Storia di un grosso naufragio al largo della Calabria di cui non si è quasi parlato
A metà giugno circa 70 migranti sono morti sulla stessa rotta del naufragio di Cutro: quello che è successo dopo ha spinto qualcuno a sostenere che il governo abbia voluto evitare un altro caso mediatico
di Luca Misculin
Lunedì 17 giugno una barca a vela di turisti francesi che stava navigando nel Mediterraneo orientale ha notato un’altra barca a vela, semiaffondata, a circa 150 chilometri di distanza dall’isola greca di Zante, e 250 dalle coste della Calabria. A bordo della barca a vela semiaffondata c’erano 12 persone migranti. Erano soltanto una piccola parte di quelle che erano partite una settimana prima da Bodrum, in Turchia. Fra i corpi recuperati nei giorni successivi e le persone disperse si stima che in tutto siano morte nella traversata circa 70 persone.
Questi numeri rendono il naufragio della barca individuata il 17 giugno il più grave degli ultimi anni sulla rotta fra la Turchia e la Calabria dopo quello avvenuto a Cutro, in provincia di Crotone, fra il 25 e il 26 febbraio 2023, nel quale morirono 98 persone. Eppure la copertura della notizia sui giornali italiani non è stata troppo ampia (sul Post ce ne siamo occupati con tre articoli, e un quarto su un presunto stupro avvenuto durante la traversata). Il naufragio di Cutro invece occupò per giorni le prime pagine di tutti i giornali e spinse addirittura il governo a tenere un Consiglio dei ministri di emergenza a Cutro, con annessa una disastrosa conferenza stampa.
Diverse persone che si sono occupate dell’accoglienza e dei bisogni dei familiari dei morti che nei giorni scorsi sono arrivati a Roccella Ionica accusano il governo di essere intervenuto in diversi modi per evitare che il naufragio del 17 giugno diventasse una storia dalle dimensioni paragonabili a quello di Cutro, quindi potenzialmente dannoso per il governo.
Il governo ha respinto informalmente queste accuse. A una minore copertura dei giornali hanno probabilmente contribuito anche altri fattori, più intangibili e legati alle circostanze del naufragio.
Stando ai primi racconti delle persone sopravvissute, la barca a vela era partita il 10 giugno da Bodrum, in Turchia. Quella fra le coste turche e la Calabria è una rotta nota da anni, anche se dai numeri più contenuti rispetto a quelle che partono dal Nord Africa. Nel 2023 sono arrivati via mare in Calabria 13.202 migranti: un numero più basso rispetto al 2022, quando furono circa 18mila, ma più alto rispetto ai 9.600 arrivi del 2021. Non sappiamo esattamente quante persone siano partite e mai arrivate: la rotta è così lunga e il tratto di mare così pericoloso che alcune barche semplicemente spariscono senza lasciare traccia.
Di solito il viaggio è organizzato da trafficanti di esseri umani che lavorano in Turchia. Le barche sono in condizioni migliori rispetto a quelle che partono dalla Libia e dalla Tunisia; alla guida molto spesso ci sono skipper e marinai esperti, che scappano poco prima di arrivare nei pressi delle coste calabresi. A bordo di queste navi ci sono «tante famiglie e tantissimi minori non accompagnati», notava il giornalista Antonio Maria Mira su Avvenire qualche mese fa: «Le nazionalità sono sempre le stesse: Afghanistan, Iran, Iraq, Siria, Curdi[stan], Egitto».
Anche a bordo della barca a vela partita da Bodrum il 10 giugno c’erano a bordo soprattutto famiglie di persone irachene, afghane e iraniane con vari bambini al seguito e alcune donne incinte. Dalle poche informazioni che abbiamo, nei primi due giorni la barca aveva navigato per centinaia di chilometri passando accanto alle isole Cicladi ed entrando nel mare Ionio a nord dell’isola di Creta. La navigazione era stata da subito molto complicata per la scarsità di cibo e acqua e per la presenza a bordo di bambini, alcuni anche molto piccoli.
Poi il 13 giugno la nave aveva avuto un guasto. Le persone superstiti hanno raccontato di un forte rumore proveniente dalla stiva: qualcuno ha ipotizzato un guasto al motore.
