Dieci anni fa l’ISIS annunciava la nascita del califfato
Occupava aree di Siria e Iraq, ma mirava a creare un unico grande Stato Islamico: furono anni di video di esecuzioni, attentati in Europa e operazioni internazionali, fino alla caduta nel 2019
«Riunitevi intorno al vostro califfo, affinché possiate tornare come un tempo, re della terra e cavalieri della guerra». Questa esortazione, diretta a tutti i musulmani, era contenuta nel messaggio audio diffuso online con cui il 29 giugno 2014, dieci anni fa, l’ISIS annunciava la nascita di un califfato, chiamato Stato Islamico. Il gruppo islamista sunnita (uno dei due principali rami dottrinali dell’Islam, insieme a quello sciita) si era fatto conoscere in tutto il mondo da alcuni mesi, e alcune settimane prima aveva ottenuto importanti successi militari in Siria, arrivando a conquistarne ampie zone. Nei mesi successivi all’annuncio si espanse ancora, molto velocemente, fino a controllare buona parte dei territori della Siria e dell’Iraq, al punto che lo Stato Islamico divenne il tema centrale della politica internazionale negli anni seguenti.
Nella fase della sua massima espansione l’ISIS controllò numerose province della Siria, dell’Iraq e della Libia, ma fu attivo anche in Nigeria, Afghanistan e nelle Filippine. Attirò migliaia di combattenti stranieri, i cosiddetti “foreign fighters”, e terrorizzò l’opinione pubblica internazionale con elaborati video di propaganda di brutali esecuzioni di ostaggi. Guidò e ispirò alcuni dei maggiori attentati terroristici mai realizzati in Europa, poi nel 2019 perse definitivamente la guerra contro una coalizione militare internazionale: oggi non controlla più nessuna area di Siria o Iraq, ma il gruppo resta attivo in vari paesi, in clandestinità.
L’ISIS, acronimo di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, assunse questa denominazione nell’aprile del 2013: prima si chiamava al Qaida in Iraq (AQI), nome che indicava la sua alleanza con al Qaida e il fatto che agisse solo in Iraq. Il gruppo era stato fondato nel 2000 da Abu Musab al Zarqawi, un giordano che dagli anni Ottanta e poi Novanta – cioè fin dai tempi della guerra che molti afghani combatterono contro i sovietici che avevano occupato il territorio dell’Afghanistan – era stato uno dei principali rivali di Osama bin Laden. Al Qaida era nata sull’idea di sviluppare una specie di legione straniera sunnita, che avrebbe dovuto difendere i territori abitati dai musulmani dall’occupazione occidentale. L’obiettivo di Zarqawi era invece già quello di creare un califfato islamico esclusivamente sunnita sul modello dei primi califfati della storia dell’islam.
Nel 2006 Zarqawi venne ucciso da una bomba americana. Il suo successore fu Abu Omar al Baghdadi (morto nel 2010): il suo posto fu preso da Abu Bakr al Baghdadi. Nel 2011 il gruppo cominciò a rafforzarsi, riuscendo tra le altre cose a liberare un certo numero di prigionieri detenuti in Iraq; nel 2014 iniziò una vera guerra contro il governo iracheno occupando città e regioni rilevanti e ottenne di pari passo dei successi in Siria, eliminando o inglobando vari altri gruppi jihadisti.
Meno di tre settimane prima dell’annuncio della creazione del califfato l’ISIS aveva preso il controllo di Mosul, importante città del nord dell’Iraq. Il 29 giugno attraverso un messaggio audio diffuso via internet e con alcuni documenti ufficiali in varie lingue fu annunciata la creazione dello Stato Islamico, guidato da Abu Bakr al Baghdadi, chiamato “califfo Ibrahim” dal suo primo nome.
Califfo in arabo significa “successore” ed è il titolo attribuito ai successori del profeta Maometto, il fondatore dell’Islam morto nel 632 d.C. e che fino ad allora rappresentava l’autorità temporale e spirituale: governava l’Umma (cioè la comunità religiosa), era giudice delle dispute interne, capo delle milizie e principale stratega.
