I tre partiti di governo italiani hanno tre posizioni diverse sulle trattative in Europa

Forza Italia vuole accettare l'accordo sulla nuova Commissione che invece la Lega vuole sabotare, e Giorgia Meloni sta nel mezzo, ambigua

Da sinistra: Antonio Tajani, Matteo Salvini e Giorgia Meloni
Da sinistra: Antonio Tajani, Matteo Salvini e Giorgia Meloni (Roberto Monaldo/LaPresse)
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«Ah ’nfame!». A un certo punto del dibattito al Senato in vista del Consiglio Europeo, mercoledì pomeriggio, Giorgia Meloni si è rivolta così al ministro degli Esteri Antonio Tajani, che stava seduto alla sua destra. Lo ha fatto ridendo: scherzava. E lo ha fatto in reazione a un’osservazione un po’ provocatoria di Matteo Renzi, leader di Italia Viva. Meloni si era lamentata con toni molto polemici, poco prima, perché i leader impegnati nei negoziati per definire gli incarichi più importanti delle istituzioni dell’Unione Europea hanno deciso di escludere il governo italiano dalle trattative. Renzi le aveva fatto notare che i protagonisti delle trattative in Europa erano stati proprio i dirigenti del PPE, il Partito popolare europeo di cui fa parte Forza Italia di Tajani, e in particolare i suoi negoziatori, cioè il primo ministro polacco Donald Tusk e quello greco Kyriakos Mitsotakis: «Se lei vuol sapere chi non l’ha chiamata ai “caminetti” [espressione usata proprio da Meloni per riferirsi ai negoziati, ndr] si volti piano piano verso destra, piano piano, non lo faccia di scatto, e guardi il ministro Tajani». A quel punto Meloni ha apostrofato scherzosamente il segretario di Forza Italia.

Poco dopo, mentre interveniva il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo, Meloni si è fatta invece più seria. Romeo è notoriamente scettico sul sostegno militare all’Ucraina. Quando ha commentato le posizioni del governo in merito alla possibilità di un’apertura di un negoziato tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin («il nostro auspicio è che alla prossima conferenza di pace venga invitata anche la Russia»), Meloni si è alzata ed è uscita dall’aula con un gesto di insofferenza, accompagnato dai brusii di vari senatori della Lega.

Sono due scene come se ne vedono tante nelle aule parlamentari, ma spiegano a loro modo, da prospettive diverse, le effettive contraddizioni nel governo italiano riguardo alla nascente Commissione Europea e alla linea che dovrà avere in politica estera. Dopo le elezioni per il Parlamento Europeo dell’8 e del 9 giugno, sono cominciate le complicate trattative per decidere gli assetti istituzionali e le alleanze politiche nella nuova legislatura, tra cui chi guiderà la nuova Commissione, che è una specie di “governo” dell’Unione. Ma in merito a queste trattative i tre partiti di governo hanno tre posizioni diverse, per certi aspetti divergenti per altri più nettamente incompatibili, e tutti i tentativi fatti di conciliare gli approcci tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia sono di fatto falliti.

Così al decisivo Consiglio Europeo di giovedì e venerdì, cioè la riunione dei capi di Stato e di governo dei 27 paesi membri convocato per approvare definitivamente l’accordo sui principali incarichi comunitari, Meloni è andata con un mandato e con propositi ambigui, che riflettono le differenti visioni del suo governo.

