Abbiamo sempre deturpato le opere d’arte
Per iconoclastia, per motivi politici, per sbaglio, per creare altra arte, e a volte per nessun motivo
La deturpazione di dipinti, sculture, edifici storici e siti archeologici è da alcuni anni un argomento reso di attualità dalle azioni di numerosi gruppi ecologisti che chiedono di smettere di usare combustibili fossili. Sono gesti che tendono ad attirare molte attenzioni e anche critiche severe: non solo per gli effetti materiali che producono, eclatanti ma spesso reversibili, ma anche per i rischi che gli autori e le autrici corrono nel compierli.
Ma la deturpazione di opere d’arte, per quanto eccezionale, non è un gesto “nuovo” né recente nella storia dell’umanità: probabilmente è antico almeno quanto l’arte stessa, anzi. In generale, per le stesse ragioni per cui attribuiamo a determinati manufatti un valore artistico, attribuiamo a essi anche valore economico, sacralità, unicità e autenticità: ciò che il filosofo e critico letterario tedesco Walter Benjamin definiva «aura» dell’opera d’arte. Di conseguenza ogni gesto volto a danneggiare ciò che consideriamo arte, rispetto ai gesti dello stesso tipo contro oggetti non artistici, attira un’attenzione diversa perché è intrinsecamente dissacrante.
Nel corso della storia gli esseri umani hanno compiuto atti vandalici contro le opere d’arte per molti motivi diversi: religiosi, politici, di ritorsione, ma anche artistici e accidentali. A volte hanno danneggiato opere d’arte senza alcun motivo. Per quanto eccentriche e controverse nel dibattito degli ultimi anni, le attività recenti degli attivisti del clima – dalle zuppe di pomodoro versate sui quadri nei musei all’imbrattamento di monumenti e palazzi storici – non sono attività diverse da molte altre simili del passato, indipendentemente dalla reversibilità degli effetti che provocano.
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Diverse fonti attribuiscono al presbitero francese Henri Jean-Baptiste Grégoire, vescovo di Blois, nella valle della Loira, uno dei primi utilizzi documentati dell’espressione «vandalismo». Nel 1794 Grégoire la usò durante la Convenzione nazionale – l’assemblea in vigore durante la Rivoluzione francese – per descrivere e contestare la distruzione delle opere d’arte associate all’ancien régime da parte dei rivoluzionari. I Vandali erano una tribù germanica orientale che invase i territori dell’Impero Romano nel V secolo provocando saccheggi e distruzioni, anche di molti monumenti dell’arte antica.
L’esempio dei danni provocati dai rivoluzionari francesi mostra il rapporto molto stretto tra arte e potere descritto, tra gli altri, dallo stesso Benjamin. L’irripetibilità delle opere d’arte è la condizione che rende possibile detenere le opere d’arte ed esercitare attraverso di esse un controllo sociale. Durante la Rivoluzione francese molte decorazioni della cattedrale di Notre-Dame vennero distrutte, tra cui quattro statue di monarchi francesi considerate sia capolavori dell’arte medievale europea che simbolo di un ordine politico che i rivoluzionari intendevano sovvertire. Le statue furono decapitate qualche mese dopo la decapitazione di Luigi XVI e Maria Antonietta, per poi essere ricostruite a metà Ottocento.
Già tra il VIII e il IX secolo, per ragioni di altro tipo, l’iconoclastia bizantina – l’avversione per l’uso di immagini sacre nell’Impero bizantino – aveva provocato la distruzione di una parte del patrimonio artistico esistente. E aveva anche portato a un divieto esplicito di produrre nuove opere che aderissero a canoni estetici che erano stati fino a quel momento un riferimento per le arti figurative di altre culture nel bacino del Mediterraneo.
Alcuni storici fanno simbolicamente risalire l’inizio dell’iconoclastia bizantina al 726, quattro anni prima dell’emanazione di un editto che avrebbe poi ordinato la distruzione di tutte le icone religiose. L’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico aveva fatto rimuovere dalla lunetta della porta di ingresso del palazzo imperiale di Costantinopoli l’immagine venerata di un Cristo a mezzo busto, che era stata sostituita con una croce. Altri storici ritengono invece insufficienti le prove che dimostrerebbero l’iconoclastia di Leone III, e considerano invece suo figlio Costantino V l’imperatore bizantino più impegnato nell’attuazione delle politiche iconoclaste, anche attraverso la persecuzione dei gruppi religiosi iconoduli, cioè che difendevano il valore delle icone.
