoleti?
Per certi versi sì, soprattutto quelli di formati standard e poco originali, perché dicono poco di quello che le aziende vogliono davvero sapere
Il processo di candidatura e selezione per chi cerca lavoro nelle aziende, dalle multinazionali alle startup, è diventato negli anni sempre più articolato, tra compilazione di moduli online, scrittura di lettere motivazionali, registrazione di brevi video di presentazione, compilazione di test e prove, e colloqui a distanza e di persona. In tutto questo processo la scrittura del curriculum è solo una delle tante cose che chi cerca lavoro si trova a dover fare, e la percezione generale è che non sia più importante come un tempo.
Un po’ c’entra la diffusione di Linkedin, che è di fatto un curriculum online molto essenziale, e di altre piattaforme che le aziende usano per organizzare le candidature e le informazioni sui candidati. Un po’ c’è il fatto che chi lavora nelle risorse umane ammette che il tempo dedicato alla lettura dei curriculum (o curricula, ma al Post siamo per l’invariabilità delle parole non italiane tra singolare e plurale) è spesso di pochi secondi l’uno, soprattutto quando sono nel cosiddetto “formato europeo” e con pochi guizzi. L’idea stessa di valutare una persona dall’elenco dei ruoli e delle aziende per cui ha lavorato in passato comincia inoltre a essere un po’ obsoleta e poco adatta agli approcci più innovativi alle risorse umane, che si concentrano invece su cose che è più difficile inserire in un curriculum, come le capacità effettivamente acquisite facendo certi lavori. Allo stesso tempo però, almeno in Italia, chiedere il curriculum è ancora un’abitudine radicata e tra i reclutatori ce ne sono ancora molti che sostengono che, se ben fatto, può tornare molto utile.
«Il selezionatore che riceve 200 o 300 curriculum per volta, ci dedica magari 25 secondi ma li legge: hanno ancora il loro valore e la loro importanza», dice Marco Fusaro, direttore di PageGroup, multinazionale che si occupa di reclutamento di personale e che ha a che fare con numerose aziende. Manuela Vergano, direttrice di Hays, altra multinazionale che si occupa di reclutamento di risorse umane molto presente in Italia, parla di un tempo di lettura ancora inferiore, di 8 secondi, ma aggiunge che «da come viene redatto un curriculum si capiscono tante cose: se fatto con creatività racconta qualcosa».
Nella maggior parte dei casi oggi le aziende che pubblicano un annuncio di lavoro fanno compilare un modulo online più o meno lungo, in cui i candidati devono inserire manualmente informazioni su di sé e sulle proprie esperienze pregresse, e in alcuni casi rispondere a domande più articolate. Questo serve alle aziende per organizzare nello stesso database i profili e le risposte dei candidati, ma alla fine di tutto viene comunque quasi sempre chiesto di caricare il curriculum.
Il curriculum continua a essere chiesto anche quando offerta e candidatura avvengono su Linkedin, dove le persone in cerca di lavoro hanno solitamente un profilo aggiornato e completo che potrebbe sostituirlo. «Alcune aziende usano una funzione di Linkedin che permette di inviare una candidatura veloce, quindi al candidato basta fare click e all’azienda arriva la candidatura con le informazioni del suo profilo, ma da quello che vedo io, dopo il primo contatto, viene comunque chiesto il curriculum», dice Fusaro.
Secondo alcune persone del settore delle risorse umane sentite dal Post c’entra sicuramente un po’ di abitudine, che porta le aziende a continuare a chiedere il curriculum anche quando potrebbero farne a meno e anche se sanno che non ci daranno poi così tanta importanza. Anche perché alle aziende non costa niente chiederlo e le persone sono abituate ad averlo pronto quando cercano lavoro. Secondo Simona Vella, che si occupa di risorse umane in un’azienda con oltre 5mila dipendenti in tutto il mondo, «il fatto che le aziende ancora lo chiedano non significa che non si vada verso un suo superamento, ma se mai che c’è un po’ di resistenza al cambiamento: come spesso succede il mondo va più veloce».
