Due anni dopo la scomparsa di Daouda Diane, nella Fascia trasformata in Sicilia non è cambiato nulla
Anzi, sono peggiorate le condizioni dei braccianti che lavorano nelle serre e che manifestano da mesi per il caso del mediatore culturale ivoriano
di Isaia Invernizzi
Dall’estate di due anni fa ogni 2 del mese decine di braccianti stranieri che lavorano in provincia di Ragusa, in Sicilia, hanno partecipato a cortei organizzati per tenere alta l’attenzione sul caso di Daouda Diane, un mediatore culturale della Costa d’Avorio scomparso il 2 luglio del 2022. Le sue ultime parole furono registrate in un video inviato a familiari e amici per denunciare le condizioni di lavoro all’interno di un cementificio di Acate. «Qui c’è la morte», disse Diane, che oggi avrebbe 39 anni. Le perquisizioni dei carabinieri e le indagini della procura non sono riuscite a trovare il corpo di Diane – «vivo o morto», come chiedevano i braccianti – né a migliorare le condizioni di lavoro di migliaia di persone sfruttate nelle serre e nei campi. Due anni dopo il clamore suscitato dall’inchiesta ad Acate non è cambiato nulla, o quasi: i braccianti che avevano trovato il coraggio di denunciare lo sfruttamento hanno più paura.
Diane era arrivato in Italia nel 2014 come molti connazionali, attraversando il Mediterraneo in barca. Parlava bene l’italiano, il francese e l’inglese, e per questo iniziò a lavorare nel CAS di Acate, il centro di accoglienza straordinaria dove vengono accolte le persone migranti. Lo stipendio non gli bastava a pagare l’affitto e a inviare soldi alla moglie Awa e al figlio di otto anni rimasti in Costa d’Avorio, per cui era solito trovare lavori occasionali in aziende o magazzini nei dintorni di Acate.
Il lavoro, soprattutto quello irregolare, nella Fascia trasformata abbonda. È un’estesa area tra le province di Ragusa, Siracusa e Agrigento occupata dalle serre dove vengono coltivati pomodori, melanzane, zucchine e peperoni: le verdure vengono poi acquistate a prezzi irrisori dalle aziende della grande distribuzione e vendute nei supermercati di altre regioni, in particolare al Nord. A una diversa latitudine, le condizioni di sfruttamento delle persone al lavoro nei campi sono del tutto simili a quelle denunciate dai sindacati dopo la morte di Satnam Singh, il lavoratore indiano 31enne che due settimane fa aveva perso un braccio mentre stava lavorando in un’azienda agricola dell’Agro pontino, nel Lazio.
Anche nella Fascia trasformata uomini e donne vengono pagati pochi euro all’ora per lavorare anche più di 10 ore in condizioni estreme, spesso a temperature elevate, esposti a fitofarmaci e diserbanti. In moltissimi casi non hanno un contratto e come accade nell’Agro pontino vivono in baracche costruite vicino alle serre, senza servizi. Anche qui i braccianti sono sottomessi ai caporali dei servizi, intermediari che impongono prezzi esorbitanti per garantire un lavoro, una casa, un passaggio in auto o qualsiasi tipo di assistenza.
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Diane non stava lavorando nei campi, ma nel cementificio della Sgv Calcestruzzi, accanto alla circonvallazione di Acate. Nel primo video inviato a familiari e amici Diane era all’interno di una betoniera: indossava un polo grigia sbottonata, una mascherina chirurgica coperta di polvere e un paio di vecchie cuffie. Teneva con una mano un martello pneumatico.
Nel secondo video Diane era all’aperto e diceva in francese: «Questa è una fabbrica di cemento, qui c’è la morte. Quando torniamo nel nostro paese raccontiamo che lavoriamo nella fabbrica di cemento, ma questa è una maledizione. Sono solo bugie, fingiamo di essere felici. C’è un posto dentro questa fabbrica che è molto pericoloso. Se si entra qui si può morire. Stiamo lavorando in luoghi pericolosi. Siamo dentro il pericolo dalla mattina alla sera. Si soffre qui, e poi andiamo al nostro paese a dire che lavoriamo in fabbrica. È una bugia. Ma quale fabbrica? Bugiardi». Dalle 14:38 di quel giorno, l’ora dei suoi ultimi messaggi via WhatsApp, non si sa che fine abbia fatto.
