Perché il centrosinistra va forte nelle città ma fatica alle elezioni regionali
In Lombardia, ma anche in Basilicata e Molise, governa molti capoluoghi nonostante le giunte regionali di centrodestra: e non è solo una questione di differenze sociali
L’esito delle elezioni amministrative ha confermato e ampliato la sensazione che il centrosinistra sia capace di proporre candidature vincenti nelle grandi città. Tra il primo e il secondo turno si è votato in 29 capoluoghi di provincia: in 17 di questi ha vinto il centrosinistra, che ne amministrava 13; il centrodestra, che aveva 12 sindaci uscenti, ora ne ha 10; il Movimento 5 Stelle, che governava due capoluoghi, ha perso in entrambi. Inoltre il centrosinistra ha vinto in tutti e 6 i capoluoghi di regione in cui si votava, sottraendone uno al M5S (Campobasso) e due al centrodestra (Potenza e Perugia). È un risultato notevole, per quanto non indicativo di chissà quale tendenza nazionale.
Questo buon risultato, che rispecchia del resto una tendenza abbastanza consolidata negli ultimi anni, mostra però per converso anche una debolezza del centrosinistra: e cioè che alcune regioni in cui il Partito Democratico e i suoi alleati controllano tutti o quasi i capoluoghi di provincia sono invece governate stabilmente dal centrodestra. Vale sia al Nord sia al Sud, sia in regioni grandi e produttive sia in quelle più piccole e meno ricche.
In alcuni casi questa anomalia si spiega con una diversa composizione sociale tra gli elettorati delle grandi città e quelli dei paesi più piccoli, e con i diversi orientamenti politici che vi sono diffusi; in altri, con la capacità della destra di politicizzare il voto per le regionali; in altri ancora, più banalmente, da ripetuti errori tattici del centrosinistra, e con le divisioni tra i partiti che ne fanno parte.
La Lombardia è il caso più significativo. In tutti e tre i capoluoghi in cui si è votato il centrosinistra ha vinto. A Bergamo, dopo i dieci anni di governo di Giorgio Gori (eletto al Parlamento Europeo), il PD ha vinto agevolmente al primo turno con Elena Carnevali; a Pavia, governata nei cinque anni scorsi dal centrodestra col leghista Fabrizio Fracassi, il centrosinistra ha vinto al primo turno col candidato del PD Michele Lissia; a Cremona, invece, c’è stata più competizione e il PD, che amministrava quella città da dieci anni con Gianluca Galimberti, ha vinto al ballottaggio con Andrea Virgilio per soli 192 voti. E così, 10 dei 12 capoluoghi di provincia lombardi sono ora amministrati dal PD e dal centrosinistra. Rimangono fuori solo Sondrio, dove dal 2018 è sindaco Marco Scaramellini, sostenuto dal centrodestra, e Como, dove nel 2022 vinse Alessandro Rapinese, un candidato indipendente e difficile da inquadrare, che ha sconfitto al ballottaggio il centrosinistra dopo però aver fatto una dura campagna elettorale contro i partiti della destra.
Eppure, da quando è stata introdotta l’elezione diretta dei presidenti di regione, in Lombardia ha sempre governato il centrodestra. Tra il 1995 e il 2013 è stato presidente l’ex democristiano ed esponente di Forza Italia, Roberto Formigoni, poi si sono succeduti i leghisti Roberto Maroni (fino al 2018) e Attilio Fontana. L’ultima volta, nel febbraio del 2023, alle regionali venne riconfermato Fontana col 54,67 per cento dei voti, oltre 20 punti in più del candidato del centrosinistra Pierfrancesco Majorino, che ottenne il 33,93 per cento. Cinque anni prima, per certi versi, la differenza tra governo delle città e voto in regione fu ancor più evidente, come ricorda il senatore del PD Alessandro Alfieri, all’epoca segretario regionale: «Nel 2018 amministravamo tutti e 12 i capoluoghi, e però alle regionali perdemmo di 20 punti pur candidando Giorgio Gori, uno dei sindaci più apprezzati».