Il califfato annunciato dall’ISIS fu imposto nell’area che va da Mosul alla periferia di Aleppo (in Siria) e da Rutba (nel sud dell’Iraq) alla periferia di Dayr az Zor (sempre in Siria). Il portavoce del gruppo Abu Muhammad al Adnani disse: «La legalità di tutti gli emirati, i gruppi, gli Stati e le organizzazioni diventa nulla con l’espansione dell’autorità del califfo e l’arrivo delle sue truppe nelle loro aree».
Sul momento non era chiaro quanto il nascente Stato Islamico potesse portare avanti la guerra (il numero dei suoi militanti non era noto), né se sarebbe stato in grado di controllare effettivamente il territorio. Però già nei mesi seguenti a ulteriori successi militari si aggiunsero l’appoggio di Boko Haram, movimento islamista nigeriano, e l’arrivo di migliaia di combattenti dall’estero. A novembre furono stimati in 15.000, da 80 diversi paesi, un anno dopo secondo i dati della CIA erano 30.000, di cui circa 3.500 provenienti da paesi occidentali.
Nei territori controllati lo Stato Islamico si impadronì delle banche, delle armi di provenienza americana dell’esercito iracheno e dei pozzi di petrolio. Cominciò a vendere petrolio a Siria e Turchia e a riscuotere tasse. Impose la sharia, un’interpretazione letterale e rigorosa della legge islamica; alle minoranze cristiane, turcomanne e yazide che non erano riuscite a fuggire impose di abbandonare i propri beni o pagare una “tassa di protezione”.
L’avanzata militare nei primi mesi fu travolgente e fu lanciata un’intensa attività di propaganda, che prese già da agosto 2014 la forma di video di esecuzioni di ostaggi girati in modo professionale. Nel primo un uomo mascherato di nero, che venne poi conosciuto come Jihadi John e identificato in un britannico nato in Kuwait, decapitava con un coltello il fotoreporter e corrispondente di guerra statunitense James Foley, vestito con una tuta arancione simile a quelle utilizzate nella prigione di Guantanamo, gestita dagli Stati Uniti a Cuba.
Quel video, che sconvolse l’opinione pubblica mondiale, divenne una sorta di format per molte esecuzioni simili. Gli ostaggi venivano torturati, decapitati o bruciati vivi. In altri video minacciavano direttamente i paesi europei e si chiamavano i militanti all’estero ad azioni di terrorismo.
Secondo la propaganda dell’ISIS quelle azioni erano una ritorsione per i bombardamenti che l’amministrazione statunitense di Barack Obama aveva autorizzato dal luglio 2014, a capo di una coalizione che comprendeva molti paesi occidentali (Italia compresa) e del Golfo Persico, fra gli altri. Dal settembre 2015 intervenne nella guerra all’ISIS anche la Russia, in supporto principalmente al regime siriano di Bashar al Assad.
A partire dal 2015 l’ISIS rivendicò una lunghissima serie di attentati che colpirono anche l’Europa (Parigi, Bruxelles, Manchester, Londra, Madrid fra i maggiori). La minaccia costituita dall’ISIS e dai suoi affiliati all’estero divenne la preoccupazione centrale della politica estera della maggior parte dei paesi occidentali.
Dalla fine del 2014, con un maggiore coinvolgimento degli eserciti stranieri, e soprattutto dell’aviazione statunitense, l’avanzata dell’ISIS sul campo si fermò: una delle battaglie più importanti fu quella di Kobane, città curda sul confine fra Siria e Turchia: qui la resistenza curda, sostenuta dall’esercito statunitense, causò enormi perdite all’ISIS. Anche la creazione di uno stato si dimostrò molto complessa e inefficiente: il cosiddetto califfato non riusciva a fornire ai suoi abitanti beni e servizi di prima necessità, né sicurezza, e governava utilizzando gli strumenti della paura e del terrore.
Già a partire dal 2015 l’ISIS perse buona parte dei suoi territori in Siria, ma furono necessari altri quattro anni prima della definitiva fine della guerra, dopo la caduta di Baghuz, dove si era concentrata l’ultima resistenza. Il califfo Abu Bakr al Baghdadi fu ucciso in un’operazione speciale statunitense nel 2019.