Marcire Doucoure, che abitava con Daouda Diane in una casa di Acate, segnalò la sua scomparsa all’associazione per cui lavoravano. La prima denuncia fu fatta dall’associazione il 4 luglio, ma per quasi un mese la procura di Ragusa ipotizzò un allontanamento volontario. Era una versione inverosimile perché nell’armadio di Diane furono trovati soldi e soprattutto documenti, uno dei beni più preziosi – se non il più prezioso – per una persona migrante.
Soltanto dal 26 luglio, qualche giorno dopo una manifestazione organizzata dai sindacati per sollecitare la procura a estendere le indagini, i magistrati cambiarono direzione all’inchiesta: non più allontanamento volontario, ma omicidio volontario e occultamento di cadavere. Nei mesi successivi il cementificio fu perquisito tre volte, il reparto dei RIS di Messina acquisì diversi reperti, i carabinieri scavarono in alcuni terreni dei proprietari del cementificio, la famiglia Longo. L’azienda fu sanzionata per l’utilizzo di lavoratori irregolari.
I responsabili dell’azienda dissero agli investigatori che il 2 luglio le telecamere del sistema di videosorveglianza erano fuori uso perché in manutenzione. I dipendenti fornirono testimonianze contrastanti: alcuni dissero di non aver mai visto Diane lavorare nel cementificio, altri di averlo visto allontanarsi a piedi intorno a mezzogiorno, altri ancora di non sapere proprio chi fosse.
Gli avvocati dell’azienda parlarono di un «rapporto di simpatia, non certo lavorativo». Dissero che Diane aveva chiesto di lavorare qualche ora sostenendo di essere in difficoltà economiche e che gli era stato consentito di spazzare il cortile. Nell’ultimo anno e mezzo hanno invitato la procura a seguire altre ipotesi, per esempio presunti dissapori tra Diane e un’altra persona straniera. «Gli inquirenti hanno passato al setaccio l’azienda, le abitazioni, le pertinenze, i telefoni cellulari, i computer, i mezzi di trasporto, persino i vestiti. Non è emerso assolutamente nulla. Bisogna quindi puntare anche su altre piste», ha detto Mirko La Martina, avvocato di Carmelo Longo, il titolare del cementificio Sgv.
Nel frattempo l’azienda ha denunciato due amici di Diane per diffamazione, e i partecipanti a una manifestazione che si concluse all’ingresso del cementificio per danneggiamento. Le denunce hanno avuto conseguenze: per i braccianti è più complicato e pericoloso esporsi.
Martedì 2 luglio alle 19 si terrà una nuova manifestazione per tornare a sensibilizzare la popolazione di Acate sul caso di Diane, e in generale sui diritti delle persone che lavorano nella Fascia trasformata. È stata organizzata dal sindacato di base USB di Ragusa. Michele Mililli, esponente del sindacato che da tempo lavora per sostenere i diritti dei braccianti, dice che ora c’è più paura rispetto a due anni fa: «Lo sfruttamento delle persone è sempre uguale, anzi, è peggiorato. Noi continuiamo a organizzare e sindacalizzare i lavoratori, non senza fatica».
Dopo una lunga ricerca il sindacato di base ha trovato un avvocato in Costa d’Avorio per assistere i familiari di Diane e nominare un avvocato rappresentante in Italia. È l’unico modo per capire se stanno continuando le indagini e partecipare a un eventuale processo, di cui al momento non si sa nulla. Secondo fonti della procura è probabile che l’inchiesta venga archiviata, perché finora non sono emersi indizi utili a capire dove sia il corpo di Diane.