Più di milleduecento anni dopo Costantino V e l’iconoclastia bizantina, la distruzione di opere d’arte oggetto di idolatria fu l’obiettivo di una serie di altri atti vandalici compiuti per motivi religiosi. Nel 2001, nella valle di Bamiyan, in Afghanistan, i talebani utilizzarono degli esplosivi per distruggere due gigantesche statue di Buddha scolpite nella roccia, che erano state costruite intorno al 570 e al 618 ed erano giunte fino all’epoca contemporanea in buono stato di conservazione, sebbene danneggiate. Nel 2003 l’UNESCO inserì l’area in cui si trovano i resti delle statue nella lista dei siti patrimonio dell’umanità, e nel 2011 annunciò un programma per ricostruirle utilizzando in parte i frammenti di roccia residui.
Secondo la giornalista e scrittrice iraniana Farah Nayeri, autrice del libro del 2022 Takedown: Art and Power in the Digital Age, un momento significativo per l’evoluzione del vandalismo delle opere d’arte nella storia moderna fu in Europa la nascita dei musei pubblici nel XVIII secolo. Prima di allora le opere erano perlopiù fuori dalla portata del pubblico più ampio, scrive Nayeri, e il vandalismo era un fenomeno non legato a quello dell’accessibilità e della democratizzazione dell’arte, e indipendente dall’esposizione mediatica che riceveva.
La condizione che ha reso possibile che emergesse la figura del «vandalo per una causa», secondo Nayeri, è che da un certo punto in poi fruire dell’opera d’arte è diventato semplice e spesso gratuito. Ma a differenza di altre opere come libri, musica e film, che sono riproducibili, le opere da museo hanno mantenuto una loro unicità. Ed è questa la ragione che motiva da un lato il fatto che siano visitate ogni giorno da milioni di persone, e dall’altro l’attenzione mediatica verso qualsiasi danno provocato alle opere.
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Nel 2023 la Venere Rokeby, un dipinto del pittore spagnolo Diego Velázquez risalente alla metà del Seicento ed esposto alla National Gallery di Londra, fu oggetto di un gesto vandalico del gruppo di attivisti Just Stop Oil. Ma oltre un secolo prima, nel 1914, quello stesso dipinto era stato ripetutamente squarciato con una lama dalla suffragista Mary Richardson, in segno di protesta contro l’arresto di Emmeline Pankhurst, leader della parte più radicale del movimento che chiedeva anche per le donne il diritto di voto. Il dipinto era poi stato riparato.
Guernica di Pablo Picasso, una delle più famose opere d’arte sul tema della guerra, fu deturpato negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam. Nel 1974, un anno dopo la morte di Picasso, un artista iraniano chiamato Tony Shafrazi era in visita al Museum of Modern Art a New York, dove era esposto in quel periodo Guernica. Tirò fuori da una tasca una bomboletta e scrisse sul dipinto «Kill Lies All», un’espressione volutamente ambigua per dire «tutte le bugie uccidono» ma facendo pure una mezza citazione del Finnegans Wake di James Joyce («Lies. All lies»), come spiegò in seguito. La vernice fu rimossa in meno di un’ora utilizzando un solvente.
Shafrazi era un membro dell’Art Workers’ Coalition, un gruppo di artisti, registi, scrittori e critici. Descrisse il suo gesto vandalico come un atto di protesta contro la grazia concessa dal presidente Richard Nixon a William L. Calley, un tenente dell’esercito processato e condannato all’ergastolo per il massacro di My Lai avvenuto sei anni prima, quando l’esercito statunitense aveva stuprato, torturato e ucciso centinaia di civili vietnamiti inermi, inclusi anziani e bambini.
Tra le più famose opere d’arte vandalizzate nel corso del Novecento c’è la Pietà di Michelangelo nella basilica di San Pietro in Vaticano. Nel 1972 un trentatreenne australiano di origine ungherese, László Tóth, colpì più volte la scultura con un martello da geologo, provocando il distacco del naso e del braccio sinistro dalla statua, il cui restauro richiese nove mesi di lavoro. Tóth disse di essere Cristo e di voler distruggere le sue raffigurazioni: fu in seguito ricoverato per due anni in una clinica, prima di tornare in Australia dove morì nel 2012.
