Una rivalità finita male sulle 14 cime più alte del mondo
La morte di Anna Gutu e Gina Marie Rzucidlo sullo Shisha Pangma racconta molto delle conseguenze della progressiva commercializzazione e spettacolarizzazione dell'alpinismo himalayano
A giugno è stato trasportato in Italia il corpo di Anna Gutu, un’alpinista con cittadinanza statunitense morta in Tibet nell’autunno del 2023 mentre stava scalando lo Shisha Pangma, la quattordicesima montagna più alta della Terra. Gutu, che aveva parte della famiglia in Italia, era stata travolta da una valanga mentre cercava di diventare la prima donna statunitense a scalare tutti gli “ottomila”, cioè le 14 montagne che superano gli 8mila metri di altitudine. Era morta poco prima di Gina Marie Rzucidlo, un’altra donna statunitense con cui era in competizione per raggiungere il primato. La loro morte – con quella dei loro accompagnatori Mingmar Sherpa e Tenjen Sherpa – a poche centinaia di metri dalla vetta dello Shisha Pangma è stata descritta come esemplare per raccontare la progressiva commercializzazione e spettacolarizzazione del turismo d’alta quota nell’Himalaya e di altre imprese alpinistiche.
Negli ultimi trent’anni alcune delle cime più famose al mondo, come l’Everest o l’Annapurna I, sono diventate più accessibili grazie ad alcune società private che offrono pacchetti turistici anche per alpinisti poco esperti. Provvedono a numerosi servizi per semplificare le ascese, dai trasporti in elicottero per raggiungere più velocemente i campi base, da dove partono poi le escursioni, alle bombole di ossigeno in grandi quantità per compensare l’aria rarefatta a quelle altitudini. Praticamente chiunque con una discreta preparazione alle scalate può quindi ambire a salire su un ottomila, a patto che sia disposto a spendere qualche decina di migliaia di dollari.
Il risultato più evidente, e spesso citato, di questa forte commercializzazione è il ricorrente fenomeno del sovraffollamento e delle code per raggiungere la cima dell’Everest, con tutti i rischi che ne conseguono e le morti che vengono registrate in alcune stagioni. Una conseguenza meno evidente è il crescente numero di persone che tenta di battere qualche primato, cercando di ridurre il più possibile i tempi di un’ascesa, di fare più cime in un’unica stagione o di salire su tutte le 14 montagne che superano gli 8mila metri, come nel caso di Gutu e Rzucidlo.
Anna Gutu era nata all’inizio degli anni Novanta nell’attuale Moldavia (all’epoca il paese era nel processo di indipendenza dall’Unione Sovietica, che l’aveva assegnata all’Ucraina) e si era poi trasferita negli Stati Uniti quando aveva vent’anni. Non era una ragazza particolarmente sportiva fino a quando iniziò ad appassionarsi alle imprese dell’alpinista nepalese Nirmal Purja, diventato famoso nel 2019 per essere riuscito a scalare in sei mesi e sei giorni i 14 ottomila. La sua storia, poi raccontata nel documentario Netflix 14 vette: scalate ai limiti del possibile e spesso presa come esempio negativo della spettacolarizzazione degli aspetti più competitivi e muscolari dell’alpinismo himalayano, aveva ispirato molti dilettanti e negli anni della pandemia aveva spinto Gutu a provare a raggiungere la cima dell’Everest.
Nel 2021 Gutu si mise in contatto con Elite Exped, una società che offre assistenza e servizi per le scalate fondata tra gli altri proprio da Purja, e acquistò il pacchetto più economico da 3mila dollari per raggiungere il Campo Base dell’Everest e fare pratica. Nell’anno seguente tentò almeno una grande cima al mese, scalando in breve tempo il Manaslu e l’Annapurna I, due dei più noti ottomila del Nepal centrale. Scalava appoggiandosi sempre ad alcune delle più grandi e costose aziende private per le esplorazioni alpine, suscitando qualche perplessità tra i professionisti dell’alpinismo. Gutu condivideva le proprie esperienze su Instagram tramite fotografie e video che talvolta ricordavano il classico stile da influencer, molto diffuso su quel social network.