Giorgia Meloni accoglie la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen al G7 di Borgo Egnazia in Puglia, il 13 giugno 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

L’accordo su questi incarichi, i cosiddetti top jobs, si era definito in verità nelle ore seguenti alla fine delle elezioni europee. Negli incontri formali e informali tra i vari leader che si sono svolti in queste ultime settimane erano emersi chiaramente due elementi. In primo luogo, la determinazione delle principali famiglie europeiste – i Popolari di centrodestra, i Socialisti di centrosinistra e i Liberali di centro – di rinnovare anche questa volta l’accordo che praticamente da sempre compone la maggioranza a sostegno delle istituzioni europee. In secondo luogo, si era manifestata in modo netto l’intenzione di riconfermare Ursula von der Leyen, tedesca del PPE, alla presidenza della Commissione; di mettere alla guida del Consiglio Europeo l’ex primo ministro socialista portoghese Antonio Costa; e di nominare Kaja Kallas, prima ministra estone in rappresentanza dei Liberali, alto commissario alla Politica estera, cioè capo della diplomazia europea. Tutte nomine che sono state confermate giovedì sera.

– Leggi anche: Le trattative in Europa sono complicate per Giorgia Meloni

Meloni ha contestato fin dall’inizio entrambi gli approcci, poiché secondo lei questo accordo non tiene conto dell’esito delle elezioni e della significativa crescita dei partiti di destra. Ha fatto notare come ECR, la famiglia dei partiti di destra sovranisti dei Conservatori e riformisti europei di cui proprio Meloni è presidente, si fosse affermata come terzo gruppo per numero di esponenti al Parlamento Europeo.

Peraltro questo risultato è stato raggiunto da ECR anche grazie alla decisione di accogliere al suo interno, dopo il voto, alcune delegazioni di destra: i cinque europarlamentari romeni di AUR, i quattro francesi di Reconquête, e poi vari singoli eletti di destra lituani, lussemburghesi, lettoni, danesi, bulgari, ciprioti, croati. I nuovi arrivi hanno consentito ai Conservatori di costituire per ora un gruppo più numeroso di quello dei Liberali. Essendo a capo del terzo partito europeo oltre che la presidente del Consiglio del terzo più importante paese dell’Unione, Meloni ha rivendicato un maggiore coinvolgimento nei negoziati, e ha chiesto che l’assegnazione degli incarichi fosse rimandata quantomeno di qualche settimana, magari dopo le elezioni parlamentari previste in Francia.

Non è successo. Anzi, proprio come risposta alla crescita dei partiti di estrema destra e antieuropeisti, il cancelliere socialdemocratico tedesco Olaf Scholz e il presidente liberale francese Emmanuel Macron, usciti piuttosto indeboliti dalle elezioni, hanno sollecitato di chiudere un accordo in tempi rapidi, trovando peraltro un convinto sostegno nei dirigenti Popolari. Sono stati loro a sancire l’indisponibilità del PPE ad avviare un confronto con ECR, escludendo quindi il gruppo dalla futura maggioranza.

Manfred Weber insieme ad Antonio Tajani al Congresso nazionale di Forza Italia a Roma, il 23 febbraio 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Tutto ciò ha complicato la posizione di Tajani: da segretario di Forza Italia, è uno dei più longevi dirigenti del PPE ed esclude con nettezza qualsiasi ipotesi di collaborazione con ECR; al contrario, da vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri del governo italiano, ha provato a propiziare un coinvolgimento di Meloni nei negoziati. Tajani ha esercitato questo doppio ruolo con difficoltà: sia nella riunione del PPE del 17 giugno scorso, sia in quella di giovedì mattina poco prima dell’inizio del Consiglio Europeo, ha provato a dare maggiore consistenza alla corrente più di destra del PPE, quella rappresentata tra gli altri dal presidente Manfred Weber, il quale da tempo si mostra assai meno refrattario di Tusk a un’eventuale apertura dei Popolari verso alcune componenti di ECR, a partire proprio da Fratelli d’Italia. Finora, però, questa posizione è rimasta minoritaria.