Da quel momento la barca a vela era finita alla deriva, sotto il sole estivo e in balia delle onde. Molte persone erano semplicemente morte per la fame e la fatica, in attesa dei soccorsi. A un certo punto, si pensa fra il 15 e il 16 giugno, la barca si era capovolta gettando in acqua i sopravvissuti. Alcuni sono rimasti agganciati al relitto fino all’arrivo dei soccorsi, il 17 giugno. Altri hanno resistito un po’, poi si sono lasciati andare, e sono stati portati via dalla corrente.
«Da quando la barca ha iniziato ad avere problemi ho visto morire ogni giorno tra le 10 e le 15 persone», ha detto una delle persone soccorse secondo una testimonianza raccolta dal TGR Calabria. «Abbiamo visto avvicinarsi molte imbarcazioni, ma nessuna ci è venuta a soccorrere», ha raccontato al Corriere della Sera un 20enne curdo.
Non è chiaro esattamente quando e come le persone sulla barca a vela abbiano chiesto soccorso a chi stava sulla terraferma.
Alarm Phone, il centralino per migranti in difficoltà in mare gestito 24 ore su 24 dall’omonima ong, ha raccontato di avere ricevuto una prima telefonata da alcuni familiari delle persone a bordo nel pomeriggio del 16 giugno. I familiari avevano perso i contatti con la barca il 13 giugno. Alarm Phone dice di avere avvisato la Guardia Costiera italiana del possibile naufragio della barca a vela alle 16.44 del 16 giugno. La Guardia Costiera italiana però si è mobilitata soltanto il giorno successivo, lunedì 17 giugno, dopo avere ricevuto una segnalazione da una piccola barca francese che si era imbattuta nella barca a vela, ormai ferma in mezzo al Mediterraneo e lontana decine di chilometri dalla costa più vicina.
Le 12 persone superstiti sono state soccorse dalla piccola imbarcazione francese. Sono state prima trasbordate su una nave mercantile che passava nei paraggi e infine sulla motovedetta CP305 della Guardia Costiera italiana. Una donna fra le 12 persone sopravvissute è morta mentre si trovava a bordo della CP305. Le altre 11 sono invece state portate nel porto di Roccella Ionica, in provincia di Reggio Calabria. Le immagini dello sbarco diffuse da RaiNews mostrano persone a malapena in grado di muoversi, con la pelle bruciata dal sole.
«I nostri operatori e quelli di Croce Rossa non si aspettavano di trovare le persone in quello stato», racconta Cecilia Momi, un'operatrice di Medici Senza Frontiere che lavora nel punto di assistenza per migranti che l'ong ha aperto a Roccella Ionica nel 2022. «Non ci era stato comunicato un evento di naufragio, ma solo un semplice sbarco. Tutte le 11 persone sopravvissute riportavano complicazioni sanitarie e sono state ospedalizzate. Avevano ustioni da esposizione prolungata al sole, ustioni da contatto col carburante, traumi ad arti e busto», dice Momi.
Nel momento in cui è stata individuata, la barca a vela semiaffondata si trovava all'interno della zona SAR italiana, cioè un'area di mare in cui l'Italia si impegna a mantenere attivo un servizio di ricerca e soccorso delle imbarcazioni in difficoltà. Nei giorni successivi all'operazione di soccorso le autorità italiane ed europee hanno passato giorni a cercare eventuali sopravvissuti, oltre che i corpi delle persone morte.
Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale che da molti anni monitora le operazioni di soccorso civili e istituzionali delle persone migranti nel Mediterraneo, racconta che raramente ha visto una mobilitazione così ingente in quel tratto di mare. In tempi recenti soltanto a Cutro era avvenuta una cosa del genere.
Oltre a numerosi voli di ricognizione dei mezzi di Frontex, l'agenzia di guardia costiera e di frontiera dell'Unione Europea, la Guardia Costiera italiana per giorni ha impiegato nelle ricerche diverse navi fra cui le due migliori della sua flotta per il soccorso in mare, la CP 941 Diciotti e la CP 940 Dattilo. Sono due navi gemelle lunghe 94,2 metri in grado di navigare quasi in ogni condizione meteo e a una velocità impensabile per le navi delle ong.
