Il prezzo che ha pagato l’ONU per parlare con i talebani
Le due parti si sono incontrate a Doha, per la prima volta da quando i talebani hanno preso il potere in Afghanistan: le Nazioni Unite hanno dovuto accettare di escludere dalle riunioni le donne afghane e di non parlare di diritti umani
Domenica e lunedì si è tenuta a Doha, in Qatar, un’importante conferenza organizzata dalle Nazioni Unite sul futuro dell’Afghanistan. È il terzo incontro di questo tipo da quando l’esercito statunitense si è ritirato dal paese, ma il primo in cui ha partecipato anche una delegazione dei talebani, il gruppo radicale islamista che governa in modo autoritario l’Afghanistan dall’agosto del 2021. All’incontro erano presenti gli inviati speciali di una trentina tra stati e organizzazioni internazionali, tra cui l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Non c’era invece nessuna donna afghana e nessun rappresentante della società civile e delle organizzazioni per i diritti umani del paese, per una richiesta esplicita dei talebani: è stato il prezzo da pagare, assai contestato, per avviare un qualche tipo di dialogo con il regime.
La conferenza è stata parte di un processo avviato dall’ONU a maggio dell’anno scorso per il graduale reinserimento dell’Afghanistan nella cosiddetta comunità internazionale.
Alla prima delle conferenze di Doha sull’Afghanistan i talebani non furono invitati. Alla seconda, a febbraio di quest’anno, si rifiutarono di partecipare perché non venne concesso loro escludere dai temi della conferenza il rispetto dei diritti umani e la condizione delle donne. All’epoca il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, definì «inaccettabili» le richieste. Non questa volta però, perché i talebani hanno ottenuto ciò che chiedevano, cioè la promessa di non parlare di alcuni temi e l’esclusione di donne e società civile afghane.
La sottosegretaria dell’ONU per gli Affari Politici e di Pace, Rosemary DiCarlo, incontrerà oggi separatamente proprio i rappresentanti della società civile, in una riunione che però non fa ufficialmente parte della conferenza e quindi ha una rilevanza molto inferiore.
Il percorso che l’ONU sta portando avanti è lungo e complicato, perché vuole conciliare due esigenze contrapposte: da un lato quella di riaprire gradualmente i rapporti diplomatici ed economici con l’Afghanistan per farlo uscire dall’isolamento, favorire lo sviluppo e migliorare le condizioni di vita della popolazione; dall’altro quella di non legittimare un regime integralista e autoritario che impone restrizioni gravissime sui diritti umani, soprattutto delle donne.
DiCarlo ha detto che gli incontri di Doha di questi giorni non devono essere considerati come un segnale del riconoscimento dell’autorità dei talebani in Afghanistan, ma solo un passo verso il dialogo, con l’obiettivo principale di portare il regime a rispettare il diritto internazionale in tema di diritti umani.
Attualmente il regime talebano non è riconosciuto come legittimo dall’ONU ed è quindi estremamente isolato. Impoverito da decenni di guerra e occupazione, l’Afghanistan è in una profonda crisi economica iniziata ancora prima del 2021, e oggi aggravata dalle sanzioni internazionali, dalla corruzione e dall’incapacità dei talebani di governare efficacemente il paese. L’85 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e la situazione è ancora più grave per le donne, a cui i talebani hanno vietato l’accesso all’istruzione dopo i 12 anni e alla maggior parte dei lavori.
La decisione dell’ONU di andare incontro alle richieste dei talebani è stata criticata da molti osservatori e osservatrici.
Richard Bennett, il relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, ha scritto sul New York Times: «Se [l’esclusione della società civile] è il prezzo da pagare per la presenza dei talebani a Doha, è un prezzo troppo alto». «Il rischio [di questa scelta] è legittimare la cattiva condotta dei talebani e danneggiare irreparabilmente la credibilità delle Nazioni Unite nella difesa dei diritti delle donne», ha detto Tirana Hassan, la direttrice dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. «I talebani hanno silenziato le donne nel paese usando la violenza e la tortura. Escludendole dagli incontri di Doha, l’ONU e la comunità internazionale hanno legittimato i talebani a silenziarle anche fuori dai confini dell’Afghanistan» ha scritto sul Guardian l’ex parlamentare afghana e attivista Fawzia Koofi.
Nella stessa valutazione indipendente che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha fatto scrivere a novembre sull’Afghanistan, e che avrebbe dovuto fornire una traccia per gli incontri di questi giorni, ci sono una serie di precise richieste per portare al miglioramento della condizione dei diritti umani e soprattutto delle donne. «Qualsiasi forma di rintegrazione dell’Afghanistan nelle istituzioni e nei sistemi globali deve passare dall’inclusione delle donne afghane anche nelle posizioni di leadership», si legge nel rapporto.
Finora i talebani hanno sempre difeso le restrizioni imposte alle donne: sostengono che si tratti di temi di politica interna che non devono influire sul riconoscimento internazionale della loro autorità, e le giustificano come parte di un sistema di valori che secondo loro appartiene alla fede islamica e alle tradizioni afghane. Tuttavia non esistono regimi paragonabili, per durezza e pervasività della violenza contro le donne, in nessuno dei 50 paesi a maggioranza musulmana che fanno parte dell’Organizzazione della Cooperazione islamica.
Oggi in Afghanistan le donne non possono percorrere distanze oltre i 77 chilometri senza essere accompagnate da un parente uomo, né andare al parco o in altri luoghi pubblici; non possono fare sport; non devono lasciare la loro abitazione senza un buon motivo e comunque devono sempre indossare il burqa o almeno l’hijab; non possono lavorare per le organizzazioni non governative e non possono andare all’università. Le donne e le femministe afghane già durante il primo regime talebano, negli anni Novanta, avevano iniziato a parlare di “apartheid di genere” per descrivere la loro sistematica esclusione dalla vita civile e politica del paese.
La presenza dei talebani a Doha non è la prima occasione in cui i talebani sono stati chiamati a rappresentare l’Afghanistan dopo l’insediamento del nuovo regime. Alcuni paesi hanno cominciato ad aprire con loro dei dialoghi informali, principalmente per motivi economici.
A settembre del 2023 la Cina è diventata il primo paese a nominare un ambasciatore in Afghanistan dopo l’insediamento del nuovo regime talebano: già dai tempi dell’occupazione statunitense aveva avviato i rapporti con l’Afghanistan per l’apertura di una miniera di rame nell’ambito della “Nuova Via della Seta”, il progetto che prevede grandi investimenti su infrastrutture in tutto il mondo. A maggio di quest’anno la Russia, che a causa dell’isolamento a cui è sottoposta dopo l’invasione dell’Ucraina ha la necessità di trovare nuovi partner economici, ha invitato una delegazione del gruppo islamista a un importante forum economico internazionale che si tiene annualmente a San Pietroburgo, anche se continua formalmente a considerare il gruppo un’organizzazione terroristica.