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Nel 2012 si parlò molto anche della deturpazione involontaria di un affresco in una chiesa di Borja, una cittadina nel nord della Spagna, provocata da un maldestro restauro da parte di un’anziana pittrice dilettante senza alcuna esperienza nel settore. L’immagine sull’affresco, un Cristo dipinto a inizio Novecento dall’artista spagnolo Elías García Martínez, fu totalmente sfigurata.
Un’opera molto più nota e importante, vandalizzata più volte e intenzionalmente, fu l’orinatoio Fontana dell’artista francese dadaista Marcel Duchamp, il suo più famoso esempio di arte ready-made: normali oggetti resi opere da semplici interventi artistici. Nel 1993 il performance artist francese Pierre Pinoncelli fu arrestato e condannato a pagare un cospicuo risarcimento per aver colpito con un martello e spaccato una delle repliche autorizzate dell’opera di Duchamp che era esposta al Carré d’Art a Nîmes (l’opera originale andò perduta quasi subito, dopo la prima esposizione nel 1917). Nel 2006 Pinoncelli ripeté lo stesso gesto su una replica dell’orinatoio esposta al Centre Pompidou: interrogato dalla polizia disse che il suo attacco era un’opera d’arte performativa e che i dadaisti avrebbero apprezzato.
Nel 2000, con motivazioni in parte simili a quelle di Pinoncelli, gli artisti cinesi Yuan Cai e Jian Jun Xi urinarono su una replica dell’opera di Duchamp esposta alla Tate Modern a Londra. Alla domanda sulle ragioni del loro gesto risposero: «L’orinatoio è lì, è un invito. Come ha affermato lo stesso Duchamp, è la scelta dell’artista. Sceglie lui cos’è arte. Noi ne abbiamo solo aggiunta».
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Quanto più è popolare un’opera d’arte, tanto più tende a essere clamoroso ogni atto vandalico, e maggiori le protezioni materiali dell’opera. Il dipinto probabilmente più celebre e protetto al mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, è anche la singola opera artistica più attaccata nel Novecento: una specie di «bersaglio delle freccette per vandali in cerca di attenzione», scrisse Nayeri su Artnet News nel 2022.
Nel 1956 la Gioconda subì due diversi attacchi: il primo da parte di una persona che scagliò dell’acido contro il dipinto, e il secondo da una persona che lanciò contro il dipinto un sasso. Il vetro antiproiettile che da allora protegge il quadro non impedì altri atti vandalici, ma ridusse il rischio di conseguenze permanenti. Nel 1974, mentre la Gioconda era esposta al Museo nazionale di Tokyo, una donna spruzzò della vernice sul vetro di protezione del quadro, in segno di protesta contro l’inaccessibilità del museo per le persone con disabilità. Nel 2009, al Louvre, una donna russa lanciò contro il quadro una tazza di terracotta che aveva comprato nel museo, per protestare per il fatto che la sua richiesta di ottenere la cittadinanza francese fosse stata respinta.
Nel 2022 una persona imbrattò la teca della Gioconda con una torta, dopo essersi avvicinata al dipinto seduta su una sedia a rotelle e con una parrucca in testa. «Pensate al pianeta, è per questo che l’ho fatto», disse la persona mentre veniva scortata dalle guardie fuori dal museo. Il 28 gennaio scorso due attiviste del gruppo ambientalista Riposte Alimentaire (“reazione alimentare”) hanno tirato della zuppa contro la teca della Gioconda reclamando «il diritto a un’alimentazione sana e sostenibile».
Anche se l’aumento recente di atti vandalici ha portato a un aumento delle misure di sicurezza introdotte nei musei, diversi esperti affermano che le teche sono pensate per proteggere le opere da raggi ultravioletti e polvere, ma non da infiltrazioni di liquidi come salse e zuppe. Il personale addetto alla sicurezza nei musei è inoltre perlopiù impreparato rispetto al compito eventuale di perquisire ogni visitatore. Che però è ciò che le compagnie assicurative potrebbero via via richiedere sempre più spesso in futuro ai musei con cui lavorano, disse all’Atlantic nel 2022 Jonathan Foley, direttore esecutivo dell’organizzazione non profit per il clima Project Drawdown, contrario alle politiche ambientaliste che prendono di mira le opere d’arte nei musei.
«Danneggi organizzazioni che sono spesso in debito, che hanno difficoltà finanziarie», disse Foley, segnalando il rischio che questo tipo di azioni finisca soltanto per ridurre l’accessibilità del pubblico all’arte.