La rivista Outside ha raccontato in un lungo e dettagliato profilo delle due scalatrici che anche Gina Rzucidlo si era appassionata alle montagne relativamente tardi. Dopo gli studi si era trasferita da Auburn nel Massachusetts, dove era nata nel 1978, a New York per lavorare come hostess per alcune compagnie aeree e come estetista; con i primi guadagni aveva iniziato a viaggiare e a fare qualche spedizione ad alta quota. Nel 2018 aveva raggiunto la cima dell’Everest, poi aveva scalato il Denali in Alaska, la montagna più alta del Nord America, e aveva proseguito fino a completare a 41 anni il giro delle “Sette Vette”, per convenzione le montagne più alte di ciascun continente.
Nel 2021 Rzucidlo aveva scalato l’Annapurna I, il suo secondo ottomila, dicendo di voler provare a scalare le 12 vette sopra gli 8mila metri rimanenti. Tra settembre 2021 e luglio 2022 salì cinque cime tra Nepal e Pakistan arrivando a metà dell’impresa. «Sarò la prima e sola statunitense a farle tutte e la seconda persona statunitense di sempre» scrisse in un messaggio alla propria famiglia alla fine del 2022. A differenza di Gutu, Rzucidlo era poco incline a condividere sui social network le proprie scalate ed era critica nei confronti di quelli che riteneva essere gli «influencer degli ottomila».
I nomi delle quattordici vette più alte del mondo evocano in alcuni casi storie leggendarie, in altri suonano come esotici e sconosciuti a chi non è appassionato di montagna: Everest, K2, Kangchenjunga, Lhotse, Makalu, Cho Oyu, Dhaulagiri I, Manaslu, Nanga Parbat, Annapurna I, Gasherbrum I, Broad Peak, Gasherbrum II e Sisha Pangma. All’inizio dell’autunno del 2023 sia Gutu sia Rzucidlo le avevano scalate tutte tranne l’ultima: un’impresa comunque difficile e pericolosa, soprattutto nel caso del K2, del Makalu, del Manaslu, salite tecnicamente molto impegnative, o dell’Annapurna e del Nanga Parbat, tra le cime himalayane sulle quali muoiono più alpinisti ogni anno.
Le due alpiniste non avevano sponsor e ancora oggi non è chiaro come avessero fatto a permettersi le svariate decine di migliaia di dollari richieste dalle società che offrono servizi, supporto logistico e assistenza per raggiungere ogni vetta.
Si erano conosciute per la prima volta pochi mesi prima, nel maggio del 2023, mentre erano entrambe al Campo Base dell’Everest per effettuare alcune scalate. Il loro rapporto era cordiale, ma si era velocemente deteriorato quando era diventato evidente che una delle due avrebbe raggiunto il primato delle 14 vette prima dell’altra. A luglio, quando si erano nuovamente incrociate al Campo Base del Gasherbrum II, Rzucidlo aveva commentato in alcuni messaggi la presenza di Gutu: «È solo la classica scalatrice di Instagram. Non capisco perché ‘sta gente si metta a scalare e provi a fare di corsa tutte queste montagne».
Il primo ottobre Rzucidlo aveva scalato il Cho Oyu e sulla via del ritorno aveva trovato Gutu, intenta a scalare la stessa montagna: era per entrambe la tredicesima. Avendo un minimo di vantaggio, Rzucidlo fece forti pressioni nei confronti di diversi responsabili delle spedizioni private per raggiungere il prima possibile il Campo Base e tentare la scalata dello Shisha Pangma in Tibet. Ottenne che le fosse mandato in aiuto Tenjen Sherpa, uno sherpa di esperienza che aveva aiutato l’alpinista norvegese Kristin Harila a raggiungere tutte le 14 cime degli ottomila in appena 92 giorni. Rzucidlo pagò un anticipo di 30mila dollari.
Il 4 ottobre Rzucidlo raggiunse il Campo Base insieme ad altri alpinisti che stavano preparando l’ascesa allo Shisha Pangma dal versante nord. Tra gli ottomila, lo Shisha Pangma è considerato relativamente semplice da scalare, ma i rapidi cambiamenti della temperatura lo rendono insidioso per via del rischio valanghe. Il giorno seguente Rzucidlo avrebbe voluto raggiungere il Campo II, ma a causa di qualche imprevisto le fu consigliato di attendere al Campo I insieme ad altri alpinisti. Gutu, nel frattempo, aveva recuperato i giorni di distacco e si stava avvicinando.
