Il Kenya non è stabile come dice di essere
Mentre scoppiavano le proteste nel paese, il governo inviava centinaia di poliziotti e militari per stabilizzare Haiti, tra notevoli polemiche
Martedì in Kenya le proteste contro un aumento delle tasse deciso dal governo si sono trasformate in scontri violenti: a Nairobi un gruppo di manifestanti ha fatto irruzione in parlamento, la polizia e l’esercito hanno represso con la violenza le manifestazioni, causando almeno ventidue morti e una trentina di feriti. Nello stesso giorno è arrivato a Haiti il primo gruppo di 400 poliziotti kenyani che guideranno la missione internazionale promossa dalle Nazioni Unite con l’obiettivo di liberare il paese caraibico dal controllo delle bande criminali.
La concomitanza dei due eventi ha evidenziato come esista una grande distanza fra le ambizioni internazionali del presidente del Kenya William Ruto, che propone il paese come forza stabile nell’Africa orientale e alleato affidabile degli Stati Uniti e dell’Occidente, e la situazione interna. La sua leadership è contestata sin dalle elezioni del 2022, vinte con accuse di brogli, e in modo crescente in questi due anni, soprattutto per la gestione dell’economia e degli effetti dell’inflazione.
L’amministrazione del presidente Joe Biden aveva promosso relazioni più strette fra Stati Uniti e Kenya, finanziando la missione ONU a Haiti guidata dal Kenya e promuovendo ufficialmente lunedì il paese africano allo status di «principale alleato extra NATO». Il Kenya e il suo leader Ruto erano stati individuati come alleati stabili in un’area complessa e in un continente in cui l’influenza statunitense è sempre minore.
Questo progetto sembra ora meno solido: le proteste di questi giorni si sono estese, passando dalla richiesta di eliminare le nuove tasse (accolta dal governo mercoledì) a richiedere le dimissioni del presidente Ruto, mentre la risposta violenta della polizia sembra confermare le denunce di molte organizzazioni non governative, che da anni accusano le forze di sicurezza kenyane di uso eccessivo della forza, violenze ed esecuzioni extragiudiziali.
Il Kenya ha 54 milioni di abitanti e negli ultimi anni è una delle economie più in crescita del continente, grazie anche a investimenti stranieri nel settore digitale. Ruto, uomo d’affari proveniente da una famiglia molto povera, era stato eletto nel 2022 con la promessa di sostenere i lavoratori kenyani e risanare i conti dello stato, alle prese con un deficit elevato. Negli ultimi anni però la crescita economica del paese non ha coinvolto la gran parte della popolazione e anche la classe media è stata messa in crisi dall’aumento dei prezzi (su base annua è oggi all’8 per cento), dal crollo del valore della moneta (che ha perso il 25 per cento in un anno in rapporto al dollaro) e da un calo dell’occupazione nel settore privato (70mila posti di lavoro persi).
Le nuove tasse erano state definite necessarie per risanare i conti e portare avanti progetti di ristrutturazione delle strade, di assunzione di insegnanti e di sovvenzioni ai contadini, ma riguardavano beni di prima necessità come il pane, o di uso comune come le automobili. Hanno quindi causato proteste, come era accaduto già un anno fa.
Ruto è inoltre criticato per le spese della sua amministrazione, considerate eccessive, per presunti episodi di corruzione nel suo governo e per i numerosissimi viaggi all’estero. Ha fatto 62 visite ufficiali in 38 paesi nei primi venti mesi di presidenza, aumentando il budget per i viaggi presidenziali del 40 per cento in un anno. La più importante di queste visite è stata a Washington, ma il suo attivismo internazionale lo ha portato anche a ospitare il Re Carlo III del Regno Unito e la riunione dei paesi africani sul clima (diventando uno dei capi di stato africani più influenti sul tema del contrasto al cambiamento climatico). Si è proposto come mediatore fra i due generali che da oltre un anno si scontrano in una guerra civile in Sudan e ha cercato soluzioni per il conflitto nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo.
L’iniziativa più rilevante è stata però la decisione di fornire oltre 1.000 fra poliziotti e militari per guidare una missione internazionale a Haiti, approvata a ottobre dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. È una missione complessa, che dovrebbe contrastare le bande criminali che controllano ampie zone del paese e gran parte della capitale Port-au-Prince: vi parteciperanno anche Bahamas, Bangladesh, Barbados, Belize, Benin, Ciad e Giamaica, ma il Kenya da subito si è offerto di guidarla. I primi 400 poliziotti sono arrivati a Haiti proprio martedì, dopo lunghe questioni legali.
La decisione di affidare a poliziotti kenyani la missione ONU era stata molto criticata da varie organizzazioni umanitarie, fra cui Amnesty International. La polizia kenyana ha una lunga storia di abusi, rapimenti, pestaggi e uccisioni extragiudiziali, iniziata durante la colonizzazione britannica e proseguita dopo l’indipendenza. In particolare le Unità di Servizio Generale (GSU), che intervengono in caso di manifestazioni violente o attacchi terroristici, e le Flying Squad sono state accusate spesso di operare con metodi poco ortodossi, violenti e approfittando di una quasi totale impunità.
Nel 2009 il relatore speciale delle Nazioni Unite Philip Alston scrisse in un rapporto sul tema che la «polizia kenyana spesso uccide singoli sospettati» e che esistevano «squadre della morte della polizia». Sempre più frequentemente queste forze speciali vengono utilizzate per reprimere le proteste politiche: un anno fa durante le prime proteste per l’aumento delle tasse furono uccise almeno nove persone fra i manifestanti, martedì i morti sono stati almeno ventidue.
Secondo varie testimonianze per reprimere le proteste la polizia ha utilizzato gas lacrimogeni ma anche armi convenzionali, sparando sulla folla. Un gran numero di manifestanti è stato arrestato, mentre il presidente Ruto ha detto che «legittime proteste sono state trasformate da gruppi criminali organizzati» e ha annunciato che utilizzerà anche l’esercito per bloccarle. Poi ha invece acconsentito a ritirare le leggi che aumentano le tasse, che erano state approvate dal parlamento.