Un tempo, infatti, i nomi di grandi aziende o università pesavano molto quando si valutava un candidato, ma adesso le cose sono un po’ cambiate. «Siamo sicuri che il blasone della azienda da cui arrivi valga di più del racconto di quello che hai imparato in un’azienda magari più piccola e meno conosciuta, ma dove le tue capacità sono state messe maggiormente alla prova? I grossi nomi una volta pesavano tanto sul curriculum, ma ora pesa di più il cosiddetto skill set (cioè l’insieme delle competenze acquisite, ndr) e vale la pena chiedersi come questo influirà sul curriculum. Avrà ancora senso raccontarsi solo come una sequenza di esperienze? Io penso che a tendere la risposta sia no, ma siamo ancora lontani, sicuramente in Italia».
Più dei ruoli che si sono ricoperti e delle aziende in cui si è lavorato, l’attenzione si sta spostando su cosa il candidato ha imparato facendo certi lavori: «per capirci, si guarda molto concretamente alle cose che sai fare, che possono essere anche tante e diverse ed essere impiegate in un ruolo diverso da quello che ricoprivi prima», dice Vella. Sono però cose che è difficile capire solo da un curriculum, specialmente se organizzato in modo standard come appunto quelli in formato europeo. Tutte le persone con cui ha parlato il Post, sia nel mondo degli head hunter (professionisti o agenzie che si occupano di reclutare possibili candidati per le aziende) che delle aziende, sostengono che il curriculum può ancora raccontare qualcosa di interessante sulla persona, ma che questo avviene difficilmente se si usano modelli preimpostati che lasciano poco spazio all’espressione di sé e alla creatività.
Se compilati accuratamente inoltre i curriculum in formato europeo possono diventare anche molto lunghi, cosa che va contro la prima regola universalmente riconosciuta per un buon curriculum: far rientrare tutto in una pagina, due al massimo, per andare incontro il più possibile alla persona che lo leggerà e che come dicevamo ha spesso pochissimo tempo a disposizione per farlo. Le prime informazioni a saltare sono quelle che riguardano lavori fatti da molto giovani e irrilevanti per quello che si vuole fare, come il bagnino, la babysitter o il volantinaggio.
L’altro consiglio degli esperti è di evitare formule abusate e che hanno ormai perso di senso. È il caso per esempio di chi si vanta di saper «lavorare in team» o di essere un «problem solver», o di aver sviluppato il «pensiero laterale». Lo stesso vale per la citazione di competenze che da anni vengono date per scontate, come l’uso del pacchetto Microsoft Office. «Se sei un professionista non puoi iniziare il curriculum dalle elementari», dice Fusaro, «devi mettere in alto l’ultima esperienza e la migliore, i dati personali e le competenze linguistiche».
Una cosa che probabilmente succederà sempre di più nei prossimi anni, e che contribuirà a rendere i curriculum sempre meno interessanti per i reclutatori, è che sarà sempre più facile farli fare ai programmi di intelligenza artificiale. «In alcuni annunci di lavoro si comincia a chiedere espressamente di non mandare curriculum fatti con questi programmi e che piuttosto è meglio mandarli imperfetti o con errori», racconta Vella. Negli ultimi anni nel settore delle risorse umane si è cominciato a insistere molto sull’utilità che avrebbero avuto programmi innovativi nella fase di scrematura dei curriculum, e questo ha portato di conseguenza anche le persone a scriverli rispettando certe regole o usando determinate parole chiave per passare la scrematura automatica. Sono tutte cose che vanno a discapito della personalizzazione dei curriculum, che è invece la cosa principale che sembra ancora interessare chi si trova a valutarli.
In Italia siamo ancora lontani, ma alla lunga un approccio più “olistico” ai candidati potrebbe portare anche a cambiare drasticamente il modo in cui viene chiesto loro di raccontarsi: un’ipotesi è quella di sostituire il curriculum con un portfolio di progetti e cose che si sono imparate. «Sono informazioni che solitamente vengono fuori durante colloqui ben fatti», dice Vella, «ma che le aziende potrebbero avere interesse a valutare prima di incontrare la persona, se si diffondesse uno strumento utile per farlo». Questo approccio è già abbastanza diffuso nelle grandi aziende di consulenza, che tendono spesso a dare più importanza ai progetti fatti che non ai ruoli ricoperti.
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