La Diciotti e la Dattilo navigano fino a 18 nodi, cioè circa 33 chilometri all'ora, e possono coprire enormi distanze nelle ricerche di persone disperse in mare. La Geo Barents di Medici Senza Frontiere, la nave più grande e attrezzata fra quelle usate dalle ong, naviga al massimo a 10 nodi. Sono 18 chilometri all'ora, più o meno la velocità a cui procede in bicicletta una persona allenata.
Nei giorni successivi anche grazie a questo dispiegamento di mezzi le autorità italiane ed europee sono riuscite a coprire un'ampia area alla ricerca di sopravvissuti. Non ne hanno trovato nessuno. Le navi della Guardia Costiera italiana hanno invece recuperato moltissimi corpi di persone che si trovavano a bordo della barca a vela, e che ormai erano alla deriva. Le segnalazioni sono arrivate soprattutto dagli aerei, che hanno una visuale migliore delle navi: dall'alto, soprattutto in una giornata di sole e in un tratto di mare poco trafficato, i corpi umani si notano abbastanza facilmente.
In un giorno soltanto, giovedì 20, la nave Dattilo ha recuperato 12 corpi di donne e bambini che si trovavano alla deriva, come raccontato dalla Guardia Costiera in un comunicato stampa. Il giorno prima altre due motovedette della Guardia Costiera, la CP 289 e la CP 303, avevano recuperato altri tre corpi a testa.
La gestione a terra dei corpi recuperati in mare è stata uno dei punti più criticati da attivisti e persone impegnate nell'accoglienza dei familiari dei morti.
Fra il 17 e il 24 giugno le navi della Guardia Costiera con a bordo i corpi delle persone che si trovavano a bordo della barca a vela sono state fatte sbarcare in diversi porti calabresi, quindi non soltanto quello di Roccella Ionica. Alcuni corpi sono stati portati a Gioia Tauro, altri a Crotone, cioè 130 chilometri più a nord.
Il lungo tragitto per andare e tornare dall'area del naufragio ha fatto sì che le navi della Guardia Costiera rientrassero nei porti italiani spesso di notte, quando ormai il buio impediva le ricerche. La scarsa luce ha anche impedito ai giornalisti che si trovavano nei porti di capire e documentare quello che stava succedendo. Questa complicazione si è aggiunta a uno scarso accesso ai porti dove sbarcano le persone migranti di cui i giornali locali calabresi si lamentano ormai da anni.
Il sito di news calabrese LaC News24 ha scritto che negli ultimi giorni al porto di Roccella si respirava «un'aria pesante» nei confronti dei giornalisti: «per la prima volta in oltre 20 anni di continui approdi, anche tragici, le operazioni sono state effettuate sulla banchina più lontana e a molta distanza dai giornalisti».
La situazione sembra particolarmente grave anche a Crotone, uno dei porti coinvolti nelle ricerche del naufragio del 17 giugno. A fine giugno 25 giornalisti che lavorano a Crotone hanno scritto una lettera aperta per segnalare che da due anni in occasione di ogni sbarco di persone migranti «ci tocca inviare una mail a tre indirizzi diversi ed attendere le autorizzazioni sperando che qualcuno legga quelle richieste». Il giorno prima la nave Diciotti era arrivata a Crotone con a bordo 5 corpi recuperati dal naufragio del 17 giugno. «Ai cronisti è stato proprio vietato di entrare», si legge nella lettera aperta: «Inoltre, contrariamente al solito, per lo sbarco è stato scelto il porto industriale per tenere distanti anche gli occhi ‘indiscreti’ degli zoom delle telecamere».
Dai porti i corpi sono stati poi trasferiti nelle camere mortuarie di un numero ancora più alto di ospedali. L'associazione Med.Med, che nei giorni scorsi ha assistito alcune persone sopravvissute, ne ha contati almeno 6: Locri, Polistena, Soverato, Siderno, Gioia Tauro, Reggio Calabria. Anche i sopravvissuti non sono stati portati in un unico ospedale: 6 di loro sono stati ricoverati a Locri, sugli altri non ci sono informazioni ufficiali disponibili. Sulla Stampa, Eleonora Camilli scrive che sono stati ricoverati a Polistena, Soverato e Reggio Calabria.