Se dunque l’ipotesi di un’intesa organica in Europa tra il partito di Meloni e quello di Tajani è diventata improbabile, allo stesso tempo lo è anche l’eventualità di una convergenza tra Fratelli d’Italia e Lega. Salvini aveva espresso proprio quest’auspicio, in campagna elettorale, cioè favorire un accordo tra ECR e Identità e Democrazia (ID), il gruppo di estrema destra di cui fa parte la Lega insieme al Rassemblement National di Marine Le Pen, così da costituire un unico grande blocco coi partiti di destra sovranisti, più o meno estremi, che si proponesse a quel punto come interlocutore del PPE per formare una maggioranza spostata a destra al Parlamento Europeo. Ma alcuni dei partiti di ID sono considerati dal PPE proprio irricevibili, ancora di più di quelli che stanno in ECR.

Non è un caso che Meloni, al di là dei tatticismi e delle dichiarazioni strumentali fatte in campagna elettorale, abbia sempre evitato di accostare troppo Fratelli d’Italia a ID, per evitare veti sul suo conto da parte del PPE.

Ora che però quei veti sono stati messi comunque, la Lega ci tiene a far notare come la posizione di Salvini, risolutamente ostile fin dall’inizio a qualsiasi ipotesi di accordo intorno a una riproposizione della Commissione Europea guidata da von der Leyen e sostenuta anche dai Socialisti, fosse quella giusta, mentre Meloni avrebbe sbagliato a provare a entrare nelle trattative.

E infatti la Lega è tornata a utilizzare toni molto critici sul sostegno militare all’Ucraina, che è proprio uno di quei temi che von der Leyen e buona parte del PPE utilizzano come discrimine per separare i partiti con cui si può cercare un accordo e quelli che invece vanno tenuti lontani dalla maggioranza europeista (giovedì, al Consiglio Europeo, è stato invitato Zelensky per ribadire la volontà dell’Unione di continuare ad aiutare la resistenza ucraina contro l’invasione russa).

Matteo Salvini con Marine Le Pen al raduno della Lega a Pontida, il 17 settembre 2023 (Claudio Furlan/LaPresse)

Il vicesegretario della Lega Andrea Crippa, per esempio, suggerisce da tempo una tattica molto oltranzista: siccome il Parlamento Europeo dovrà confermare con un voto a maggioranza assoluta la presidente della Commissione indicata dal Consiglio, e siccome per ora la maggioranza a favore di von der Leyen nell’assemblea è ampia ma non del tutto rassicurante, secondo Crippa sarebbe stato il caso di schierare subito sia Lega sia Fratelli d’Italia tra i contrari, sperando così di rendere meno sicuri i numeri di von der Leyen e riaprire le trattative. L’ipotesi inizia in effetti ad avere seguito anche tra gli europarlamentari di Fratelli d’Italia.

In ogni caso, al Consiglio Europeo decisivo i tre partiti di governo sono arrivati con tre posizioni diverse. Da un lato Forza Italia era intenzionata ad avallare l’accordo trovato sui top jobs; dall’altro la Lega era risolutamente contraria. E in mezzo c’era Fratelli d’Italia, che ha una posizione ambigua. Ieri, al termine dell’intervento alla Camera in cui Meloni ha usato toni e argomenti molto polemici verso l’Unione Europea, Tajani ha ribadito che sarebbe comunque sbagliato per il governo italiano non votare a favore dell’accordo sui top jobs, e che semmai si dovrebbe puntare a ottenere un incarico di prestigio all’interno della Commissione, con una delega economica e una vicepresidenza. In quegli stessi minuti, però, lo staff di Salvini ha diffuso un comunicato in cui elogiava la determinazione di Meloni contro la «pessima arroganza dei burocrati e degli oligarchi di Bruxelles che procedono con la spartizione di poltrone fregandosene della volontà popolare», aggiungendo che «la Lega non sosterrà alcun inciucio con i socialisti, responsabili di scelte scellerate degli ultimi anni, e lavora per rafforzare un’alternativa».

Sulla base di questi input contrastanti, Meloni è arrivata dunque al Consiglio Europeo senza dire chiaramente quali fossero le sue intenzioni. Secondo quanto dichiarato prima delle votazioni, si sarebbe astenuta durante il voto su von der Leyen, e avrebbe votato contro Costa e Kallas.