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  • Giovedì 27 giugno 2024

Alle elezioni in Iran si parla moltissimo della legge sull’hijab

Si vota venerdì, e l'obbligo per le donne di indossare il velo è diventato una questione così importante che tutti i candidati sono stati costretti a esprimersi, qualcuno perfino con moderazione

Una donna iraniana che non indossa il velo islamico obbligatorio fa un segno di vittoria mentre due donne che indossano un chador e un niqab le passano accanto nel vecchio bazar principale di Teheran (AP Photo/Vahid Sale mi)
Una donna iraniana che non indossa il velo islamico obbligatorio fa un segno di vittoria mentre due donne che indossano un chador e un niqab le passano accanto nel vecchio bazar principale di Teheran (AP Photo/Vahid Sale mi)
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Nelle ultime settimane l’obbligo per le donne iraniane di indossare il velo, o hijab, è diventato un tema importante nella campagna per le elezioni presidenziali in Iran, che si terranno venerdì 28 giugno. La legge che obbliga le donne a indossare l’hijab nei luoghi pubblici è stato il tema più discusso durante il terzo dibattito televisivo fra i sei candidati alla presidenza, tenutosi la settimana scorsa: le opinioni esposte sono state varie, ma tutti hanno concordato almeno a parole che usare violenza contro le donne che si rifiutano di indossare il velo sia un comportamento da evitare.

Oggi l’Iran è rimasto l’unico paese al mondo, insieme all’Afghanistan, ad avere leggi così dure sull’obbligatorietà di indossare il velo: non portarlo viene di solito punito con una multa o una pena detentiva che può durare tra i 10 giorni e i due mesi, ma anche con il sequestro dell’auto se la donna viene vista non indossare il velo mentre la sta guidando. La questione in Iran era diventata eccezionalmente controversa in seguito alle grandi manifestazioni avvenute in Iran nel 2022 dopo la morte di Mahsa Amini, una donna morta in custodia dopo che era stata arrestata dalla polizia religiosa perché non indossava il velo correttamente.

Le proteste per la morte di Mahsa Amini andarono avanti per mesi, non solo nelle grandi città, e divennero proteste per la difesa dei diritti delle donne e contro il regime religioso iraniano. Furono violentemente represse dal regime, un’operazione che portò alla morte di oltre 500 persone, anche attraverso condanne a morte eseguite dopo processi sommari, e alla detenzione di oltre 22mila. L’enorme seguito delle proteste, tuttavia, ha contribuito a un mutamento dell’opinione della popolazione iraniana in merito al velo, e questo si è riflettuto anche sulla campagna elettorale.

È assai improbabile che la legge sull’obbligo di indossare il velo sia abrogata o anche soltanto riformata in Iran, ma nonostante questo diversi attivisti e attiviste per i diritti delle donne ritengono che il fatto che sia diventata un argomento di discussione anche nella campagna elettorale, e che ne parlino anche candidati ultraconservatori, rappresenti di per sé una vittoria delle proteste. Oggi non portare il velo per strada è molto più accettato e normalizzato, specialmente fra le donne giovani che vivono nelle grandi città. L’effetto che questo ha avuto sulla polizia religiosa è stato duplice: alcuni agenti ormai si limitano a chiedere alle donne di rimettersi il velo se le incontrano per strada senza, altri adottano punizioni molto più serie.

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Fra i sei candidati alla presidenza, l’unico a sostenere un notevole ridimensionamento dell’obbligo di indossare l’hijab è stato l’ex ministro della Sanità Masoud Pezeshkian, l’unico candidato “riformista” (per gli standard ultraconservatori della classe politica iraniana) e che ha ridato speranza a coloro che vorrebbero un cambiamento della situazione in Iran. Pezeshkian non si è mai esplicitamente opposto all’obbligatorietà del velo, ma nelle scorse settimane aveva detto che «non si può attuare un pensiero con la forza. […] Questo metodo non andrà da nessuna parte e non dobbiamo odiarci a vicenda. Per quanto possibile, fermerò le pattuglie di controllo»: un concetto che ha ribadito durante il dibattito televisivo quando ha detto che «non potremo costringere le donne a indossare l’hijab».

La sua campagna era stata già criticata dai politici più conservatori per aver utilizzato la canzone “Baraye”, considerata l’inno delle proteste per la morte di Mahsa Amini, durante i suoi comizi e aver fatto parlare dal palco delle donne che non indossavano l’hijab.

Una sostenitrice di Masoud Pezeshkian non indossa il velo islamico e tiene in mano una foto di Mirhossein Mousavi, leader dell’opposizione alla fine degli anni Duemila e ora agli arresti domiciliari, durante un comizio di Pezeshkian, il 23 giugno 2024 (AP Photo/Vahid Salemi)

La presenza di Pezeshkian non è però l’unica novità, dato che anche gli altri cinque candidati, tutti conservatori e ultraconservatori, si sono espressi in modo più moderato riguardo alla questione durante il dibattito. Sulla scia di Pezeshkian, anche il candidato Mostafa Pourmohammadi ha detto che nel caso diventasse presidente abolirebbe le leggi che al momento sono in fase di approvazione in parlamento che renderebbero più dure le punizioni per le donne che non indossano il velo.