Questa condizione ha creato difficoltà soprattutto ai familiari delle persone che si trovavano sulla barca a vela e che nei giorni successivi al 17 giugno hanno iniziato ad arrivare da tutta Europa a Roccella Ionica, per cercare di avere informazioni. All'inizio è stato molto difficile. La prefettura di Reggio Calabria, che ha la competenza su Roccella Ionica, non aveva un canale diretto coi familiari, che non sapevano a chi e dove chiedere per avere informazioni sui sopravvissuti e sui morti.
Nel caso del naufragio di Cutro la gestione dei luoghi era stata molto più centralizzata. Tutti i sopravvissuti vennero sistemati nello stesso posto, due padiglioni del CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) di Crotone. Tutti i corpi vennero sistemati in bare nel PalaMilone, un palazzetto dello sport sempre a Crotone. Le 16 persone sopravvissute vennero tutte ricoverate all'ospedale cittadino di San Giovanni Di Dio.
Il 19 giugno la prefettura ha infine aperto un punto informativo a Roccella Ionica, ma ne ha diffuso l'informazione solo tramite un comunicato in italiano. «Siamo stati noi a diffonderlo nelle varie lingue – curdo, farsi, inglese, arabo – e a dare ai familiari gli indirizzi mail della prefettura», spiega Valentina Delli Gatti, attivista di Med.Med. A dare una mano nei primi giorni c'è stato anche un blogger curdo arrivato in Italia il 18 giugno, che ha creato un gruppo Telegram in cui i familiari delle persone che si trovavano a bordo potevano scambiarsi informazioni e postare foto dei propri cari: nella speranza che qualcuno li trovasse nel letto di un ospedale, o più semplicemente per ricordarli.
Le cose si sono gradualmente assestate grazie alle ong internazionali che la prefettura ha coinvolto per fare da intermediarie con i familiari: Medici Senza Frontiere, Save The Children, Croce Rossa. Sono state loro ad accompagnare i familiari nei vari ospedali in cui erano sparsi i sopravvissuti e i corpi delle persone morte, in un via vai durato diversi giorni. A un certo punto la Caritas, una emanazione della Chiesa cattolica italiana, ha messo a disposizione l'oratorio di Roccella Ionica per ospitare i familiari arrivati da varie parti d'Europa, in tutto una trentina.
Le varie autorità italiane coinvolte hanno diffuso ancora meno informazioni ai giornali. La prefettura di Reggio Calabria comunicava soltanto con sporadici comunicati stampa. Né il ministero dell'Interno, da cui dipendono le prefetture, né altri ministeri del governo di Giorgia Meloni hanno fatto dichiarazioni pubbliche sul naufragio del 17 giugno. La Guardia Costiera ha pubblicato alcuni comunicati stampa sul suo sito, poi ha semplicemente smesso di diffondere aggiornamenti. La sua ultima stima ufficiale parla di 20 corpi recuperati.
In realtà sono più del doppio: 41. Il dato non è stato diffuso da alcuna autorità italiana ma lo ha ricostruito Sergio Scandura di Radio Radicale mettendo insieme i dati dei cosiddetti "mattinali", cioè i resoconti interni che ogni mattina i vari uffici territoriali della Guardia Costiera diffondono ad alcuni ministeri, fra cui quello dell'Interno e degli Esteri. Nessuna autorità italiana ha comunicato la fine delle operazioni di ricerca di eventuali sopravvissuti e dei corpi delle persone morte nel naufragio. In base ai dati dei suoi tracciamenti Scandura ritiene che le operazioni si siano concluse il 24 giugno.
Nei giorni successivi al naufragio diverse persone coinvolte nell'assistenza dei superstiti e dei familiari dei morti hanno ragionato sul perché sui giornali si sia parlato così poco del naufragio del 17 giugno.