Alla base di tutto ciò c’è di certo una questione sociale. Dei 10 milioni di abitanti lombardi, secondo i dati dell’ISTAT 2,1 milioni risiedono nei comuni dei capoluoghi di provincia: solo un quinto, dunque, vive nei centri delle grandi città. «E in Lombardia più che altrove questa differenza è notevole, e ti spiega anche le diversità nei comportamenti elettorali», spiega Alfieri. «Io vivo a Milano ma ho una casa anche in un comune dell’alto varesotto, Cunardo. Ebbene, la stessa tipologia di elettore che a Milano fa volontariato per il doposcuola nelle case popolari e nel piccolo comune in provincia di Varese dedica invece una parte del suo tempo libero alla Protezione civile o ad associazioni varie, a Milano vota per il PD e a Cunardo vota per la Lega. E questo non perché a Cunardo siano razzisti: il punto è che nei piccoli centri si avverte una grossa paura che la propria vita, con ritmi conosciuti e consolidati, possa cambiare troppo rapidamente. Se il PD non si fa carico anche della domanda di protezione e rassicurazione diffusa nei piccoli paesi e nelle periferie, continuerà a faticare enormemente a vincere le regionali».
Lo stesso Gori, che pure sconsiglia letture sociologiche troppo sbrigative per cui i valligiani sono leghisti mentre il PD va forte “nelle ZTL”, analizza la differenza tra il voto nelle grandi città e quello nei piccoli centri sulla base di un altro dato: «Il voto regionale appartiene alla sfera dei voti “politici”, in cui il comportamento elettorale delle città è generalmente distinto da quello dei piccoli centri extraurbani». Gori ricorda ad esempio che nel 2019, «quando io vinsi al primo turno le comunali col 55 per cento, lo stesso giorno a livello provinciale il voto europeo assegnò alla sola Lega il 51 per cento dei voti, e al centrodestra il 65 per cento». Insomma, se nella scelta del sindaco a volte prevale un sentimento più pratico, mosso dalla ricerca di una persona affidabile, da simpatie umane personali che vanno spesso al di là, o che restano al di qua, delle convinzioni ideologiche degli elettori, il voto per le regionali è indotto invece per lo più proprio dal senso di appartenenza a un partito o a uno schieramento.
«Più i comuni sono piccoli e più prevale un sentimento di incertezza, di esclusione, di paura del futuro che la destra colma coi suoi slogan nostalgici», prosegue Gori. «Slogan che nelle grandi città hanno meno fortuna perché chi abita lì ha forse una diversa apertura che deriva, secondo me, da un maggiore “allenamento alla diversità e al cambiamento”, per così dire. Si ha più timore degli immigrati dove non ve ne sono, o ve ne sono pochi, che nelle città in cui pesano per il 15 o il 20 per cento della popolazione. Non vinceremo le regionali finché non daremo convincenti risposte “di sinistra” alla domanda di protezione che viene dai piccoli centri. Oppure, finché non saremo in grado di generare una speranza di miglioramento più forte della nostalgia del passato».
Ma non è un fenomeno solo lombardo. Anche nelle regioni del Sud, seppure in scala ridotta, succede una cosa simile. Il Molise, per esempio, è governato dal centrodestra, con Francesco Roberti, nonostante entrambi i capoluoghi di provincia siano amministrati dal centrosinistra con due candidati civici. A Isernia il centrosinistra vinse nel 2021 con Pietro Castrataro; Marialuisa Forte è diventata invece sindaca di Campobasso dopo il ballottaggio di domenica e lunedì, sconfiggendo per 399 voti il candidato del centrodestra Aldo De Benedittis. Alle regionali, nel giugno del 2023, giocò a favore del centrodestra il notevole insuccesso del M5S: il partito di Giuseppe Conte aveva infatti indicato come candidato presidente della coalizione di centrosinistra il sindaco di Campobasso, il grillino Roberto Gravina, ma ottenne appena il 7,1 per cento dei voti, molto al di sotto del 24,1 per cento preso in regione alle politiche del settembre del 2022, solo pochi mesi prima.
