Quando gli Stati Uniti misero fine alla segregazione razziale
Il 2 luglio 1964 Lyndon Johnson firmò il Civil Rights Act, che rendeva illegali le discriminazioni basate su razza, religione, genere o origini, al termine di decenni di lotte dei movimenti per i diritti civili
Quando il 2 luglio 1964, sessanta anni fa, il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson firmò il Civil Rights Act, legge che rendeva illegali le discriminazioni razziali, religiose e di genere, lo fece con 72 penne diverse. La cerimonia della firma, fra i colpi di tosse dello stesso presidente Democratico, durò oltre due minuti: per ogni lettera e ogni tratto avveniva un cambio di penna stilografica. Quelle 72 penne vennero poi distribuite a politici, parlamentari e attivisti che stavano dietro di lui e che avevano avuto un ruolo nell’approvazione di quella legge, da subito definita storica. Fra questi c’era anche Martin Luther King: anche lui ricevette una penna.
Il Civil Rights Act fu approvato al termine di decenni di lotta per l’uguaglianza, portata avanti soprattutto dai movimenti per i diritti civili dei neri americani.
Il percorso della legge era iniziato con l’allora presidente John Fitzgerald Kennedy, ma dopo il suo omicidio fu ripreso con più convinzione dal successore Johnson. La legge metteva fine alla segregazione dei neri e alle strutture separate in ristoranti, hotel, parchi divertimenti e altri esercizi pubblici, ma vietava anche discriminazioni nelle pratiche di voto, nelle scuole, nelle assegnazioni delle case e nei programmi finanziati da fondi federali. Più in generale, eliminava le discriminazioni basate sulla razza, sulla religione, sul sesso o sulle origini nazionali. Fu un traguardo importante, anche se passarono anni prima che molte misure contenute nella legge divenissero effettive, mentre servirono il Voting Rights Act del 1965 e il Fair Housing Act del 1968 per superare le discriminazioni riguardo all’accesso al voto e alle case.
All’inizio degli anni Sessanta la società statunitense era ancora in molte sue parti profondamente razzista. Erano in vigore le cosiddette “Leggi Jim Crow”, emanate in singoli stati del Sud a partire dal 1876, che sistematizzavano la segregazione razziale per i neri e i membri di altri gruppi etnici diversi dai bianchi. Prevedevano una separazione fisica in diversi ambienti e avevano anche il preciso obiettivo di ostacolare l’esercizio del diritto di voto per le minoranze.
I movimenti per i diritti civili erano però cresciuti nel dopoguerra, ottenendo alcuni importanti successi e sensibilizzando l’opinione pubblica statunitense. Quando Kennedy nel 1960 fu eletto presidente, anche grazie al 70 per cento dei voti dei neri americani, in molti ritennero che fosse arrivato il momento per un deciso avanzamento nella legislazione sui diritti civili. Kennedy invece evitò inizialmente grandi riforme: era preoccupato dal ristretto margine con cui era stato eletto e temeva soprattutto di perdere il sostegno degli stati del Sud, e di parte del suo stesso partito. Al tempo l’elettorato dei Democratici, soprattutto al sud, era ancora in gran parte formato da persone bianche, conservatrici e favorevoli alla segregazione.
A partire dalla primavera del 1963 una serie di manifestazioni, di episodi di razzismo e di attentati convinsero il presidente e la sua maggioranza della necessità di procedere in direzione di una legge sui diritti civili.
A maggio a Birmingham, in Alabama, una manifestazione pacifica di manifestanti neri, con molti bambini, fu attaccata dalla polizia: foto e immagini televisive mostrarono i manifestanti assaliti dai cani della polizia, colpiti con bastoni dagli agenti e da forti getti d’acqua dagli idranti. A giugno Kennedy propose il Civil Rights Act, che però restò quasi subito bloccato al Congresso, nella Commissione per i regolamenti, per volontà di alcuni esponenti Democratici degli stati del Sud.
Ad agosto ci fu la grande marcia su Washington, a cui parteciparono oltre 200mila persone e durante la quale fu pronunciato il famoso discorso di Martin Luther King «I have a dream». Un mese dopo a Birmingham (Alabama) un suprematista bianco piazzò della dinamite in una chiesa battista, uccidendo quattro ragazze nere. A novembre l’omicidio di Kennedy a Dallas, in Texas, cambiò ulteriormente il panorama politico e le stesse prospettive della legge.
Già cinque giorni dopo l’attentato di Dallas il neopresidente Johnson (che non era noto per un particolare attivismo nei diritti civili) fece un discorso al Congresso in cui sostenne che «nessuna orazione o elogio funebre» avrebbe potuto onorare meglio la memoria di Kennedy rispetto a una «rapida approvazione della legge sui diritti civili per la quale si è battuto a lungo».
L’approvazione della legge, nonostante il sostegno di entrambi i partiti, incontrò delle resistenze: alcuni senatori dell’ala più intransigente dei Democratici sfruttarono lo strumento del cosiddetto filibuster, con cui un membro del Congresso può continuare a parlare a oltranza durante una discussione in aula in modo da bloccare, o perlomeno rallentare, i lavori e impedire di fatto l’approvazione del testo in questione. L’iniziativa fu avviata dal Democratico Robert Byrd, che la sera del 9 giugno commentò il Civil Rights Act per 14 ore e 13 minuti di seguito.
La legge fu infine approvata al Senato il 19 giugno e alla Camera il 2 luglio: poche ore dopo Johnson la firmò, alla fine di un discorso in diretta televisiva in cui sottolineava l’importanza della legge, definendola un «orgoglioso trionfo nella lunga lotta per la libertà». Johnson incontrò poi i leader dei movimenti per i diritti civili e qualche ora dopo, parlando con un giornalista, espresse preoccupazione sulle conseguenze politiche di quell’approvazione: «Potremmo aver perso il sud per almeno una generazione».