A settembre 2023 il parlamento iraniano aveva approvato una legge che aumentava fino a 8mila euro le multe per le donne che non portavano il velo e fino a 10 anni di prigione per quelle che non rispettavano questa regola “in forma organizzata e incoraggi altri a seguirne l’esempio”, che non è ancora però stata approvata definitivamente dal Consiglio dei guardiani della Costituzione. Il parlamento sta inoltre lavorando a una legge che imporrebbe altre punizioni, tra cui la negazione dei servizi sociali, l’imposizione di divieti di viaggio e la possibilità per la magistratura di prelevare fondi dai loro conti bancari.

Alcuni candidati alla presidenza sono direttamente coinvolti nella stesura di queste leggi, in particolare il presidente del parlamento Mohammad-Bagher Ghalibaf, il parlamentare Masoud Pezeshkian e il sindaco di Teheran Alireza Zakani: anche loro però durante il dibattito hanno criticato i metodi violenti della polizia per applicare quelle attualmente in vigore.

Ghalibaf ha per esempio definito il rifiuto delle donne iraniane di indossare l’hijab come «un flagello per la società», ma ha anche detto che «alcuni dei comportamenti della polizia […] non sono corretti e dobbiamo assolutamente evitare che si verifichino», facendo probabilmente riferimento a episodi come quello di dicembre del 2023, quando la polizia era stata accusata di aver mandato in coma una sedicenne che non indossava correttamente l’hijab.

Persino il candidato radicale Saeed Jalili, ex segretario del consiglio di Sicurezza nazionale, che è considerato il secondo papabile vincitore dietro Ghalibaf, è rimasto molto generico sulla questione e si è limitato a dire che «i nemici si sono concentrati sulla questione delle donne perché è uno dei nostri punti di forza».

I sei candidati alle elezioni presidenziali in Iran alla fine del dibattito televisivo del 25 giugno 2024: da sinistra, Masoud Pezeshkian, Alireza Zakani, Mostafa Pourmohammadi, Amirhossein Ghazizadeh Hashemi, Mohammad Bagher Qalibaf e Saeed Jalili (Morteza Fakhri Nezhad/IRIB via AP)

Se alcuni attivisti e attiviste hanno visto questo cambiamento come positivo, altri sostengono però che si tratti solo di parole necessarie a raccogliere consensi in un momento in cui i politici conservatori temono che una buona parte della popolazione si mobiliti per andare a votare Pezeshkian, dopo anni in cui l’affluenza al voto è stata in diminuzione e il malcontento della popolazione in aumento. Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace e fra le più importanti attiviste per i diritti delle donne in Iran, che attualmente sta scontando una condanna a 10 anni di carcere, ha rilasciato una dichiarazione in cui invitava le persone a boicottare le elezioni, definendole una farsa.

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In questo contesto è importante ricordare che il presidente non ha molto controllo sull’abolizione di una legge così importante per l’identità del regime iraniano come l’obbligatorietà del velo: dipende comunque dalla Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei, la principale autorità politica e religiosa del paese. In più, nonostante un parziale cambiamento dell’opinione pubblica sul velo islamico sia avvenuto, molti ancora sostengono una rigorosa applicazione della legge che lo rende obbligatorio e moltissime donne vengono ancora arrestate se non lo indossano. Alcune hanno anche raccontato di essere state convocate in tribunale attraverso un sms dopo essere state riprese da telecamere di sicurezza mentre non lo portavano e di essere state per questo multate.

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Negli anni immediatamente precedenti alle proteste del 2022, nella politica iraniana non si era parlato molto del velo islamico, sebbene sia sempre stato considerato un simbolo politico, che ha storicamente generato proteste. Dopo aver preso il potere alla fine della Prima guerra mondiale, lo scià Reza Pahlavi impose un’occidentalizzazione forzata dell’Iran e nel 1936 emise un decreto che vietava alle donne di indossare il velo in tutte le sue versioni in pubblico. Nel 1941 il divieto fu rimosso ma il governo mise in atto discriminazioni attive contro le donne che lo portavano, per esempio escludendole dal ricoprire incarichi pubblici. Nel frattempo la popolarità del regime scendeva e indossare il velo divenne un simbolo di ribellione: cominciarono a farlo non soltanto le donne appartenenti ai ceti più conservatori, ma anche quelle della classe media, istruite e benestanti, come segno di protesta.

Nel 1979 la rivoluzione islamica costrinse lo scià a fuggire dal paese e al suo posto si installò come Guida suprema (la principale autorità politica e religiosa iraniana) l’ayatollah Ruhollah Khomeini, un noto leader religioso sciita. In poco tempo Khomeini impose una rigida teocrazia, estromettendo dai posti di potere i non religiosi che avevano anch’essi contribuito alla rivoluzione. Uno dei cambiamenti più simbolici fu proprio l’introduzione dell’obbligo per tutte le donne di indossare il velo in pubblico, che fu molto contestato. Negli anni successivi vennero emanate delle leggi che instaurarono pene corporali, in particolare frustate, per le donne che uscivano di casa senza velo, rendendolo non più un simbolo di liberazione dal regime dello scià, ma un simbolo di oppressione del regime degli ayatollah.

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