Con tempi e percorsi diversi, entrambe le alpiniste arrivarono al Campo II il 6 ottobre e secondo gli altri alpinisti presenti la situazione era particolarmente tesa. Gutu era stremata. Era arrivata al campo con Mingmar Sherpa e altri compagni di salita con pochissime provviste e attrezzatura: al Campo Base c’era stato un problema logistico e non avevano avuto la possibilità di avere maggiori appoggi per il trasporto del materiale. Gutu e Rzucidlo non si parlavano, ma alcuni partecipanti avevano provato a fare da intermediari per convincerle a collaborare nell’ascesa, in modo da farla con maggiore calma e in sicurezza, condividendo il primato una volta arrivate sulla vetta. Ogni tentativo fu vano.
Stando alla ricostruzione di Outside, la più completa e approfondita finora pubblicata, alle 2:48 del mattino del 7 ottobre Gutu partì con il proprio gruppo per iniziare la scalata dello Shisha Pangma. Partire molto presto è quasi sempre la norma nel caso degli ottomila, per arrivare in vetta con le prime luci del giorno e quando la temperatura è ancora relativamente bassa, riducendo il rischio di distacchi di parte dei ghiacciai e di valanghe. La salita era difficoltosa soprattutto per la presenza di molta neve fresca, che rallentava l’apertura della via per l’ascesa.
Venuta a conoscenza della partenza di Gutu, anche Rzucidlo si era messa in marcia seguendo una via lievemente diversa. Mentre Gutu aveva scelto di passare più a ridosso della cresta, attraversando una sella che porta poi alla vetta vera e propria, Rzucidlo aveva scelto di seguire una via più diretta, che l’avrebbe portata direttamente alla cima. Poco dopo le otto Gutu notò la presenza di Rzucidlo a circa 500 metri di distanza. Consapevole della minore distanza che la sua avversaria avrebbe dovuto coprire, Gutu accelerò il passo e insieme a Mingmar e a un altro alpinista si separò dal resto del proprio gruppo.
Alle 11:30 Gutu raggiunse infine la sella e iniziò la traversata per raggiungere la cima vera e propria. Non era un passaggio particolarmente difficile, ma il Sole era già alto e la temperatura si era alzata, rendendo meno stabile il ghiacciaio e lo strato più superficiale di neve. Più a valle, il resto del gruppo di Gutu osservò una nuvola di ghiaccio e neve sollevarsi, con Gutu e Mingmar sparire al suo interno. Tra la sella e la cima si era staccata una valanga che aveva travolto e ucciso i due alpinisti.
Rzucidlo osservò la scena da lontano, ma non è chiaro se realizzò che Gutu fosse morta. Nonostante Tenjen Sherpa le avesse consigliato di interrompere l’ascesa (per quanto potesse farsi capire non parlando inglese) Rzucidlo insistette per proseguire, mentre altri gruppi di alpinisti più a valle avevano scelto di occuparsi dei soccorsi e di tornare indietro per il rischio di altre valanghe.
Mancava un centinaio di metri alla vetta quando una seconda valanga travolse Rzucidlo, Tenjen e Kami Rita, l’unico sopravvissuto dei tre. Gli altri alpinisti si diedero da fare per soccorrere le persone ferite e tornare verso il Campo II. I corpi di Rzucidlo e Tenjen erano probabilmente finiti in un crepaccio e sarebbe stato pericoloso cercarli, mentre i corpi di Gutu e Mingmar furono portati in un’area accessibile per un successivo recupero, effettuato solo mesi dopo rendendo poi possibile il trasporto del corpo di Gutu in Italia alcune settimane fa.
Nelle ore e nei giorni dopo la morte di Gutu, Mingmar, Rzucidlo e Tenjen i partecipanti alle spedizioni si sarebbero a lungo interrogati su quanto accaduto sullo Shisha Pangma, mettendo in discussione il loro ruolo e chiedendosi se avessero dovuto fare qualcosa diversamente.