Alcuni ritengono che il naufragio di Cutro fosse più facile da raccontare per via di una serie di elementi visivi, che nei giorni seguenti furono mostrati da giornali e social network: il relitto della barca incagliato sulla spiaggia, le file di bare nel PalaMilone, le proteste organizzate dei familiari delle persone morte. A mostrare fisicamente il naufragio del 17 giugno non c'è stato nulla di tutto questo.
Secondo alcuni le autorità italiane ci hanno messo del proprio, per evitare di creare un caso simile a quello di Cutro.
L'esperto di migrazione Fulvio Vassallo Paleologo, direttore dell'associazione L'Altro diritto-Sicilia, ha sostenuto che «la disseminazione dei corpi delle vittime in diverse località» abbia impedito la formazione di una «memoria collettiva», oltre che la formazione di una specie di comitato dei familiari delle persone morte, come invece accaduto per Cutro. Per i giornalisti non è stato facile capire esattamente cosa stesse succedendo, per via delle difficoltà di accedere ai porti e alla scarsità di comunicazioni ufficiali, che a un certo punto si sono interrotte del tutto.
Nei giorni immediatamente successivi al naufragio anche esponenti del governo non ne hanno parlato, attirando inevitabilmente meno attenzioni sulla notizia. Sui suoi profili social la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha celebrato i 250 anni di fondazione della Guardia di Finanza, inviato un videomessaggio per un evento di Confcommercio, dato un'intervista alla festa del Giornale, festeggiato «i nostri straordinari Fanti Piumati», cioè l'ordine dei bersaglieri. Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha parlato di "ecovandali", sequestri di cocaina, del rimpatrio di una persona indiana condannata per violenza sessuale.
Delli Gatti ci ha visto una «volontà precisa» di creare una cortina di «silenzio» attorno al naufragio del 17 giugno.
Una fonte del ministero dell'Interno che preferisce rimanere anonima ha respinto queste accuse e ha sostenuto che la posizione del relitto in mare aperto avrebbe fatto sì che non ci fosse un comune di riferimento per gestire morti e sopravvissuti, come nel caso di Cutro. Secondo la stessa fonte la decisione di sbarcare le persone morte in porti diversi sarebbe stata chiesta dalle autorità locali, che temevano ingolfamenti e difficoltà logistiche nella gestione dei corpi.
Anche Momi di Medici Senza Frontiere, pur dicendo che «non si è voluto dare risonanza a un evento drammatico che è il risultato delle politiche securitarie nazionali ed europee», dice che la decisione di distribuire sopravvissuti e morti in varie strutture non le è sembrata particolarmente strana. «Conosciamo il territorio e le difficoltà che hanno le strutture sanitarie a rispondere ai bisogni anche solo dei residenti», ha detto Momi facendo riferimento alle croniche lacune del sistema sanitario calabrese.
Nei giorni passati a Roccella Ionica, i familiari delle persone morte hanno fornito alla polizia scientifica un campione del proprio DNA, che verrà utilizzato per provare a riconoscere e identificare ufficialmente le persone morte. I corpi recuperati sono stati diversi giorni in mare e sono in pessime condizioni. Per alcuni anche un tentativo di identificazione a occhio è del tutto inutile: i familiari di queste persone si sono limitati a sottoporsi a un prelievo di materiale organico nel container attrezzato dalla polizia scientifica nel porto di Roccella Ionica. Per sapere se il loro DNA corrisponde a quello prelevato dai corpi serviranno diversi mesi.
Altri hanno provato a riconoscere i corpi delle persone morte dal vivo, oppure attraverso fotografie mostrate loro dalla polizia. Le condizioni dei corpi sono talmente deteriorate che al momento soltanto una persona è stata riconosciuta ufficialmente: è un uomo afghano di 29 anni, si chiamava Akbari Sobhanullah. Per gli altri non è stato possibile. «I corpi non erano soltanto gonfi, ma sembra siano stati mangiati dai pesci. Di alcune persone hanno trovato soltanto dei pezzi», spiega Momi di Medici Senza Frontiere.
La Diocesi di Reggio Calabria ha promesso che sosterrà le spese dei rimpatri di tutti i corpi delle persone morte nel naufragio, se e quando verranno identificate.