Nei campi italiani vengono sfruttate 230mila persone
Studi e denunce stimano che un quarto di tutti i braccianti impiegati nell'agricoltura lavori senza un contratto regolare e in condizioni molto dure
Molte persone potrebbero non aver mai sentito parlare della Capitanata di Foggia, della Fascia trasformata, della Chjiana di Gioia Tauro, dell’Agro pontino, di Curtatone e della Granda, ma quasi sicuramente avranno assaggiato frutta o verdura coltivata e raccolta in queste importanti aree agricole. La filiera dell’agroalimentare italiano parte dai campi e dai frutteti di queste zone della provincia italiana dove lavorano centinaia di migliaia di persone, quasi tutte straniere e molte delle quali senza un regolare contratto, in condizioni molto dure come quelle a cui era sottoposto Satnam Singh, il lavoratore indiano morto mercoledì pomeriggio dopo aver perso il braccio in un grave incidente sul lavoro.
Il più recente rapporto Agromafie e caporalato, pubblicato nel 2022 dall’osservatorio Placido Rizzotto del sindacato CGIL, stima che nei campi italiani vengano sfruttate circa 230mila persone, un quarto di tutti i braccianti.
Da anni l’osservatorio studia il fenomeno dello sfruttamento in agricoltura, del caporalato e delle infiltrazioni mafiose con un prezioso lavoro di raccolta di segnalazioni e denunce. Dallo studio emerge che il lavoro irregolare ha un’incidenza elevata soprattutto in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio, dove si stima che oltre il 40 per cento dei lavoratori abbia un contratto irregolare oppure non abbia proprio un contratto. In molte regioni del Nord il tasso di irregolarità è solo leggermente più basso, tra il 20 e il 30 per cento.
La componente femminile è rilevante: le stime dicono che sono circa 55mila le donne che lavorano in condizioni di irregolarità e sottoposte a un triplice sfruttamento: lavorativo, retributivo – perché anche tra gli sfruttati la paga delle donne è inferiore a quella degli uomini – e infine sessuale e fisico. Già nel 2017 un’inchiesta giornalistica del Guardian e prima ancora un analogo lavoro dell’Espresso denunciarono le violenze sessuali a cui erano sottoposte le donne, soprattutto rumene, nella cosiddetta Fascia trasformata, un territorio coltivato lungo 80 chilometri tra le province di Siracusa, Ragusa e Caltanissetta, sulla costa sudoccidentale della Sicilia. All’epoca, secondo la cooperativa sociale Proxima che assiste le famiglie nella Fascia trasformata, il 20 per cento degli aborti segnalati in provincia di Ragusa veniva chiesto da donne rumene, che rappresentavano il 4 per cento della popolazione femminile.
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Anche se i territori sono diversi, le denunce e le inchieste fatte negli ultimi 20 anni dimostrano che il sistema è molto simile, al Sud come al Nord. Molti braccianti vengono assunti in nero perché stranieri senza permesso di soggiorno: arrivano in Italia grazie a intermediari a cui pagano il viaggio e qualsiasi tipo di servizio come la ricerca di una casa in affitto. Soprattutto in Sicilia vengono spesso sfruttati i migranti arrivati dal Mediterraneo, ospiti dei centri di accoglienza.
Altri braccianti rientrano nel cosiddetto lavoro “grigio”: vengono assunti regolarmente al massimo per 102 giornate lavorative in 2 anni e in questo modo possono chiedere la disoccupazione agricola, ma in realtà lavorano almeno il doppio, a volte tutto l’anno senza riposo.
In Sicilia, in Puglia o nell’Agro pontino, le famiglie sono costrette a vivere in casolari o in garage e baracche accanto ai campi, completamente isolate, spesso senz’acqua e servizi. I braccianti vengono pagati in media 20 euro al giorno per una giornata che va da 10 a 14 ore, con pochissime pause. Molti hanno debiti con i caporali che esigono una parte dello stipendio, una forma di controllo quasi sempre portata avanti con la violenza. Solitamente i caporali intervengono anche in seguito a incidenti sul lavoro, abbandonando i lavoratori feriti di fronte a ospedali o ambulatori, facendosi comunque pagare.
L’osservatorio Placido Rizzotto ha censito tutte le inchieste per sfruttamento lavorativo avviate dalle procure italiane nel quinquennio tra il 2017 e il 2021: su un totale di 438 casi 212, quasi la metà, hanno riguardato l’agricoltura. La maggior parte è stata aperta dalle procure del Sud, probabilmente anche per via della specializzazione dei magistrati su questo tema. Giovanni Mininni, segretario della FLAI CGIL, ha chiesto al governo di intervenire sul meccanismo del “decreto flussi”, la legge annuale che permette l’ingresso in Italia ad alcune categorie di lavoratori stranieri.
L’ultimo provvedimento preso dal governo è del 27 settembre 2023, e ha fissato le quote d’ingresso per i prossimi tre anni: 136mila per il 2023, 151mila per il 2024 e 165mila per il 2025. Le quote d’ingresso sono state alzate per rispondere alle richieste delle categorie produttive che chiedevano un numero sempre maggiore di persone occupabili (nel precedente triennio le quote erano significativamente più basse: 30.850 per il 2020, 69.700 per il 2021 e 82.705 per il 2022). Questi ingressi regolari avvengono tramite il cosiddetto click day, cioè una prenotazione telematica su un portale del ministero dell’Interno.
La CGIL ha chiesto un aumento ulteriore degli ingressi. «Oggi solo il 20 per cento di chi viene chiamato in Italia vede trasformare il proprio contratto a tempo determinato, tutti gli altri finiscono per rimanere nelle maglie del sommerso», ha detto Mininni al Sole 24 Ore.