Alpinisti e osservatori concordano sul fatto che la causa delle quattro morti sia riconducibile a un errore umano. I due gruppi impegnati nella scalata sottovalutarono i rischi posti dalle condizioni della neve e della montagna quella mattina, dando priorità alla possibilità di arrivare in cima prima degli altri, trascurando in questo modo la sicurezza. In particolare, Rzucidlo non avrebbe dovuto proseguire l’ascesa dopo che la valanga che aveva ucciso Gutu e Mingmar aveva dimostrato chiaramente le condizioni precarie sul versante in cui stava effettuando la scalata.
Gutu e Rzucidlo erano in competizione tra loro e avevano quindi una forte motivazione per raggiungere la cima, ma lo stesso non si può dire degli sherpa che le accompagnavano. Sia per Mingmar sia per Tenjen, scalare era un lavoro e il modo per sostenere le loro rispettive famiglie: avrebbero dovuto percepire diversamente il rischio eppure non si rifiutarono di effettuare l’ascesa accorciando i tempi come richiesto dalle loro clienti.
Secondo diversi esperti consultati da Outside, il comportamento di Mingmar e Tenjen fu condizionato soprattutto da motivi culturali. Gli sherpa sono abituati a fornire assistenza ai loro clienti in modo spesso incondizionato, hanno un forte rispetto per le regole concordate prima dell’inizio delle spedizioni e sentono di dovere assistere in ogni circostanza i clienti. Stando ad alcune testimonianze Tenjen propose una sola volta a Rzucidlo di tornare indietro dopo la prima valanga, ma rispettò la sua scelta di continuare e di raggiungere la vetta completando quello che per lei era l’ultimo degli ottomila.
Le morti sullo Shisha Pangma hanno portato a nuove riflessioni sui cambiamenti avvenuti in pochi anni nell’alpinismo ad alta quota nell’Himalaya. Dopo le spedizioni di alpinisti esperti e professionisti, tra gli anni Novanta e i primi anni dopo il Duemila alcune aziende private iniziarono a offrire la possibilità di scalare l’Everest e altri ottomila anche ai semplici appassionati di alpinismo, posto avessero una discreta preparazione atletica. Erano per lo più aziende occidentali che facevano poi affidamento su sherpa locali per la logistica, la gestione dei campi e l’assistenza durante le ascese. I prezzi erano spesso alti e venivano richieste cifre intorno ai 130mila dollari dei giorni nostri.
Intorno al 2010 le cose iniziarono a cambiare con l’affermarsi sul mercato di alcune agenzie private soprattutto in Nepal, che offrivano direttamente i propri servizi senza passare da società occidentali. La rimozione degli intermediari permetteva a queste nuove aziende di offrire spedizioni private a prezzi più bassi, spesso nell’ordine di poche decine di migliaia di dollari, rendendo quindi possibile l’accesso all’Himalaya a molte più persone.
Era un’evoluzione naturale e inevitabile, secondo alcuni corretta e auspicabile visto che in precedenza agenzie locali e sherpa venivano spesso sfruttati ottenendo quote marginali dei ricavi ottenuti dalle società occidentali. Al tempo stesso, questa sorta di “democratizzazione” degli ottomila favorì in breve tempo l’arrivo di persone più interessate agli aspetti turistici che a quelli dell’alpinismo propriamente detto. Nella breve stagione tra fine primavera ed estate in cui si può scalare l’Everest oggi tentano l’ascesa centinaia di persone, rispetto alle poche decine che lo facevano un tempo, con conseguenze per l’ambiente e per la sicurezza stessa dei partecipanti. Qualcosa di analogo avviene per alcune delle altre cime sopra gli 8mila metri, talvolta sottovalutate per la loro pericolosità.
La storia dell’alpinismo è costellata di grandi rivalità e sfide per raggiungere alcune delle vette più alte e difficili al mondo, ma il modo in cui si è sviluppata quella tra Gutu e Rzucidlo è particolare ed è stata commentata come una novità. Dopo essersi avvicinate all’alpinismo, Gutu e Rzucidlo scoprirono in fretta che c’era una via costosa – ma tutto sommato praticabile – per compiere quella che un tempo era letteralmente “l’impresa” nel panorama delle esplorazioni montane e la seguirono, con tutti i suoi rischi.