Poi c’è la Basilicata, dove gli errori fatti dal centrosinistra in campagna elettorale e nella definizione delle alleanze per le recenti regionali sono stati plateali. Il centrosinistra, che amministra già Matera dal 2020 col sindaco del M5S Domenico Bennardi, ha infatti vinto anche nel capoluogo di regione, Potenza, togliendolo al centrodestra che lo governava da dieci anni, negli ultimi cinque col sindaco leghista Mario Guarente. Al ballottaggio di domenica e lunedì il candidato civico Vincenzo Telesca ha vinto nettamente col 64,92 per cento dei voti grazie al sostegno del PD e di altri partiti di centrosinistra, che si sono ricompattati proprio in vista del secondo turno, dopo essersi inizialmente divisi ed essersi presentati rinunciando ai propri simboli. E così ora la coalizione guida entrambi i capoluoghi di provincia, ma non la regione, governata da Vito Bardi di Forza Italia riconfermato per un secondo mandato alle elezioni del 21 aprile scorso.
Roberto Speranza, ex ministro della Salute e tra i principali dirigenti del PD lucano, motiva solo in parte questa situazione con la diversa composizione sociale dei piccoli centri rispetto ai due capoluoghi. Ma riconosce che il grosso problema è di natura politica: «Nel caso della Basilicata, ad aver pesato sono stati soprattutto errori tattici, per così dire. Hanno cioè influito le divisioni e i veti posti su alcuni candidati e su alcuni alleati. Veti nazionali». Speranza fa riferimento all’indisponibilità del M5S a sostenere la prima candidatura proposta, quella di Angelo Chiorazzo, «che era di gran lunga il candidato più forte come hanno dimostrato poi anche le elezioni, dove lui si è presentato con la sua lista raccogliendo il 10 per cento e risultando il più votato della regione».
In effetti la campagna elettorale del centrosinistra fu quantomeno caotica. Speranza, di cui si era parlato come di un possibile candidato presidente del centrosinistra prima che rinunciasse per motivi personali e famigliari, aveva suggerito la candidatura di Chiorazzo. Accolta con una certa freddezza anche da alcuni esponenti del PD, questa ipotesi fu accantonata soprattutto per la contrarietà del M5S. A quel punto, lo stesso Chiorazzo propose di candidare Domenico Lacerenza, che però decise di ritirarsi. Alla fine, in un contesto sempre più litigioso e dopo che altre ipotesi erano state scartate, il centrosinistra decise di candidare senza molto entusiasmo Piero Marrese.
Le premesse per la sconfitta c’erano già, tuttavia nelle ore decisive dei negoziati per definire le liste e le alleanze elettorali ci fu un’ulteriore baruffa: Conte infatti mise una sorta di veto sull’ingresso in coalizione di Azione. Il partito centrista di Carlo Calenda in Basilicata è guidato da Marcello Pittella, già presidente della regione ed ex dirigente locale del PD che nel 2022, insieme a suo fratello ex senatore ed europarlamentare Gianni, decise appunto di cambiare partito. Lo scorso aprile, dopo essere stati duramente criticati dal M5S, i Pittella decisero di sostenere Bardi del centrodestra, portandosi dietro il loro ampio consenso sul territorio.
È anche a questi veti che fa riferimento Speranza. «In quei partiti c’erano, e ci sono, pezzi tradizionalmente del centrosinistra che per via di questi veti abbiamo di fatto regalato alla destra». Azione alle regionali ha ottenuto il 7,5 per cento, risultando decisiva per la vittoria di Vito Bardi.
Salvatore Margiotta, un altro importante dirigente del PD lucano che è stato più volte deputato e senatore, è ancora più drastico. Rallegrandosi per la vittoria al ballottaggio di Potenza, Margiotta rinnova il suo rammarico per «i tanti errori da matita blu» commessi nell’ultima campagna elettorale per le regionali. «Il più grave è stato commesso dal M5S e da Conte in persona: il veto nelle ultime ore su Azione e sulla candidatura di Pittella, costretto suo malgrado a chiudere l’accordo con il centrodestra». In quelle stesse ore, Margiotta aveva parlato di «masochismo elettorale». «E la mia era stata una facile previsione», dice. «Perché è esattamente in virtù di quel veto che abbiamo perso le elezioni. E così una Regione in cui la voglia di “voltare pagina” rispetto all’esperienza di centrodestra era palese, come dimostra il voto di Potenza, abbiamo regalato ai nostri avversari una vittoria numerica, più che politica, per errori dilettanteschi».